Preghiera povera
- don luigi
- 23 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Cenacolo poetico

Preghiera povera
Povero
sono venuto alla luce,
e da povero
ho vissuto la vita.
E ora
che sono giunto
al resto dei miei giorni,
non ho nulla
da consegnarti,
Signore,
se non la mia
povertà.
Luigi Razzano
Iconologia poetica

Preghiera povera è un componimento poetico estremamente coerente per contenuto e stile letterario. Povero è il linguaggio comunicativo: conciso, essenziale, breve. Povero è il contenuto espresso: moderato, discreto, sobrio. Povera è la preghiera che ne scaturisce: semplice, chiara, disadorna. “Povertà” è perciò la parola chiave, colta nel suo duplice significato: di indigenza materiale e di umiltà spirituale. Una povertà, dunque quella del poeta, colta e vissuta all’insegna dello spirito della beatitudine evangelica (cf. Mt 5,3): misurata, equilibrata, regolata. La povertà diventa così in lui uno stile di vita: umile, puro, lineare che lungi dalla mendicanza o dal bisogno preteso, vive i beni con distacco, senza alcun attaccamento o forma di possesso. Il poeta, perciò, non ha bisogno di scegliere la povertà, poiché essa è da sempre una condizione che caratterizza la sua esistenza: “Povero / sono venuto alla luce, / e da povero / ho vissuto la vita”. Eppure, nonostante la precarietà che essa comporta, egli l’ha scelta come requisito fondamentale per vivere la sua esistenza nell’umiltà di chi vive totalmente abbandonato alla provvidenza divina, convinto com’è che Dio, senza riservargli alcun privilegio umano, non gli farà mancare assolutamente nulla, anzi intervenendo al momento giusto e nel modo giusto nelle varie circostanze e forme di indigenza della sua vita. La sua diventa così un’esistenza volta costantemente all’attesa fiduciosa di Dio. E forse non c’è altro modo per descrivere questo suo atteggiamento se non quello espresso dal Salmo 122,2: “Ecco, come gli occhi dei servi / alla mano dei loro padroni; / come gli occhi della schiava, / alla mano della sua padrona, / così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio”.
Il profilo della povertà tratteggiata dalla poesia diventa allora quella di chi lascia Dio libero di intervenire nella sua vita, secondo le modalità che Dio stesso decide di volta in volta, per le persone e le circostanze che si vengono a creare. E tuttavia la fiducia che egli nutre in Dio non è quella di un infante irresponsabile, incapace di assumersi gli oneri dei propri impegni, ma quella di un bambino che ha assaporato il gusto della maturità spirituale, verso la quale tende la sua umanità. Egli diventa perciò una persona affidabile, perché consapevole delle conseguenze che comportano la sue scelte e le sue azioni. E senza eludere le responsabilità che la propria condizione comporta, vive la sua esistenza nutrito da sentimenti di fiducia, di gioia, di consegna e di affidamento; costantemente sostenuto da quell’entusiasmo creativo proprio del bambino: sempre aperto alle novità dello Spirito che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5).
Riletta in questa luce quella povertà che comunemente viene intesa come una forma di privazione, attribuibile perfino a una decisione arbitraria di Dio, gli si rivela invece come un dono, per vivere al meglio la sequela di Cristo, secondo la sua esortazione evangelica: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Un insegnamento questo, spesso disatteso in un contesto sociale come il nostro, dove il benessere viene non solo ambito, ma ritenuto anche una benedizione di Dio, più che conseguenza di una scaltra strategia umana; per il cui conseguimento si è disposti perfino a strumentalizzate le relazioni interpersonali, che vengono vissute sovente all’insegna del dominio, del possesso, dell’abuso egoico, perfino in ambito religioso ed ecclesiale. In un simile contesto la decisione di vivere all’insegna della povertà evangelica, richiede un coraggio notevole, perché spesso essa comporta il rischio dell’emarginazione culturale, oltre che sociale. Non è facile vivere da umili quando tutt’intorno esercitano la prevaricazione con notevole disinvoltura, e la considerazione umana che ne deriva è così bassa da divenire facili oggetti di scarto, di cui sbarazzarsi con estrema superficialità. D’altronde che peso possono avere quei poveri che non hanno neppure la possibilità di dare voce alla loro povertà. E tuttavia il povero evangelico è colui che non spera nelle proprie qualità per ribaltare le sorti della sua condizione sociale – lo stesso Gesù pur potendo non si mai appellato al suo potere divino per soddisfare le esigenze personali (cf. Mt 4,3-4; Lc 4,3) – ma nutre la speranza di un intervento di Dio, di diventare cioè oggetto della sua attenzione, di essere da lui tutelato e difeso, specie nei casi di soprusi più accaniti ed evidenti. Ridotto in questi termini, forse nessuno come lui sa attingere la speranza di un rinnovamento sociale che promana dal canto profetico di Maria: “Ha disperso i superbi / nei pensieri del loro cuore; / ha rovesciato i potenti dai troni / ha innalzato gli umili; / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,51-53). Egli spera in una rivoluzione culturale, prima che sociale: in una vera e propria metanoia intellettiva, ritenuta più che mai fondamentale in questa fase di svolta esistenziale, nella quale si ritrova la nostra umanità. È sa che è a questo livello che occorre intervenire se s’intendono creare le condizioni per una rinnovata speranza evangelica e i presupposti sociali per un humus divino del Regno di Dio nel mondo.
Ma questo tipo di rivoluzione il poeta sa che avviene nel silenzio, e in una forma tanto piccola quanto apparentemente insignificante, tanto da non destare nessuna attenzione. Eppure, per quanto irrilevante possa apparire, essa è capace di contenere tutta l’energia necessaria, per dare origine a una visione di vita che dà senso a chi il senso non ce l’ha. Magari agli occhi dei dotti e dei sapienti, o per meglio dire dei potenti, questo senso appare assurdo e utopico, specie quando esso viene alterato con facilità dalle loro tecniche comunicative manipolatorie, giungendo a soffocare persino i più piccoli margini di cambiamento a cui esso può dare origine. In simili casi la speranza assume allora il sapore della sconfitta e la forma diventa quella inconsistente del nulla: l’unica cosa che il poeta è in grado di consegnare al Signore, al termine “dei suoi giorni”. Una magra speranza sembra essere la sua, eppure essa crea i presupposti per una preghiera povera, capace cioè di offrire “solo la sua povertà”, quel tanto quanto basta per offrire a Dio la possibilità di ribaltare la sorte dei poveri e di appagare la fame di speranza, così diffusa in questo deserto di povertà esistenziale.




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