Inventare le parole
- don luigi
- 10 gen 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 11 gen 2024
Cenacolo poetico

Inventare le parole
A Matteo
“Come si scrive una poesia?”,
chiese, incuriosito, il fanciullo all’anziano poeta,
“Dimmi come faccio a inventare le parole?”,
replicò con insistenza,
mosso com’era da quell’ansia arcana di far poesia
e dare senso a quelle remote istanze.
L’anziano, sebbene avvezzo all’arte dei poeti,
fu colto di sorpresa e tuttavia
non volle dar l’idea d’indugiare
in quell’insolito silenzio che
sembrava prolungarsi in lui più dell’oltre.
Quando, inatteso, sgorgò da lui come un fiotto
da lasciarlo attonito
e colmo di stupore, disse:
“Tu non devi inventare le parole
ch’esse sono già nel cuore.
A te solo l’arte di sceglierle con cura,
e veder d’amore l’essenza delle cose.
E … come d’alchimia divina,
vedrai nel bello la poesia
accadere in te”.
Luigi Razzano
Iconologia poetica
“Come si scrive una poesia?”. È la domanda che incuriosisce molte persone. Essa ci riporta immediatamente a quell’originario senso di stupore che caratterizza il bambino quando comincia ad affacciarsi alla vita. Tutto gli appare come avvolto da un alone di mistero, nel quale egli, mosso dalla meraviglia, cerca come può di avventurarsi a esplorarne i segreti.
La domanda, in realtà, è solo un pretesto per fare luce su un argomento che da sempre affascina i poeti e quelli che, come il “fanciullo”, malgrado le drammatiche vicende della vita, conservano sempre quell’originario senso di stupore che è al principio di ogni avventura della vita. Cos’è la poesia? Da dove ha origine? Qual è la sua natura? Cosa muove i poeti a fare poesia? In cosa si distingue dalla prosa? Ecco gli interrogativi che intendiamo affrontare qui di seguito. Quella sulla poesia, allora, è una domanda originaria, che ci riporta a quel bisogno innato di dire quello che accade in noi e la realtà che ci circonda, ma di farlo secondo i canoni della bellezza che alberga i noi. Può sembrare una domanda scontata eppure è tra quelle a cui il poeta stesso trova difficile dare una risposta. Sarà perché essa appartiene a quel genere di domande, come quella sulla vita, sull’amore, sul gioco, che pur facendo parte del vissuto quotidiano rimangono inscrutabili, enigmatiche e perfino indecifrabili. Ma non per questo meno esplorabili. Anzi, è proprio quell’alone di mistero a intrigare la curiosità del poeta e a decidersi di avventurarsi in essa. La nostra sarà per questo un’avventura poetica, che ci porterà a indagare il Mistero che ci origina. E anche sotto l’aspetto letterario a conoscere, di volta in volta, i moti ispirativi, il linguaggio, le metafore, i generi, le forme che la caratterizzano. Nel caso specifico, per esempio, il presente componimento assume la forma di una poesia narrativa: un genere letterario che si presta tanto all’evocazione espressiva tipica della poesia, quanto all’argomentazione estesa della prosa.
Al “fanciullo”, come a molti di noi, la poesia appare inizialmente come un gioco di parole e più specificamente, di parole ancestrali, capace di riportarlo all’origine del tempo e delle cose, grazie al potere di cui dispongono le parole stesse. Potere però che egli sa di non disporre ancora e per questo, rivolgendosi al poeta, che lui ritiene essere l’artefice delle parole, chiede: “Dimmi, come faccio a inventare le parole?”. Un interrogativo che ci conduce direttamente all’origine stessa della poesia, come traspare dal significato del termine greco poiësis che significa “fare”, “produrre”, con un implicito riferimento all’atto creativo. Ma a ben guardare la domanda ci rimanda a questioni ancora più profonde e originarie: Perché la poesia? Da dove questo bisogno arcano di esprimersi in versi? Poste in questi termini le domande ci evocano un’istanza di hölderliana memoria: “Perché i poeti in tempo di privazione?”, si chiese a suo tempo il poeta tedesco nell’elegia[1] Pane e vino. La questione, evidentemente molto scottante, venne ripresa in seguito anche dal filosofo Martin Heiddeger, in una sua conferenza del 1946, dal titolo Perché i poeti? inserita poi nella raccolta Sentieri interrotti, come a volerne sviscerare il senso in un contesto culturale profondamente pervaso di nichilismo. Malgrado il tempo trascorso la domanda non sembra aver perso la sua attualità, anche nel nostro contesto culturale, dove l’istanza sembra addirittura denunciare la mancanza stessa di poeti, condizionati come sono da quel nichilismo razionale che ha provocato non solo l’inaridimento dello stupore e della meraviglia – che sono all’origine di ogni avventura poetica della vita – ma perfino lo sradicamento della poesia dalla memoria storica. Una sorta di Alzheimer poetico sembra prospettarsi davanti a noi, anche se qua e là s’aprono squarci di memoria, tali però da farci prendere coscienza ulteriormente del drammatico stato di salute in cui verte la poesia attuale, specie se consideriamo quell’insanabile ferita provocata dal razionalismo scientifico, che ne ha interrotto l’originario e vitale legame col sacro.
Agli occhi del bambino il poeta appare, dunque, come colui che “inventa” le parole, quelle capaci di creare, plasmare e dare senso alla realtà che lo circonda. Un potere questo che, stando alla testimonianza biblica, trova un interessante legame con quello che Dio condivide con l’uomo al momento della sua creazione, quando una volta plasmati gli esseri viventi, gli affida il compito di dare loro i nomi (cf. Gen 2,19). Qui la parola viene percepita non solo come uno strumento comunicativo, ma soprattutto come una facoltà con la quale Dio dà prova del potere creativo della sua Parola: “Sia la luce! E la luce fu” (Gen 1,3). Si capisce allora la ragione per cui Giovanni parla di essa in termini di Verbo, per mezzo del quale “Tutto è stato fatto … e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3). In questa ottica i poeti, come i profeti, sono parole dal Verbo, creati in vista del Verbo (cf. Gv 1,3). E come tali, non “inventano” le parole, poiché essi stessi sono già abitati dal Verbo.
Fare poesia, pertanto, non significa eludere o fuggire la realtà, come certuni credono. Essa non si riduce neppure a un gioco di parole, garantito dalla combinazione più o meno armonica dell’arte metrica di comporre versi. Al contrario la poesia suppone uno sguardo capace di vedere oltre la realtà; o meglio vedere dentro cose l’essenza stessa che le costituisce. Uno sguardo questo che spesso accade di smarrire in età adulta e che invece il bambino custodisce come un tesoro geloso, perché sa che lì è depositato il segreto per fare nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5). Forse è per questo che Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice: “se non vi convertirete e diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). Più che mai questo monito oggi andrebbe rivolto ai poeti. Riletta in questa luce la poesia diventa allora un luogo privilegiato di salvezza, dove la bellezza di Dio si dà a vedere nel suo accadere tra gli uomini.
[1] In ambito letterario l’elegìa è un componimento poetico improntato su motivi di confessione autobiografica, più comunemente conosciuto come poesia lirica.
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