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A chi mi ama

Cenacolo poetico

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A chi mi ama

 

Era ancora buio

quando, trafelate,

corsero al sepolcro e,

giunte ch’erano all’entrata,

scorsero la pietra ribaltata.

 

“Che mai sarà successo

nel cuore della notte?” –

si dissero l’un l’altra –

“ché adagiato l’abbiamo noi

il corpo nel sepolcro,

all’indomani della morte.

Eppure ora, con sorpresa,

non v’è più!”.

 

Stavano ancora discorrendo,

tra di loro, queste cose,

quando, repentino,

un uomo di diafana presenza,

apparve là, nel fondo del sepolcro,

e con voce prorompente disse loro:

“Perché mai cercate qui,

Colui ch’è vivo?”.

 

Dinanzi a quest’annuncio

d’imprevedibile risvolto,

sconvolte e trepidanti,

fuggirono le donne,

convinte di vaneggiare,

come, poi, invero

le dissero i discepoli.

 

E tanto veloce fecero ritorno

al Cenacolo sbarrato

che lasciarono colà,

incustoditi tra le bende,

gli unguenti preziosi e profumati.

 

Giunte, poi, che furono

tra gli Undici,

non ressero la gioia

d’averne udito la parola,

che prime, tra i discepoli,

si diedero all’annuncio:

“È vivo!”.

“È veramente vivo!”

Replicarono con voce intrepida,

“E noi l’abbiam veduto”,

ribadirono col fiato ancora concitato.

 

Poi, calmate che furono,

per via dell’ansia trepidante,

ancora frementi di passione

e senza perdere l’ardore,

spiegarono con sagace acume:

“Il corpo, è vero,

non l’abbiamo esaminato”,

ma quella voce, quella sì,

di certo … credeteci …

era veramente sua!”.

 

Che mai successe in loro

quel mattino chi lo sa?

Eppure quella voce

che agli altri apparve

d’irragionevole follia,

risuona, oggi,

ancora viva tra di noi.

 

Di questo resoconto,

non l’escludo,

magari mi direte 

oggi come allora:

“È solo un’impostura!”,

congegnata ad arte,

da truffatori di ventura.

 

Ebbene io vi attesto:

sarà pure come dite,

ma quante fole

la storia ha palesato,

ch’ora, d’esse,

neppure la memoria

esiste più.

 

Perciò, spiegatemi

quel che accadde allora

e ancora, oggi, tra di noi –

s’intende, sempre se potete –:

“Qual potere arcano

avvolge quest’evento,

da dar l’idea ch’egli

è ancora vivo tra di noi?”.

 

Di certo, ora sosterrete che:

“Risolvere il quesito non possiamo

giacché neppure c’eravamo

quella notte nel sepolcro;

e, pur volendo,

la ragione in noi fatica

a raggiungere i meandri

celati del mistero;

e poi, chi mai fino ad oggi,

ne ha provato con essa la certezza

d’attestare con ragioni

l’ineffabile mistero.

 

“Tu piuttosto, che sei avvezzo

a queste cose, dicci –

ribaltando su di me il fronte dell’istanza –:

come han fatto quelle donne

a sentire la sua voce

nel cuore del silenzio?

Di quale luce nutrirono lo sguardo

da vederlo vivo oltre la cortina

buia della morte? 

O quale Verbo

ha dato loro la parola

da farla risuonare, ancora,

nell’oggi della storia?

 

Ero lì sul punto

di sottrarmi a quell’istanze

che mi parvero da subito una sfida,

per me misero e povero tapino.

Ma poi, non so come,

né da dove, una voce nel silenzio

mi raggiunse e,

con mia sorpresa –

non senza barlume d’incoscienza –

io risposi:

“In effetti, quell’evento

è sì un gran mistero,

ma tra voi, se qualcuno lo vorrà,

ascoltare la sua voce,

oggi stesso, lui potrà,

se di pari a quelle donne,

a stesso morirà.

 

Esse sì, l’annunciarono Risorto,

non già perché videro il suo corpo –

come poi accadde

ai suoi discepoli sul mare –

quanto ché nel cuore

il Verbo, del Vangelo,

dischiuse loro le Parole

oltre il velo della storia,

mentre, nel sepolcro,

della morte facevano memoria.

 

Or, dunque, se vorrai,

 sentire la sua voce tu potrai

quando, nel silenzio,

sussurrando lui dirà

“A chi mi ama

mi manifesterò”.

 

 

 Luigi Razzano


Iconologia poetica


A. William Bouguereau, Le donne al sepolcro (1890). Museo Reale di Belle Arti di Anversa
A. William Bouguereau, Le donne al sepolcro (1890). Museo Reale di Belle Arti di Anversa

Più che una Poesia religiosa, questo componimento è un Inno sacro, o per lo meno presenta elementi caratteristici dell’uno e dell’altra struttura letteraria. Si tratta infatti di un testo dove l’autore, nel fare memoria dei racconti delle apparizioni alle donne (cf. Lc 24,1-11; 28,1-10; Mc 16,1-8), ripercorre i primi passi della fede cristiana. Nel compiere questa operazione fa luce su alcune questioni problematiche fondamentali della fede, relative all’Evento Pasquale, che egli, però, ripropone come pretesto per dare adito a un rinnovato dialogo con la cultura contemporanea, rappresentata qui da un ipotetico interlocutore. Ne scaturisce una riflessione interattiva che, lontana da ogni tentativo apologetico, teso ad offrire le prove razionali inconfutabili con cui dimostrare la vericità della Risurrezione, si procura invece di offrire i presupposti teologici e antropologici per un’autentica esperienza di fede, che malgrado la distanza e la differenza culturale con la mentalità biblica, è ancora possibile fare nell’oggi della storia.

Tipico della Poesia religiosa è il linguaggio: semplice, comunicativo, immediato, scevro da qualsiasi congettura e complessità razionale. Esso attrae l’attenzione del lettore, suscita la sua riflessione, senza distrarre o stancare la sua concentrazione. Per questa ragione anche la metrica risulta caratterizzata da un ritmo incalzante, supportato da versi sciolti, liberi, come l’azione creativa dello Spirito che li ha suscitati. Anche la tecnica espositiva si pone nella stessa scia di quella evangelica, e così prosegue, finché l’autore, non formula l’istanza che segna il passaggio da un linguaggio, per così dire narrativo, a quello riflessivo: “Che mai successe in loro / quel mattino chi lo sa?”, a partire dalla quale si assiste a un susseguirsi incalzante di interrogativi, con i quali dà origine a un vibrante e appassionato dialogo con l’interlocutore.   

Più vicino all’Inno sacro, invece, è l’espressione del sentimento religioso nel quale l’autore fa convergere non solo la fede della comunità cristiana di appartenenza, della per altro quale si fa interprete e testimone, ma anche la sua personale esperienza di fede, per offrire le ragioni teologiche e i antropologiche a chi si accinge a riconsiderarla nella propria vita culturale e sociale. Si tratta chiaramente di un’argomentazione impegnativa, che ha però il vantaggio di condurre il lettore nel cuore della fede cristiana, coinvolgerlo nel dinamismo del suo mistero trinitario e porlo direttamente a contatto con quelle verità fondamentali, dalle quali il lettore non può fare a meno di lasciarsi interpellare. Coinvolto personalmente in questa operazione, il poeta offre al suo lettore i criteri fondamentali della fede, che individua in due condizioni: la disposizione a partecipare e a fare memoria dell’itinerario evangelico della Passione e Morte di Cristo; e la scelta libera e volontaria a compiere quella che san Paolo definirebbe la “kenosi della ragione” (cf. Fil 2,5-11). La prima condizione comporta il coraggio di scendere – come Pietro e Giovanni – nel sepolcro (cf. Gv 20,1-9), e mettere – come Tommaso – il dito nella piaga del costato (cf. Gv 20,26-29). La seconda comporta invece la decisione di tradurre a livello intellettivo le stesse condizioni di “rinnegamento” (cf. Mt 16,24-25) che Gesù chiede a chiunque decide di porsi alla sua sequela[1], come a quei Greci che chiedono di incontrarlo (cf. Gv 12,20-28).

Per assimilare queste condizioni non basta limitarsi ad una formale adesione religiosa, neppure attenersi alle citazioni superficiali di un detto o di una pericope evangelica, ma decidersi a convertire il proprio modo di pensare, amare e relazionarsi, per conformarli a quelli di Cristo, fino a considerarlo l’interlocutore inevitabile e dispensabile della propria esistenza. È all’interno di questo orizzonte relazionale che accade la fede e si dischiude il senso e la ragione dell’Evento Pasquale. Non a caso Cristo si rivela a chi lo ama. “A chi mi ama / mi manifesterò”, dice il poeta riformulando in forma poetica un versetto evangelico di Giovanni 14,21. Fuori da questa relazione d’amore la fede rischia di identificarsi con quella struttura istituzionale che tende a circoscrivere la vita umana all’interno di norme morali e precetti religiosi, limitandone la libertà e la creatività; o a scivolare in una inutile e sterile discussione razionale, atta a nutrire l’intelletto, come purtroppo accade anche a livello teologico, ma del tutto lontana dalla dimensione interpersonale auspicata da Gesù, il cui unico obiettivo è quello di indicare i presupposti per un’esistenza umana pienamente realizzata.

Chissà che questa operazione iniziata dall’autore non si riveli capace di suscitare tra i poeti quel sentimento di speranza che consente di valicare i confini dell’attuale scetticismo esistenziale e gettare uno sguardo nella straordinaria vita nuova (cf. Rm 6,4; Col 3,1-4), inaugurata dalla Risurrezione di Cristo.


[1] Non si tratta di rinunciare alla propria intelligenza, ma al quel modo illuministico di intendere la ragione che molto spesso si rivela limitativo, se non addirittura ostativo, allo stesso sviluppo dell’intelligenza spirituale.

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