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Ogni sera

Cenacolo poetico

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Ogni sera

 

Sovente mi ritrovo la sera

in questa casa ch’è il mio cuore.

Sull’uscio un pellegrino

di tacita presenza

mi dice: pace!

E la pace viene.

A quest’ora.

Ogni sera.

 

 Luigi Razzano


Iconologia poetica


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Arcabas, L'accoglienza (2019), Chiesa della Risurrezione, Torre de' Roveri, Bergamo

La “sera”, la “casa”, la “pace”: poche macchie lessicali, disposte con un’abile sequenza verbale, per descrivere quell’atteggiamento, a dire il vero, oggi, sempre più raro, del raccoglimento interiore, col quale, invece, l’autore dichiara subito di avere una certa familiarità: “Sovente mi ritrovo la sera / in questa casa ch’è il mio cuore”. Si rivela perciò piuttosto intrigante questa quotidiana confidenza che il poeta manifesta di avere con la vita interiore, specie in un contesto culturale come il nostro, costantemente teso a un esodo esistenziale, in cui tutti sembrano proiettati ad uscire fuori di sé. Un’interiorità poetica e spirituale che rimanda immediatamente alle opere di alcuni artisti che, nella loro epoca, si sono più che distinti nell’interpretazione di questo tema, come Jean Francois Millet e Giovanni Segantini, dei quali basta ricordare L’angelus, La pastorella, Ave Maria a trasbordo, Le due madri.

Da qui alcune domande: cosa consente all’autore di ritrovarsi con se stesso, con questa regolare frequenza? Quale segreto custodisce e come mai si mostra così disponibile a condividerlo con i suoi lettori? La risposta sembra scaturire dai versetti successivi: “Sull’uscio un pellegrino / di tacita presenza / mi dice: pace!”. Un annuncio per nulla scontato. Anzi, forse mai come oggi, avvertiamo così tanto bisogno di pace. Ma di quale pace si tratta? Con un’immagine figurata che l’autore preferisce lasciare nell’anonimato – così da consentire al lettore la libertà di attribuirgli l’identità più affine alla propria sensibilità spirituale – traccia il profilo di un discreto e umile pellegrino, che con un fare misterioso si rivela essere un messaggero. Non sempre è facile riconoscere queste figure che di tanto in tanto e in modo alquanto delicato, entrano anche nella nostra storia personale. Eppure la loro accoglienza può rivelarsi determinante per il futuro e la qualità della nostra esistenza, come fa notare argutamente l’autore della lettera agli Ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2). Come non evocare l’episodio dell’ospitalità di Abramo, presso la quercia di Mamre, dove dietro l’apparente sembianza di tre uomini egli riconobbe il Dio che veniva a rinnovargli la promessa di un figlio? O ancora quello del profeta Isaia che prevede in modo straordinariamente poetico il definitivo ritorno del popolo d’Israele nella propria terra d’origine, dopo la cosiddetta “cattività babilonese”: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annuncia la pace” (Is 52,7).

Al di là della rappresentazione edulcorata con cui siamo soliti immaginare gli angeli, forse più che mai questa metafora ci incoraggia ad accogliere quella voce delicata e riservata che misteriosamente peregrina dentro ciascuno di noi, con lo scopo di renderci partecipi di quella pace di cui si fa latrice. Essa viene a noi, con regolare sistematicità e discrezione, come è tipico dello Spirito, finché la pace, ovvero la definitiva riconciliazione con Dio, non ci diviene quotidiana e familiare: “E la pace viene. / A quest’ora. / Ogni sera”. E lì, solo lì, avremo modo di sperimentare quella singolare intuizione esistenziale di Agostino: “Signore, ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Confessioni, I, 1,1). 

 

 

 

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