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Di notte

Cenacolo poetico



Di notte

 

Di notte

nel deserto

le stelle sembrano

a portata di mano,

quasi a un tiro di schioppo,

ma che dico:

a un palmo dal naso;

o forse ancora di più:

a una sola cosa da noi,

prossima all’uno;

come fossero

frammenti di cielo

che ci pervadono l’anima.

Chissà che

non venga dagli astri,

il nostro respiro;

quell’arcano soffio vitale

che fa di ciascuno di noi

un’avventura divina

in quest’immenso mistero

ch’è la vita.

Nel deserto …

in questo deserto

cosmico dell’uomo,

le stelle …

le stelle siamo noi,

quando per amore

illuminiamo di senso

la notte nei cuori.

 

 

 Luigi Razzano


Iconologia poetica

Siamo soli nel cosmo? La nostra è l’unica forma di vita? Da dove o chi le ha dato origine? E qual è il senso di questa vita? Il nostro è un universo o un pluriverso? E qual è la forza o l’energia che lo fa sussistere e gli impedisce di collassare su se stesso? Sono solo alcune delle domande che più d’ogni altre emergono da questa poesia, che nasce dalla contemplazione di una notte stellata, durante la quale l’autore immagina di ritrovarsi ad osservare lo spazio cosmico del cielo, dove orbitano astri e galassie. Una contemplazione che si prolunga per tutta la notte finché lo scenario che si dispiega davanti a lui non diventa evocativo di quel cosmo infinitamente più piccolo che si dischiude dentro di sé; e rimanere così: come sospeso sul confine, tra l’immanenza e la trascendenza, tra ciò che visibile e ciò che è invisibile.

Ma le domande e ancora più le questioni che esse suscitano, gli appaiono così impegnative e superiori alle sue possibilità che preferisce limitarsi a formulare una considerazione, più che dare una risposta definitiva. Ne scaturisce una riflessione che consente al lettore di partecipare della stessa dimensione contemplativa dell’autore.

L’incipit poetico è la straordinaria sensazione che si prova nel deserto durante la notte, quando la totale assenza dell’inquinamento luminoso, tipico delle nostre città, rende possibile una visione quasi ravvicinata del cielo stellato. Un contatto a tu per tu col cielo, così immediato da percepirlo “a portata di mano, / quasi a un tiro di schioppo / ma che dico: / a un palmo dal naso”. Le immense distanze siderali sembrano improvvisamente scomparire e questo lo pongono nella condizione un’intima partecipazione alla stessa vita cosmica. Questa perfetta integrazione induce il poeta a spingere la sua immaginazione oltre ogni suo limite, a osare perfino l’impossibile, a sentirsi cioè una sola cosa con le stelle: “prossima all’uno / come fossero / frammenti di cielo / che ci pervadono l’anima”. Questo azzardo esistenziale gli suscita un’istanza spirituale: “Chissà che / non venga dagli astri, / il nostro respiro”. Non che le stelle fossero all’origine di tutto, ma che la loro materia, stratificata nel tempo, conserva certamente la memoria delle origini, da riportarci a quel primordiale atto creativo, mentre la materia informe e le cose che da essa tratte, venivano attraversate dall’alito divino (cf. Gen 1,1-2) che le infondeva la vita. Può sembrare paradossale e in effetti lo è: un universo così complesso, molteplice e articolato è essenzialmente animato dal lieve mormorio d’un respiro (cf. 1Re 19,12-13): “quell’arcano soffio vitale / che fa di ciascuno di noi / un’avventura divina / in quest’immenso mistero / ch’è la vita”.

E quando la poesia sembra concludersi ecco la svolta che ne chiarisce il senso. La notte evocata non è solo quella cronologica del tempo, bensì quella esistenziale, nella quale si ritrova l’attuale umanità. È qui che si comprende l’identità, la funzione e il senso delle stelle: “Nel deserto … / in questo deserto / cosmico dell’uomo, / le stelle … / le stelle siamo noi, / quando per amore / illuminiamo di senso / la notte nei cuori”. Ed è forse in questa operazione interpretativa che ciascuna persona trova senso e pienezza di vita.

Ecco allora profilarsi i presupposti per addentrarci nella stessa attività contemplativa dell’autore.  È facile immaginarlo da solo durante la notte, sdraiato supino tra le dune, con lo sguardo volto al cielo, animato dal desiderio di percorrere lo spazio cosmico in tutta la sua vastità, spaziando da un capo all’altro dell’universo, per vedere da vicino il dinamismo orbitante degli astri, saltando da una galassia all’altra, osservarne le strutture molecolari che ne determinano le origini e le condizione che ne provocano la fine. Assistere nel silenzio a tutti quegli eventi cosmici che accadono nella più assoluta discrezione del cielo, ripercorrendo con la memoria tutti quelli che invece sono accaduti nel passato. Quanta preistoria c’è ancora da indagare nell’universo, semmai giungeremo a documentarne le origini e con esse il senso e le ragioni della vita. D’altronde chi mai potrebbe limitare questa sete d’infinito che gravita nell’uomo? Per soddisfare la quale il poeta ha immaginato perfino di vedere l’intero cosmo in un solo colpo d’occhio, magari dall’esterno o forse sarebbe meglio dire: dall’alto. Ma è possibile un simile punto di vista? Pur consapevole di trovarsi dinanzi a un limite oggettivo egli non si preclude la possibilità di cogliere la contemplazione come la condizione per vedere dall’Altro, ovvero da Dio l’universo. Questa visione sarà pure assurda e misteriosa agli occhi di molti, ma non per questo meno gravida di senso per l’esistenza umana. E l’uomo ha bisogno di senso, magari divino, per vivere in “quest’immenso mistero / ch’è la vita”.

 

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