Più
- don luigi
- 18 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Cenacolo poetico

Più
Più delle mani il cuore
mi plasmano le tue parole;
più del bulino il bronzo
mi cesella il tuo Spirito;
più della linfa i rami
mi nutrono i tuoi pensieri;
più dell’anima la vita
mi fa spirare il tuo amore;
più della pioggia il mare
mi colma la tua grazia;
… Eh sì, ché io vivo
non già perché
sono da me stesso,
né perché più del volere
è il mio potere,
o perché magari,
come sovente accade
agli uomini tra loro,
di ricevere col nome
il sigillo della gloria,
quanto ché,
più di tutti,
sei tu che
vivi in
me.
Luigi Razzano
Iconologia poetica
Più è l’avverbio che dà il titolo a questa lirica, col quale l’autore attesta la sovrabbondante e incisiva azione spirituale di Dio nella sua vita, rispetto alle operazione della sua attività intellettiva e artistica. Una lirica dall’intenso sapore autobiografico, eppure dal contenuto così oggettivo che ogni lettore potrebbe personalizzarla a seconda della propria sensibilità culturale, spirituale e poetica. Una presenza, tuttavia, quella di Dio che non viene mai esplicitata se non percepita nell’ultimo versetto: “sei tu / che vivi in me”, che appare una chiara citazione paolina (cf. Gal 2,20), dal riferimento cristologico, a testimonianza della mistica relazione che il poeta, alla maniera dell’apostolo, intesse con lui. Che la lirica sia autobiografica lo si capisce anche dall’uso delle diverse metafore che vengono sciorinate una dietro l’altra, che mentre ribadiscono l’attività scultorea dell’autore, alludono anche alla performante attività della Parola e dello Spirito che modellano e trasformano la sua personalità, conformandola all’immagine di Cristo in lui, quale manifestazione di Dio, come ribadisce l’autore della lettera agli ebrei: “Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). Si tratta però di un’immagine solo intravista, che diviene visibile nella misura in cui il poeta esercita “l’arte di levare le lettere”, per citare un verso inedito della sua produzione poetica. Allo stesso modo dello scultore, infatti, l’autore, grazie alla sua arte poetica, trae dalla materia informe del suo inconscio l’immagine di Cristo. Ne scaturisce una visione che mette a fuoco la poetica dell’autore. L’immagine di Dio, infatti, costituisce per lui l’archetipo, verso il quale fa convergere le sue attività artistiche e letterarie, per darle forma attraverso la sua persona. Si capisce allora il senso del motto evangelico che costituisce il programma di vita dell’autore: “Chi vede me, vede il Cristo” (cf. Gv 14,9). Tutto converge verso la manifestazione di Cristo in lui.
Ogni metafore è allusiva di una diversa modalità di intervento di Dio nella sua vita: così “Più delle mani” le “parole di Dio plasmano il suo cuore”; “più del bulino il bronzo / lo Spirito cesella” la sua persona; “più della linfa i rami” lo “nutrono i suoi pensieri”; “più dell’anima la vita” lo fa “spirare il suo amore”; “più della pioggia il mare” lo colma “la sua grazia”. Metafore che sembrano poste a caso e invece tracciano la crescente comunione di Dio nella sua vita, fino a quella mistica e piena partecipazione divina in cui Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28). Questa progressiva azione mistica di Dio trova il suo compimento nella piena adesione a Cristo, che costituisce la ragione della sua vita, come egli stesso afferma nella seconda parte della poesia: “… Eh sì, ché io vivo / non già perché / sono da me stesso”. Il poeta è perfettamente consapevole di non essere l’artefice della sua esistenza. Non è stato lui ad auto-crearsi e neppure ad auto-chiamarsi. Egli non dispone nemmeno di quella “volontà di potenza”, nietzschianamente intesa, tale da poter determinare il profilo della sua persona. Intanto la sua volontà ha potere in quanto è fondata su quella di Dio in lui. “Tutto possiamo in colui che ci dà forza” (Fil 4,13). Egli, invece, è il risultato di una perpetua relazione d’amore che affonda le sue radici non solo nelle remote origini dei suoi avi, ma anche nell’arcana volontà divina. A determinare il profilo della sua personalità non sono i suoi antenati. Il poeta, infatti, non dispone di un albero genealogico costituito da eminenti personalità che abbiano in qualche modo orientato e definito le sorti della sua vita e ricevuto “col nome / il sigillo della gloria”, “come sovente accade / agli uomini tra loro”. Decisiva invece è stata l’opera di Dio che nel più assoluto nascondimento e lontano da ogni clamore mondano, ha plasmato un uomo “secondo il suo cuore” (cf. At 13,22; 1Sam 13,14), dimostrando in questo modo cosa è in grado di fare Dio quando incontra un cuore che si fida totalmente di lui. Una fiducia questa che è il risultato di una progressiva rinuncia a se stesso e a tutto ciò che la sua arte avrebbe potuto comportare nella sua vita, per aderire a quell’azione creativa con cui lo Spirito è andato misticamente operando nella sua vita. Chi è il poeta? Chi è l’artista se non colui che prima ancora di imitare le parole di Dio e le forme del creato, partecipa dell’azione creativa del Verbo e dello Spirito di Dio nel cosmo. Così nel mentre lui ritiene di plasmare la materia, per dare forma alle sue opere, lo Spirito e il Verbo plasmano l’immagine di Dio nella sua persona. Inserito in questa sinergia creativa il poeta partecipa di quel misterioso piano divino che dispiegherà l’immagine di Cristo nel cosmo. È in questo senso che Cristo è colui che “più di tutti” vive nel poeta.
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