La vetrina
- don luigi
- 20 dic 2024
- Tempo di lettura: 6 min
Cenacolo poetico

La vetrina
Racconto breve in forma poetica
Da quando quel giorno,
decise di trasferirsi là a Bètgoy,
un piccolo paesino di montagna
nei pressi di Ebron,
lungo la dorsale sud
dei monti della Giudea,
Karis, era solito recarsi al lavoro,
passando tutte le mattine
davanti alla vetrina,
che – come poi s’informò –
seppe era sempre stata là,
da tempi immemorabili;
sebbene, ormai,
nessuno ricordava più
chi fosse stato il suo padrone.
Ma che importa, tutti gli dicevano,
sapere chi sia il suo gestore,
visto che nel tempo,
quella che ora vedi,
è sempre stata
l’unica vetrina del paese.
Anzi, ti diremo ancora di più,
che di padre in figlio,
di anno in anno,
di cliente in cliente
ciascuno del paese
qui si sente suo discendente.
Ed erano così tanti
quelli che v’entravano
e poi v’uscivano
che di quella vetrina
la soglia, coi passi,
avevano plasmata.
Tutti nel paese,
almeno una volta nella vita,
l’avevano varcata,
tanto che dal ritmo sonoro
dei quei passi, quella soglia
di ognuno conosceva il peso,
e se avesse potuto,
avrebbe detto il nome,
i bisogni e perfino le passioni.
E ciascuno, vi trovava
quello che cercava:
stoviglie, vasellame, posate,
tovaglie, oggetti vari,
accessori per interni e per giardini,
lampade, lampioni, ceri, cerotti,
dipinti, immagini votive,
mobili alla moda
cibo, bevande, vestiti,
saponi, detersivi, piante
e animali di diverse specie …
V’era, insomma, tutto per la casa;
finanche delle spezie
si sentivano gli odori
dei paesi assai lontani.
E se volete, vi dirò
anche un mio segreto,
ché pur io tra i tanti vi son stato:
a chi nei meandri più oscuri
decideva, con pazienza eh, d’inoltrarsi,
oggetti d’oro e perfino
perle assai preziose vi trovava.
Che dirvi?
Un emporio della vita,
così vivo e animato
era il brulichio della gente.
Karis, preso dalla fretta
del lavoro duro e logorante,
passava e di solito sbirciava,
così veloce,
come lo sguardo dei viandanti.
Solo di tanto in tanto,
si fermava a scrutare
tra le cose, così a caso,
e, se la circostanza lo permetteva,
volentieri vi gettava uno sguardo,
seguito da un sorriso compiacente.
Ma quel giorno,
quel giorno, accadde in lui
un fatto strano:
in modo insolito si fermò
e incuriosito si mostrò
dinanzi alla vetrina,
attratto come fu
da quelle inattese novità,
che stranamente quel mattino,
parevano mostrarsi
di seducente rarità.
Fu per lui, quella volta
la prima delle svolte,
che nel seguito
divennero frequenti,
più degli sguardi
veloci dei passanti.
E nessuno come lui si fermò,
capace come fu
di notare quelle strane novità.
Che dirvi?
Cosa mai l’attrasse non saprei.
… Ma forse sì.
Ora che ci penso,
conoscendolo, vi spiego:
lui più degli altri
arguto, quella volta, si mostrò
nel vedere in modo nuovo
quelle cose, forse antiche sì,
ma di rara novità.
In effetti, a ben guardare,
nulla che vedeva era mutato:
né l’assetto dei telai,
né il colore degli oggetti,
benché meno la forma delle cose.
Ma allora, mi direte:
cosa mai, quel mattino,
catturò la sua attenzione?
Ordunque, state attenti,
che vi svelo il suo segreto.
Ero ancora intento
a carpire queste cose
quando, repentino, sul momento
riaccadde, inatteso, quell’evento.
Ebbene sì, io lo vidi
che testimone orsono
di quello che vi dico:
nel mentre lui sbirciava tre le cose,
lo sguardo suo, col mio, si pose
come a mettere a fuoco
quell’immagine fulminea
apparsa sopra la vetrina;
e, ora, lì, davanti a noi,
in trasparenza si fletteva
in quell’insolito riverbero di luce.
La cosa accadde
non senza attonito stupore
che lui, incredulo, si chiese:
“Oh, che mai è questo cielo
che ora si concede,
perfino a una vetrina?”.
E smarrito, come si trovava,
in quel gioco di mistico riflesso,
neppure comprendeva
quanto intorno gli accadeva.
La cosa colpì pure la mia attenzione
che senza esitazione
mi volsi a lui dicendo:
“Dimmi – tu che puoi –
parlami di quest’arcana dissolvenza:
tra lo sguardo mio e l’immagine del cielo
che mi pare di vedere dentro
o, per meglio dire, oltre la vetrina?”.
Lui capì e silente, con sorriso,
fisso mi guardò,
come a dirsi: “finalmente m’ha trovato!”.
Ma chi? Ch ch … chi mai t’ha trovato?
Chi … Non feci in tempo a
balbettare la domanda,
che lui m’aggiunse:
“Voltati … se vuoi!
Non t’accorgi?
Quell’immagine in vetrina
è una metafora del cielo
che qui, nell’oggi,
di riflesso noi vediamo”.
Non ressi a quell’invito
e neppure alle parole
che mi parvero soavi.
Senz’indugio, mi girai,
e … per la prima volta vidi.
Era diafano come la luce
adamantina del mattino
e d’aspetto folgorante, assai,
più del sole nel massimo splendore.
Non feci in tempo a veder
quel volto suo, del tutto,
quando d’improvviso lui svanì,
sebbene istintivo il cuore mi portò –
certo un po’ confuso e concitato –
a ricordare quel messo alato,
o forse uomo chi lo sa,
apparso a quella giovane ragazza,
… ehm … Maria,
lì nella ragione della Galilea, o giù di lì;
… sì, di quello che …
nel mentre lei tessendo stava
al telaio dell’amore,
lui gli apparve svelandole
il Verbo della storia.
Di certo mi direte:
“L’affinità con lei non regge,
ché troppo grande
è la distanza tra il suo
e il modo tuo di vedere il cielo”.
Di pari anch’io vi dico:
“Ebbene sì, stan così le cose,
che confrontarmi con lei non oso!”.
Ma di certo tacer non posso
se in quello sguardo
l’animo mio s’estese,
come il grembo suo di donna,
fino a contenere l’immensità del cielo.
E chissà, se pure a lei
non parve di vedere in dissolvenza
questo stesso cielo mio
sulla vetrina del suo cuore?
D’allora – io v’attesto –
che di quello sguardo
mistico del cielo
la ragione lui cercò;
e perché mai
quel mattino si fermò,
attonito a guardare,
lì nella vetrina sua dell’anima,
ma nascosta gli rimase quest’istanza
nei meandri dei pensieri.
Sebbene da quel giorno
– come in tanti poi
s’avvidero a notare –
quell’evento fu per lui
un roveto che splendeva
dalla cella del suo cuore.
Luigi Razzano
Iconologia poetica

Una prosa in forma poetica è quella che viene proposta dall’autore di questo Racconto breve. Essa narra la storia di un evento singolare, accaduto in un piccolo paesino di montagna di nome Bètgoy (letteralmente Casa dei popoli), a sud della Giudea: la regione del territorio Israeliano più vicina alla palestinese Striscia di Gaza. Protagonista di questa insolita vicenda è Karis, un giovane provinciale, dall’aspetto assai grazioso e gentile, sempre amabile e pieno di gratitudine verso tutti, esattamente come il significato del suo nome. Egli si era trasferito lì dalla sua città natale. Il nuovo incarico lo portava a passare quotidianamente davanti a una vetrina, l’unica di tutto il paese, che una mattina, inaspettatamente, lo rese oggetto di un insolita vicenda. Da qui il nome: La vetrina che dà il titolo al componimento.
L’ambientazione scenografica, il nome del paesino, come quello del protagonista, conferiscono all’intero racconto un significato particolarmente simbolico, con chiari riferimenti agli attuali episodi bellici che stanno drammaticamente martoriando questo territorio, attraversato da un odio recondito e apparentemente implacabile. Non mancano scene e dialoghi che evocano quegli episodi biblici che hanno segnato la storia della salvezza, in particolare quella dell’Annunciazione a Maria, di cui questo racconto poetico intende essere una moderna e sorprendente rivisitazione. A testimonianza di quel modo imprevedibile di Dio di operare nel mondo, col quale, non di rado, stravolge quei pregiudizi morali impietosi, radicati in tanti perbenisti “uomini di fede”, che precludono agli altri la possibilità di vedere l’essenza della realtà oltre l’apparenza delle forme.
Nell’immaginario comune, infatti, la vetrina costituisce l’emblema dell’esteriorità, il simbolo della futilità e della vanità. E oggi più che mai, condizionati come siamo dalla cultura dell’immagine, questo fenomeno appare sempre più dilagante e per certi versi preoccupante, non solo per il coinvolgimento emotivo ed economico che esso provoca, ma soprattutto per la mentalità epidermica e superficiale che ne scaturisce. Eppure, malgrado ciò, la vetrina, in questo caso diviene addirittura luogo di una teofania (dal greco Theos “Dio” e da phàinein “manifestazione”, letteralmente “manifestazione della divinità”). La realtà, come la vetrina, ci appare opaca quando il nostro sguardo è offuscato dall’ambiguità, dalla doppiezza, dalla falsità, dalla finzione. Diversamente essa ci diviene trasparente, quando il nostro sguardo è puro. Omnia munda mundis, “Tutto è puro, per i puri”, recita il noto motto latino. Avere uno sguardo puro non significa essere moralmente integerrimi, ma avere la capacità di intercettare la presenza di Dio anche nelle situazioni morali più incresciose e drammatiche. Il che significa riuscire a vedere oltre la realtà della vita. Questa si dispiega sì davanti a noi, ma il suo segreto ci rimane spesso oscuro, inafferrabile e perfino indecifrabile. Ciò significa che il mistero accade, per così dire, alla nostre spalle. E misterioso ci rimane finché non riusciamo a cogliere il suo senso più recondito, ovvero quell’essenza che comunemente chiamiamo Verità. La realtà quotidiana diventa allora la via per accedere alla Vita divina. E ciò accade quando viviamo nella Verità, ovvero nella totale trasparenza di noi stessi. Un po’ come quello che accadde ai due discepoli di Emmaus, ai quali “si aprirono gli occhi e riconobbero Gesù nel Risorto”, solo quando lui spezzando il pane, condivise fino in fondo le loro ansie e speranze (cf. Lc 24,31).
La particolarità di questo racconto è quella di presentare una struttura narrativa caratterizzata da scene che si prestano a diverse interpretazioni. Perfino il cronista prende parte attiva agli eventi che vi accadono. Questo stratagemma narrativo provoca, almeno si spera, nel lettore una maggiore partecipazione personale. Da qui la decisione di omettere il solito commento critico, e di lasciare al lettore la libertà di cogliervi i significati che meglio rispondono alle istanze della sua sensibilità culturale, spirituale e teologica. Lo scopo è quello di offrire, perché no, al lettore una possibilità di inoltrarsi nell’avventura della critica letteraria.




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