Senza parole
- don luigi
- 19 mar
- Tempo di lettura: 3 min
Cenacolo poetico

Senza parole
Quando ti vedo,
sovente mi scopro
senza parole,
per dirti l’amore
che nutro per te.
Poi repentino m’accheto
quando, sussurrando, mi dici:
“Perché mai cercarle
se già eloquenti
son quelle che,
silenti,
traboccano il cuore?”.
Pertanto, nel mentre
“cupido” sovviene,
non cercare le parole
ché l’amore
si dice da sé.
Luigi Razzano
Iconologia poetica

Senza parole è una poesia dedicata a tutti quelli che, improvvisamente, nella vita si sentono investiti da una travolgente passione d’amore e in queste circostanze si “scoprono / senza parole” per comunicarla all’amata. Questo diffuso e inevitabile disagio sembra essere la principale causa del balbettio che, non di rado, espone perfino al ridicolo. In diversi casi, poi, esso dà luogo anche a una situazione di inquietudine, che rischia di tarpare le ali a chi invece va provando, magari per la prima volta, la vertigine, o per meglio dire, l’estasi dell’amore. E tuttavia tale disagio sembra dileguarsi quando s’incontra qualcuno capace di trasformartelo in un’occasione di riscatto. Da qui il potere delle parole di chi si rivela già navigato nell’oceano dell’amore: “Perché mai cercarle / se già eloquenti / son quelle che, / silenti, / traboccano il cuore? / Pertanto, nel mentre / “cupido” sovviene, / non cercare le parole / ché l’amore / si dice da sé”.
Il disagio comunicativo che l’Autore prende in considerazione in questa poesia, si rivela non solo un tema poetico, ma anche l’occasione per una riflessione sul rapporto che sussiste tra l’Amore e la Parola che lo esprime. In simili circostanze è difficile capire se il desiderio più forte sia quello di esprimersi o quello di amare. Sta di fatto che l’uno non può sussistere senza l’altro. Eppure sempre più spesso accade di amarsi senza dirselo o senza saperselo dire. E invece l’amore cresce comunicandolo. Il che ci fa capire l’importanza della Parola e soprattutto della responsabilità che l’amore comporta, specie quando si giunge a dire all’altra: “Ti amo”. Una formula questa che dice poco o nulla quando è pronunciata fuori luogo o a persone per cui non si nutre alcun sentimento d’affetto, ma che rivela tutta la sua potenza rigenerativa e trasformativa, quando viene pronunciata alla persona amata e in circostanze di reciproca intesa.
La Parola, malgrado i nuovi mezzi di comunicazione, è e rimane la via privilegiata dell’interazione umana. E questo perché essa non è solo un mezzo, come viene solitamente considerata, ma è costitutiva dell’amore. Dire: “Ti amo” significa, allora, scoprirsi parte integrante della persona amata; diventare con lei una sola cosa, fino ad avvertire l’anelito di un solo respiro, di un solo battito, di un solo pensiero, di un solo corpo. E ciò senza nutrire la pretesa di voler includere in sé la sua diversità; al contrario amarla fino in fondo, come la propria libertà.
Quando si giunge a questa forma d’amore, proibire ai due amanti di amarsi, sarebbe come voler arginare le acque di un fiume in piena, dopo una pioggia torrenziale. “Forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione; le sue vampe sono vampe di fuoco … Le sue acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo”, dice il Cantico dei Cantici 8,6-7. E seppure si riuscisse ad arginarlo con una diga, prima o poi l’acqua trasborderebbe dagli argini, con conseguenze più disastrose rispetto a quelle di chi invece si procura di tracciarne un corso capace di farlo sfociare nel mare. Tracciare un simile corso significa plasmare la materia informe dell’amore. Eh già, perché l’amore è informe come la materia inorganica e amare comporta la conoscenza dell’amore, esattamente come l’artista è chiamato a conoscere la materia che intende plasmare. Amare è allora un’arte con la quale si plasma l’altra nel mentre si è plasmati da lei, fino a diventare una sola opera, che non è la somma dell’uno e dell’altro, ma l’unità dell’uno nell’altra. Così vissuto l’amore è una dimensione che ci attraversa e ci trasfigura e come tale, lungi dall’essere arginato entro schemi culturali o moralistici, ci abitua – come dice Gesù nel Vangelo di Matteo – ad avere lo sguardo dei puri di cuore e quindi a vedere Dio (cf. Mt 5,8) nell’altra.




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