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Sospesi

Cenacolo poetico

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Sospesi

 

Sospesi stiamo

in questo cosmico

mare d’amore

ch’è la vita.

E noi,

come embrioni

bramosi d’eterno,

viviamo in attesa

di vederne

la luce.

 

 

 Luigi Razzano


Iconologia poetica



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Sospesi è una lirica esistenziale, a tratti ermetica, ma dall’intenso sapore religioso. La sua composizione, nonostante la brevità ‘embrionale’ – per usare lo stesso fraseggio – nasce invece da una prolungata gestazione poetica, che l’autore – ci dice – di aver maturato nel corso delle sue vacanze estive al mare, durante le quali, nuotando, gli accadeva spesso di fermarsi ad osservare dall’alto la fauna e la flora marina; e sostando in questa posizione per diverso tempo, avvertiva la sensazione di ritrovarsi come “sospeso” all’interno di un “cosmico seno materno”. L’idea di immaginarsi piccolo come un “embrione” – appena all’inizio del processo evolutivo – gli faceva sentire, poi, ancora più viscerale il rapporto con la Madre Terra, e soprattutto gli dava modo di prendere coscienza della sua estrema piccolezza nell’immensità del mare e quella della Terra nella vastità del cosmo. L’analogia tra l’acqua del mare e quella del liquido amniotico della placenta, gli si rivelava poi gravida di un ulteriore significato, che però rimane celato nella poesia, come in mentis poetae, ma di cui siamo venuti a conoscenza perché l’autore ce l’ha condiviso col seguente interrogativo: e se questo “mare ch’è la vita” fosse metafora di un Seno Divino, all’interno del quale noi viviamo come embrioni sospesi nell’amore? In effetti questa considerazione sembra costituire la chiave di lettura dell’intera poesia.

L’immagine del mare come metafora del grembo divino nel quale viviamo come avvolti da un tenero amore materno, ci procura infatti uno straordinario senso di pacificazione interiore, evocando lo stesso sentimento che proviene dal Salmo 131,2: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, / come bimbo svezzato è in me l’anima mia”. E non è difficile immaginare l’anima dell’autore attraversata dallo stesso sentimento di tenerezza e sicurezza. Cosa alquanto rara in un contesto culturale come il nostro, dove si assiste invece alla diffusa prevalenza di un angosciante sfiducia esistenziale.

Eppure questo sentimento di fiduciosa tranquillità sembra venire improvvisamente attraversato da un turbamento interiore, come un lampo a ciel sereno, quando nuotando, l’autore prende coscienza che in realtà a circondarlo è il mare, biblicamente simbolo del caos, per tutte le forze oscure e indomabili che lo caratterizzano. Il blu profondo e inscrutabile degli abissi, verso il quale gli capita di volgere lo sguardo, gli procura una sensazione di paura e agitazione che lo inquieta, fino a irrigidirlo e a fargli percepire il dramma dell’annegamento; la stessa sensazione che prova quando – ci confida – si immagina perduto nello spazio profondo dell’universo. Si comprende così la ragione dell’aggettivo “sospesi”, con cui egli introduce la poesia, come a voler rendere partecipe il lettore del suo stesso stato d’animo: “Sospesi stiamo / in questo cosmico / mare d’amore / ch’è la vita”. Si tratta di un aggettivo carico di tensione, che fa luce sullo stato di apprensione e di ansiosa attesa che accompagna l’esistenza, specie quando prendiamo atto della condizione di estrema precarietà e provvisorietà della vita, o ancora quando avvertiamo quell’abissale e incolmabile vuoto esistenziale che si apre dentro di noi, a motivo della percezione del non senso. In pochi versetti, sia pure ermetici, l’autore descrive la drammatica sequenza dei sentimenti contrastanti che, in simili circostanze, si si susseguono dentro di noi in modo piuttosto concitato: ansia, inquietudine, agitazione, trepidazione e al tempo stesso: ordine, calma, tranquillità, serenità. Ecco alcuni degli estremi esistenziali tra quali oscilla la nostra vita.

Il sostantivo, particolarmente evocativo, di questa lirica, però, rimane l’“embrione”, colto nell’immediata fase della fecondazione, al quale il poeta paragona l’umanità: “E noi, / come embrioni … / viviamo” questa vita, che per certi versi sembra voler rimanere perennemente allo stato embrionale, riottosa verso quel processo di evoluzione che conduce alla piena maturità umanistica. Una resistenza che è indice di una cultura poco propensa a questo tipo di progresso spirituale, più incline alla bramosia del possesso materiale, che induce non poche volte a considerare l’eternità alla stessa stregua del benessere materiale, come fosse un oggetto di cui accaparrarci. Ignari che la sua partecipazione richiede invece la totale rinuncia a se stessi. La difficoltà ad assimilare questa logica di vita induce alcuni a ritenere l’eternità solo una promessa religiosa; altri un’ipotesi filosofica, per lo più utopica; altri ancora a ritenerla una proiezione del proprio desiderio di immortalità; altri perfino un’illusione intellettiva che scaturisce dalla qualità trascendente della mente; e altri, ma non ultimi, ad assumere verso di essa un atteggiamento di cauta circospezione, più dettato dal calcolo delle probabilità che da un interesse spirituale: chissà? Non si sa mai!

Comunque sia la considerazione, l’eternità rimane una questione aperta che nessuno può affermare o negare finché rimaniamo al di qua di essa. Già, al di qua di essa. Ma questo modo d’intendere l’eternità non è forse limitativo? Se è vero che essa è senza principio e fine, chi ci dice che la nostra temporalità non costituisca già un frammento dell’eternità? E che noi stessi viviamo come embrioni nel grembo dell’Eterno. Se così stanno le cose, l’evento incarnativo del Verbo eterno (cf. Gv 1,14), che ha segnato in due la storia occidentale: a.C e d.C, necessita più che mai di una rinnovata considerazione culturale. L’incarnazione infatti prevede l’assunzione della materia o più specificamente della carne umana da parte del Verbo. Di conseguenza il suo ingresso nel mondo, nella storia induce a valutare la terra e l’umanità capaci di portare in sé l’eterno. E magari quella intuizione giovannea che ha portato il teologo ad affermare che “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16), diventa la condizione imprescindibile che consente all’umanità di partecipare dell’eternità già a partire da questa vita. Il che presuppone lo sviluppo da parte dell’uomo di quelle prerogative morali, spirituali, intellettive, psichiche che consentono una simile elaborazione. Consapevoli di questa rinnovata comprensione “viviamo in attesa / di vederne / la luce”, ovvero di verificarne la piena realizzazione umanistica.

 

 

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