Sacrario poetico
- don luigi
- 3 giu
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Cenacolo poetico

Sacrario poetico
Ho udito
questa notte
un grumo di parole
bisbigliare tra di loro.
Non sapevo
venissero da lontano,
né che fossero messaggere
d’un pensiero arcano;
e neppure ardivo
balbettarne la pronuncia,
tanto sacra e ineffabile
ne coglievo la radice.
Ma ora che ho osato
inciderle sul cuore,
ne colgo perfino
la poesia.
Luigi Razzano
Iconologia poetica

Per un poeta giungere al Sacrario della poesia, significa pervenire alla cella più interna e misteriosa della sua poetica creativa, là dove nascono e sono custodite le parole, ovvero gli elementi più sacri della sua arte poetica. Da qui l’attenzione, il rispetto, la cura, la premura, la delicatezza che egli manifesta nei loro confronti. Per questo motivo egli le custodisce e le protegge come l’oggetto più sacro, nobile, divino.
Eppure ad osservare il modo con cui le parole vengono usate, sfruttate, alterate, per non dire adulterate, nel linguaggio comune, vien da dire che forse non v’è elemento più profanato della parola, sottoposta com’è alle più svariate alterazioni semantiche e riduzione nominaliste. Cosa rimane di una parola quando non risponde più ai gusti espressivi del momento; quando cioè diviene fuori moda o, come si suol dire in certi ambiti, esce fuori produzione? Cosa pensa colui che l’ha coniata, semmai si può giungere a tanto, specie quando la sua genesi si perde nei tempi remoti e arcani. Dove vanno a finire le parole desuete? In quale parte del subconscio collettivo vengono riposte? Chi ne conserva più la memoria? E chi ha il coraggio di estrarle o usarle ancora una volta per comunicare il proprio pensiero, qualora la circostanza lo dovesse richiedere?
In realtà le parole passano come tutte le cose del mondo. E non è difficile distinguere le nuove dalla antiche. Eppure ve ne sono alcune che restano e resistono perfino alle ‘manipolazioni genetiche’. Cosa conferisce loro questo carattere eterno? Quale memoria delle origini dell’uomo e del mondo conservano? Quante epoche culturali attraversa una parola? Ah, che lavoro è quello dei filologi. Quanto avremmo bisogno del loro amore per la parola. Chi più di loro è in grado di evidenziare le diverse stratificazioni storiche-culturali che una parola è capace di custodire nella sua memoria linguistica? E quanta luce potrebbero gettare nelle attuali ricerche semantiche, quelle parole che sono rimaste sepolte per millenni nella memoria collettiva e poi vengono improvvisamente scoperte dagli archeologi della filologia? Una simile parola ha lo stesso valore documentaristico di un reperto archeologico? Capace cioè di ridisegnare la storia di un’epoca? E quale sua radice riesce a sfidare i secoli e perfino i millenni da continuare ad essere ancora parlata e scritta nell’oggi della storia? In effetti le parole si evolvono con l’uomo e mutano con la sua visione del mondo; e quelle che di esse rimangono nel tempo non sono solo quelle che resistono alla selezione naturale, o per meglio dire culturale, ma quelle che si rivelano sempre capaci di rinnovarsi nel tempo, per dire dell’uomo la sua essenza. Per un poeta queste parole sono fondamentali, perché sono quelle che fanno la sua poesia; al pari, oserei dire, di quelle coniate da un profeta, quando diventa oggetto dell’ispirazione divina. Esse non passano, perché vengono dall’eterno e tale fanno la sua poesia. E tuttavia non basta dire amore per dire l’Amore. Occorre che la parola tragga dall’Amore la sua forza vitale. Solo così essa ridiventa autentica, vera, potente, creativa. Esattamente come quella divina in cui la parola fa ciò che dice: “Sia la luce, e la luce fu!” (Gen 1,3). E Dio crea per mezzo della Parola e in vista della Parola, per questo essa è luogo rivelativo dell’immagine divina fuori di sé, la quale “è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). Allo stesso modo la parola del poeta è creativa non solo perché è capace di coniare nuovi termini e quindi di trarre dal nulla le idee, i concetti, conferendo loro un’esistenza sensibile; quanto per il potere che essa ha di intercettare l’immagine di Dio impressa nelle cose e di plasmarla nella carne della sua poesia. È il poeta che fa le parole o è la Parola che fa il poeta? In realtà la parola poetica è plasmatrice della sua persona e prima ancora del pensiero di Dio che è in lui, allo stesso modo con cui la scultura lo è della materia e la musica lo è dei suoni. La parola è, dunque, per il poeta ciò che l’immagine è per l’artista: creativa. Parola e immagine partecipano dell’attività poietica nel senso originario del termine, anzi ne sono gli elementi costitutivi ed essenziali, senza le quali nessuno atto creativo, espressivo e comunicativo sarebbe possibile. La loro valenza si rivela determinante per lo sviluppo identitario del poeta e dell’umanità di cui lui si fa interprete; della sua evoluzione culturale, intellettuale e spirituale. Nulla come la parola ha consentito e consente tuttora ai poeti di pervenire all’essenza più arcana dell’uomo e di portarne a conoscenza il segreto. Per un poeta una smile operazione è determinante. Per questo egli, oggi più che mai, è chiamato ad alitare sulle parole “lo Spirito che fa nuove tutte le cose” (cf. Ap 21,5), a soffiare su di esse lo stesso alito divino che Ezechiele soffia sulle ossa inaridite, finché esse non ritornino in vita (cf. Ez 37,1-10).
È in questa cornice profetica che trova senso la presente poesia: “Ho udito / questa notte / un grumo di parole / bisbigliare tra di loro”. Il poeta, allo stesso modo del profeta, ode nel fondo inaridito dell’attuale notte culturale, ovvero nella zona più arcana dell’inconscio collettivo, le parole rumoreggiare tra di loro, come fossero attraversate da un rinnovato bisogno di vitalità. Egli ancora non conosce l’origine e la ragione di questo moto misterioso. Non sa se esso è cifra di un bisogno umano o indice di una rivelazione profetica: “Non sapevo / venissero da lontano, / né che fossero messaggere / d’un pensiero arcano”. Questo limite tuttavia non gli impedisce di cogliere la “sacralità”, l’“ineffabilità” delle parole, da non riuscire neppure a balbettarle: “e neppure ardivo / balbettarne la pronuncia, / tanto sacra e ineffabile / ne coglievo la radice”. E forse è proprio in questa percezione che si nasconde il segreto dell’atto poetico, grazie al quale le parole sembrano assumere una nuova dimensione: “Ma ora che ho osato / inciderle sul cuore, / ne colgo perfino / la poesia”. “Incidere le parole sul cuore” è anch’esso un atto profetico, allusivo com’è di Geremia 31,33. Al poeta non basta scrivere le proprie parole su un foglio di carta per fare poesia, così come a Geremia non basta più incidere quelle di Dio sulla pietra alla maniera mosaica (cf. Es 24,12; 34,1). È necessaria inciderle sul cuore se intende renderle rivelative dell’essenza umana. Quella poesia che per molti è solo frutto di un’abilità linguistica e formale, è in realtà la percezione più profonda e autentica dell’essenza delle parola umana. È qui che viene custodito lo spirito che le rinnova perennemente dall’interno. È qui che il poeta trae l’energia per questo suo Inno alla parola.




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