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Tagliare la parola

Cenacolo poetico



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Tagliare la parola


Non di rado mi ritrovo

sul ceppo della vita

a tagliare la parola.

 

E m’accade che

mi si squaderna il Verbo,

quando, repentina,

s’apre ai tagli miei.

 

E non dico di me stesso

quando, di pari, lo Spirito mi svuota

sotto i colpi del dolore.

 

E va di questi tagli il cuore

che poetare mi diventa come orare:

moto mistico di Dio

che del poeta fa un profeta.

 

Musiva è quest’arte mia

di tagliare le parole:

fare d’ogni lettera nel mondo

un tassello dell’amore.

 

 Luigi Razzano

 


Iconologia poetica

 

Tagliare la parola è una poesia che evoca in me vecchi ricordi. Essa è stata scritta diversi anni fa, durante un’esperienza di arte musiva. Poi pubblicata nella raccolta Origliando l’Eterno[1], e ora totalmente rivisitata. In quel periodo mi capitava spesso di rimanere per ore, e talvolta anche per giornate intere, seduto davanti a un ceppo di legno, a tagliare le pietre che sarebbero poi diventate le tessere del mosaico. Durante quella operazione “non di rado” mi accadeva di ritrovare dei fossili, quando, sotto i colpi del martello, le pietre s’aprivano come un quaderno davanti ai miei occhi. E ricordo lo stupore che ne seguiva, per quella scoperta che improvvisamente mi rendeva partecipe di quello straordinario segreto. Per la prima volta, dopo milioni di anni, quei fossili rivedevano la luce, ed io ne avevo aperto l’involucro. Quella inattesa scoperta mi accendeva immediatamente la fantasia, con la quale compivo un viaggio a ritroso nel tempo, fino ad immaginare l’origine ancestrale di quel fossile e di come la materia, quando ancora incandescente e fluida, nel solidificarsi ne aveva inglobato alcuni resti. La scoperta di quel fossile sembrava così dare senso a quella pietra, tracciarne la storia che si era andata stratificando nel tempo.

Questa esperienza diventa qui metafora di quell’operazione più complessa che un poeta, o chi come lui, si ritrova a fare nei confronti delle parole, quando, in circostanze dolorose, ne scopre la radice etimologica. Anche le parole, come le pietre, dispongono di un contenuto ancestrale che si dischiude nel momento in cui, poste sul “ceppo della vita”, si aprono “sotto i colpi del dolore”. Di questo significato originario e profondo, accade spesso di smarrirne la memoria storica, specie quando la parola viene sottoposto allo stesso processo dei fossili, durante le diverse stratificazioni semantiche che si succedono nelle epoche culturali. Da qui l’importanza di scoprirne il senso originario, che nella poesia viene tradotto in termini di “Verbo”, il quale nel rivelarsi “squaderna” [2] il mistero della parola stessa. E “mi si squaderna il Verbo, quando, repentina / s’apre ai tagli miei”. E cos’è il Verbo se non la ragione che dà senso alle parole, alle cose, alle persone, agli eventi, alla storia? Questo senso è custodito come un nucleo incandescente all’interno delle parole. E attende solo di essere portato alla luce.

            Il “Verbo” è un termine che ricorre spesso nelle mie poesie. Esso assume una molteplice stratificazione semantica: a livello letterario definisce l’identità del soggetto che compie un’azione; a livello filosofico definisce la ragione prima e ultima dell’universo; mentre a livello teologico viene riferita a Cristo: la Parola di Dio, “per mezzo della quale e in vista della quale sono state create tutte le cose” (cf. Gv 1,3; Ef 3,10; Eb 1,2). L’evangelista Giovanni nel Prologo al suo Vangelo lo fa risalire a Dio fino a indentificarlo con Lui: “In principio era il Verbo, / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). Il Verbo di Dio è nelle parole umane, e come il fossile nelle pietre, esprime l’essenza stessa delle parole, il loro significato originario, il loro sviluppo semantico.

            Questa operazione lungi dal ridursi ad uno scavo archeologico, assume, a livello esistenziale, tutt’altro significato. Essa diventa a sua volta metafora di quella che lo Spirito compie nel cuore del poeta, quando scarnificandolo, conforma la sua parola a quella di Dio, tanto che la sua arte poetica si trasforma in un’ascesi mistica, fino a fare della “poesia” una “preghiera” e del “poeta un profeta”. Al pari del profeta anche il poeta è perciò chiamato a “tagliare la parola”, ovvero a svuotarla di tutto quella stratificazione culturale che esalta la sua soggettività, a discapito del Verbo di cui egli è la parola. Così purificata la parola del poeta potrà diventare un “tasselli d’amore” per realizzare l’opera musiva di Dio nel mondo.

 

 


[1] L. Razzano, Origliando l’Eterno, Guido Miano Editore, Milano 2013, 54.

[2] Mi ha sempre affascinato l’uso che Dante fa di questo termine, quando, assistito da san Bernardo, nel XXXIII canto del Paradiso, descrive la sua visione di Dio: “Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna”.

 

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