Epiclesi poetica
- don luigi
- 27 mar 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 28 mar 2024
Cenacolo poetico

Epiclesi poetica
Ho consegnato le parole
sull’altare del dolore.
Che più rimane
per fare poesia?
Solo sillabe di Verbo
e un’epiclesi d’amore.
Luigi Razzano
Iconologia poetica
“Che più rimane /per fare poesia?” è la domanda cruciale che il poeta si pone in questo particolare momento culturale, dove si va delineando il profilo di una svolta poetica. La domanda evoca quella più nota di sabiana memoria “Cosa resta da fare ai poeti?”[1], che lo scrittore triestino, ancora giovane, si pone dinanzi al dilemma letterario che si apre davanti a lui tra l’indirizzo poetico manzoniano e quello d’annunziano, ovvero tra una poetica sobria, asciutta, sincera, onesta, priva di fronzoli, proveniente dagli Inni Sacri di Alessandro Manzoni e quella più ampollosa, ricca di formalismo estetico e sensuale, costellata da figure retoriche tese ad esaltare l’Ideologia del Superuomo, proveniente dagli scritti di Gabriele d’Annunzio. Pur provando una speciale ammirazione per quest’ultimo, Saba non esita a scegliere l’orientamento manzoniano. Da qui la nota affermazione “ai poeti resta da fare la poesia onesta”.
A mio avviso però la domanda fa luce su una questione ancora più profonda e drammatica che non si riduce al dilemma letterario declinato da Saba, bensì esistenziale, tra chi decide di fare poesia nell’alveo della sfera religiosa di un Dio che sovraintende ancora alla realtà; e chi invece indaga la drammatica condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo all’insegna della “morte di Dio”, con una poetica sostanzialmente nichilista, le cui conseguenza si manifestano anche a livello letterario, con l’inevitabile perdita di senso della parola. Ci si domanda allora se è possibile fare ancora poesia con una “parola relativa”, che ha perso cioè il suo poter creativo, non tanto nel senso immaginifico del termine, quanto ontologico, capace di dire la realtà facendo la verità (cf. Gv 3,21). Sembra allora che la “morte di Dio” abbia comportato come immediata conseguenza, la “morte della parola”, della quale l’attuale crisi poetica è solo un sintomo. E di quale strumento dispone più il poeta per fare poesia, se si priva della parola? Può esistere una poesia senza parola?[2] Essa non è solo indice dell’eloquenza espressiva e comunicativa del poeta, ma è traccia di una presenza arcana in lui, che l’autore del libro della Genesi qualifica in termini di Dio, tanto da essere considerata come un segno della “sua immagine e somiglianza” (cf. Gen 1,27). Nessuna altra creatura vivente dispone della parola come l’uomo. Gli animali e perfino i vegetali dispongono di un linguaggio comunicativo, ma non di una lingua. La parola è l’elemento che distingue la lingua dal linguaggio. Ed essa è esclusiva dell’uomo. Per questo la parola oltre che elemento linguistico, è memoria delle origini dell’uomo e più specificamente delle sue origini divine. Non è un caso allora che le origini della poesia, indipendentemente della civiltà di appartenenza, abbiano radici religiose, tali di lasciare intuire la genesi della creazione. Intuizione che nel caso della Bibbia assume anche un tono rivelativo. Privata di questo potere sacro la parola rischia allora la deriva nominalista e estetista, con delle immaginabili conseguenze poetiche ben visibili nell’attuale panorama letterario.
Ma come recuperare questo potere ontologico della parola? Per rispondere a questa domanda l’Autore della poesia prospetta una soluzione che scaturisce dalla sua esperienza spirituale, la quale trova nell’episodio evangelico della Moltiplicazione dei pani, la sua esplicitazione più eloquente. La versione alla quale egli si ispira è quella di Giovanni 6,1-15, che descrive in modo realistico l’insorgere improvviso di un problema grave, come quello della fame, davanti alla quale i discepoli avanzano le loro proposte risolutive. È significativo notare che essi solo dopo aver sperimentato l’inefficacia delle loro idee, decidono di rivolgersi a Gesù come estremo rimedio, presentandogli quella che a loro avviso, era una proposta apparentemente insignificante: “C’è qui un ragazzo con cinque pani d’orzo e due pesci, ma che sono questi per sfamare tanta gente?” (Gv 6,9). Paradossalmente quella che agli occhi dei discepoli si presentava come una proposta banale e marginale, diventa per Gesù il gesto essenziale per manifestare la potenza della sua parola creativa.
L’episodio evangelico si rivela così estremamente illuminativo per l’attuale questione poetica. Non si tratta allora di scegliere tra una poesia religiosa e una nichilista, tanto meno di scrivere poesie a temi sacri, per fare una poesia “chiara ed onesta”, ma di fare della poesia un atto liturgico, capace cioè di trasformare la povertà e la pochezza delle parole profane in parole poetiche, tali da gettare un fascio di luce sul mistero dell’uomo e di Dio in lui. Sai tratta allora di compiere, a livello poetico, quel processo trasformativo che Gesù compie alle Nozze di Cana (cf. Gv 2,1-11), quando fece della semplice acqua quotidiana una bevanda capace di mettere gioia nel cuore delle persone. Il che comporta la necessità di “consegnare le parole / sull’altare del dolore”, ovvero di cogliere in ogni forma di bisogno umano: materiale, culturale, psicologico, relazionale che sia, un pretesto per andare alle origini del bisogno e interpretarne le reali esigenze spirituali ed esistenziali, di cui essi sono sintomi. Una simile operazione implica il coraggio di “riconsegnare a Dio ciò che è di Dio” (cf. Mt 22,21), ovvero di offrire al “Dio della parola” le proprie parole umane e attendere che egli compia “l’epiclesi[3] d’amore”, per trasformare le parole prosaiche in “sillabe di Verbo”. Chiaramente ciò non esclude l’impegno letterario che il poeta deve profondere nella sua arte poetica, sia sotto il profilo linguistico e comunicativo che formale ed estetico, al quale ogni poeta consacra le proprie forze per fare “poesia onesta”.
Collocata nel contesto della Settimana Santa e più specificamente del Giovedì Santo, giorno dell’istituzione dell’Eucaristia, questa poesia assume una valenza liturgica e teologica oltre che letteraria ed esistenziale, rivelando “ciò che resta da fare al poeta” e, in modo particolare, al poeta sacerdote, come nello specifico dell’Autore.
[1] È l’interrogativo che dà il titolo ad un saggio: Quello che resta da fare ai poeti, scritto nel 1911 e inviato alla rivista fiorentina La Voce, nel quale Umberto Saba esprime la sua idea sull’impegno che spetta ai poeti nel contesto culturale del primo Novecento. Il contenuto, evidentemente scomodo perfino ad una rivista letteraria d’avanguardia come quella fondata da Giuseppe Prezzolini, venne censurato e mai pubblicato. Esso tuttavia fu pubblicato postumo, nel 1959, praticamente due anni dopo la morte di Saba, avvenuta nel 1957. Il saggio può essere considerato il manifesto della poetica del poeta triestino. In esso infatti viene affermata la necessità della chiarezza e dell’onestà che costituiscono i cardini della sua poetica.
[2] Le domande evocano anche le questioni provenienti dal mondo artistico, dove, lo sviluppo del linguaggio astratto nel XX secolo, ha determinato l’eclissi della figura, della bellezza e del concetto tradizionale degli strumenti linguistici come la luce, la forma, e della tecnica artistica.
[3] L’epiclesi è l’invocazione con la quale gli antichi greci chiedevano l’intervento della divinità nelle loro azioni. Nella liturgia cristiana è la preghiera con la quale il sacerdote invoca lo Spirito Santo per trasformare le specie del pane e del vino, in corpo e sangue di Cristo, durante la liturgia eucaristica.
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