Pace
- don luigi
- 28 gen
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Cenacolo poetico

Pace
Non saprei dire il giorno;
ricordo solo ch’era buio.
Di certo, nel cuore della notte,
quando quella volta,
mentre, errando, andavo
per le strade dell’amore,
varcai furtivo
la soglia d’un sagrato.
Non sapevo cosa fosse
e perché mai mi trovassi lì,
ridotto in quell’estreme
condizioni della vita;
eppure m’accadeva
di vivere così:
lacerato dalla brama
di vedermi artista
dal talento raffinato.
Entrai e vagando andavo
lungo le navate
tempestose del mio cuore,
quando di sfuggita
scorsi un’ombra,
tutta rannicchiata
su se stessa,
come avvolta
in un manto di dolore.
M’apparve di soppiatto,
come quelle forme
che si diradano all’aurora
dal buio della notte;
là, nell’antro più recondito
del transetto del mio spirito:
dove s’incrociano gli estremi confini
del divino con l’umano.
M’accostai felpando i passi
al ritmo del respiro
e solo di vicino
m’accorsi ch’ero io.
Per la prima volta m’incontrai
e lì, nella penombra della luce
sentii una voce
che mi diceva: Vieni!
E in quella voce
riconobbi Dio.
Come non mai
mi ritrovai tra le sue braccia,
accolto dal suo amore,
e lui silente,
fissandomi nel volto,
mi disse:
Pace!
Luigi Razzano
Iconologia poetica

Una poesia autobiografica dal tono narrativo è quella che il lettore si ritrova tra le mani, nella quale l’autore evoca alcuni tratti della sua conversione. L’impronta personale tuttavia non gli impedisce di conferire al componimento una valenza simbolica e universale, così da poter essere condivisa anche da coloro che, come il poeta, hanno il coraggio di ritornare a considerare Dio nella propria vita. Una simile stima è, oggi, più che mai auspicabile, specie dopo i drammatici epiloghi esistenziali, determinati dalla prolungata stagione nichilista, che vede tutt’ora l’uomo sfociare nella più angosciante forma di disperazione. Malgrado tutto Dio si rivela, per il poeta, l’interlocutore più autentico e autorevole, capace di dare senso alla sua esistenza. È chiaro che una simile riconsiderazione nasce dalla consapevolezza che una visione religiosa di Dio, tutta incentrata sull’imperativo categorico del ‘tu devi’, e che ha ridotto la relazione col Divino all’osservanza sterile, asfissiante e ipocrita di norme religiose e morali, è ormai tramontata. Colto in questa prospettiva si rivela vero quel proclama nietzchiano che dichiara morta questa visione di Dio. In questo rinnovato orizzonte esistenziale, la fede in Dio-Padre, inaugurata da Gesù, preannuncia una nuova e più feconda relazione d’amore pacificante, che il poeta lascia intravedere a conclusione della sua lirica.
Ogni conversione è un’irruzione di Dio nella vita di una persona. Ad essa segue, seppure non in modo automatico, un progressivo e ineluttabile rinnovamento di mentalità, che si ripercuote anche a livello intellettivo, spirituale e morale. In diversi casi la conversione accade in un preciso momento storico, anche se gli effetti si manifestano durante tutto l’arco della vita e nella misura in cui viene operata un’adeguata riflessione su di essa. In questo caso l’autore lascia imprecisato il tempo in cui è avvenuta nella sua vita, come si evince dal versetto introduttivo: “Non saprei dire il giorno”, sebbene non manca poi di offrire qualche indizio nel corso della lirico: “mentre, errando, andavo / per le strade dell’amore” e “vagando andavo / lungo le navate / tempestose del suo cuore”.[1] Più chiari invece sembrano essere i ricordi della drammatica condizione esistenziale, tipica di quel periodo: “ricordo solo ch’era buio, / di certo, nel cuore della notte”. Ne scaturisce una metafora evocativa della lacerante situazione esistenziale, che si manifesta principalmente nella difficoltà a dare un senso alla vita. Proprio durante questa angosciante oscurità il poeta registra nel suo spirito un moto interiore, apparentemente insignificante e impercettibile, che favorisce comunque l’apertura verso la dimensione religiosa: “varcai furtivo la soglia d’un sagrato”. Questo atto viene ricordato dal poeta come l’evento che è all’origine di una vera e propria svolta spirituale, della quale, però, gli non conosce ancora l’entità e le conseguenze. Di solito quando la conversione è ancora in atto non è facile dire da “chi” o da “cosa” è provocata. Ancora meno è possibile dire il “perché” accade nella vita di una persona piuttosto che di un’altra. Nel caso del poeta, questa svolta spirituale accade a seguito di quella artistica, che stando al suo racconto è avvenuta intorno ai quindici-sedici anni. Dio e l’Arte si profilano davanti a lui come due poli esistenziali, che esercitano una seducente attrazione. L’arte tuttavia gli appare più suggestiva, ma la “brama / di vedersi artista / dal talento raffinato” non tardò a rivelarsi come una lacerante tensione, che lo ridusse a diventare “un’ombra, / tutta rannicchiata / su se stessa, / come avvolta / in un manto di dolore”. Suggestivo è il modo con cui “scorge l’ombra”: “di soppiatto / come quelle forme / che si diradano all’aurora / dal buio della notte”. Altamente simbolico, invece, è il luogo in cui il poeta colloca la scena: “là, nell’antro più recondito / del transetto del mio spirito: dove / s’incrociano gli estremi confini / del divino con l’umano”. Il “transetto” è l’elemento architettonico tipico delle chiese a croce greca e latina. Esso corrisponde al braccio orizzontale che s’incrocia con la navata verticale. Teologicamente questo elemento costituisce il luogo in cui avviene l’incontro del divino con l’umano. A livello esistenziale questo punto di convergenza accade nelle zone più recondite dello spirito, dove è praticamente difficile raggiungere con lo sguardo della ragione.
A questo punto del racconto accade quello che a livello narrativo e cinematografico viene definito ‘colpo di scena’, che consiste in un’improvvisa svolta della trama, usata dall’autore per stupire il lettore, così da mantenere vivo in lui l’interesse per il racconto. Un’espediente letterario questo di cui il poeta si serve per svelare l’identità di quell’ombra rimasta fino ad ora avvolta in un alone di mistero. “M’accostai felpando i passi / al ritmo del respiro / e solo di vicino / m’accorsi ch’ero io”. Questo imprevisto costituisce per il poeta il primo incontro con se stesso: “Per la prima volta m’incontrai”. E proprio lì scopre l’identità di colui che in modo misterioso aveva silenziosamente predisposto le condizioni di quell’incontro: “lì, nella penombra della luce / sentii una voce / che mi diceva: Vieni! / E in quella voce / riconobbi Dio”. Libero da se stesso il poeta scopre l’Io di Dio come il principio costitutivo e il nucleo pulsante del suo io. Scoperta che induce a compiere il passaggio da un io chiuso in se stesso a un io relazionale e aperto all’altro da sé. La conversione si rivela così come un evento d’amore: “Come non mai / mi ritrovai tra le sue braccia, / accolto dal suo amore”. Evento che rapidamente si trasforma in un momento di pacificazione interiore: “e lui silente, / fissandomi nel volto, / mi disse: / Pace!”.

[1] A giudicare da questi indizi si presume che la conversione sia avvenuta durante l’adolescenza.
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