9 Luglio 2023 - Anno A - XIV Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 8 lug 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30
L’inno di giubilo di Gesù:
le disposizioni spirituali per la fede in lui

“Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai semplici. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio, nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,25-27). Quello appena letto è il cosiddetto Inno di giubilo, col quale Gesù loda il Padre, per aver deciso di rivelare il mistero della loro relazione divina ai semplici, piuttosto che ai dotti. Si tratta di una preghiera di lode che Gesù formula, probabilmente al termine di una giornata di predicazione, durante la quale ha avuto modo di sperimentare una chiara opposizione da parte dei farisei, ovvero di quelli che costituivano l’intellighenzia religiosa, membri dell’aristocrazia ebraica. Di contro egli prende atto che il suo messaggio evangelico trova un’evidente accoglienza da parte dei “piccoli”, ovvero dei “poveri in spirito” (cf. Mt 5,5). Da qui la sua preghiera di lode che fa luce sulla logica rivelativa del Padre e sulle disposizioni spirituali per accedere a questo mistero divino.
Per meglio comprendere il senso di questa preghiera è opportuno collocarla nel contesto narrativo dal quale scaturisce. A questo riguardo vi invito a leggere il capitolo 11 del Vangelo di Matteo, e poi quello 10 del Vangelo di Luca, nel quale lui riporta la stessa preghiera di Gesù. Dal confronto emerge chiaramente una differenza: mentre in Luca Gesù loda il Padre per le meraviglie operate attraverso i settantadue discepoli, durante la loro prima esperienza missionaria, in Matteo Gesù loda il Padre per aver tenuto nascosto il segreto della loro identità divina ai dotti e averla rivelata ai semplici. Un contesto dunque completamente diverso, dove Matteo sembra voler evidenziare maggiormente le tensioni tra Gesù e i Farisei e individuare le ragioni che inducono questi ultimi a giustificare il loro rifiuto a Cristo. In realtà questo rifiuto viene manifestato precedentemente già nei confronti del Battista, del quale non hanno voluto riconoscere le origini profetiche della sua missione battesimale (cf. Lc 20,1-8). Animati da un simile atteggiamento diventa particolarmente difficile riconoscere Gesù come “colui che deve venire” (cf. Mt 11,3; cf. 3,11). Occorre cogliere la continuità di questa linea profetica, per capire la messianicità di Gesù, senza la quale si rischia di uscire fuori dalla logica rivelativa di Dio. Questa indisposizione d’animo che Gesù constata nei confronti del Battista, è la stessa che sperimenta anche nei propri confronti. Essa costituisce perciò la ragione principale che impedisce loro di accogliere e riconoscere l’autenticità di qualsiasi profeta.
Gesù nota che questo atteggiamento di rifiuto si annida, in modo particolare, nel cuore di coloro che in virtù delle loro conoscenze teologiche, si ritengono autosufficienti, capaci cioè di poter conseguire la salvezza appellandosi alle loro qualità intellettive e morali. Questa sorta di autoconvincimento razionale li fa sentire al sicuro, al punto da poter negare l’autenticità della testimonianza di Gesù, il quale attesta la sua origine divina non in base a parole, ma in virtù delle sue opere messianiche. Addirittura essi ritengono devianti e dannose le sue affermazioni e sacrileghe le sue opere, perché a loro avviso non provengono da Dio, ma dall’arroganza di un uomo presuntuoso che opera perfino in nome di Belzebùl, principe dei demoni (cf. Mt 12,24). Per cui molti di loro, pur avendole viste con i loro occhi, hanno continuato a negarne l’evidenza. Da qui il “guai” (Mt 11,21) che Gesù pronuncia nei loro confronti e nei confronti degli abitanti di quelle città nelle quali ha operato il maggior numero di prodigi, e cioè Gorazin, Betsaida e soprattutto Cafarnao (cf. Mt 11,20-24), città nella quale si era trasferito all’origine della sua predicazione pubblica (cf. Mt 4,13). Malgrado tutto Gesù non pronuncia alcuna forma di maledizione verso di loro. Le formule verbali: “guai” e soprattutto “precipiterete negl’inferi” (Mt 11,23), anche se suonano dure, non sono sentenze di giudizio, poiché egli non è venuto a giudicare (cf. Gv 12,47), ma costituiscono disperati appelli di un profeta che fa di tutto, affinché essi si ravvedono e si convertano. Attraverso di esse Gesù intende prospettare loro le inevitabili conseguenze a cui vanno incontro, se non abbandonano la loro ostinata caparbietà morale e intellettiva. Eccoci allora giunti al nostro brano evangelico, dove Gesù sembra essere animato dal desiderio di rivelare ai suoi discepoli il segreto per acquisire quelle giuste disposizioni d’animo, che rendono possibile la fede in lui e consentono di partecipare alla relazione d’amore che egli intesse col Padre. In questa ottica appare ancora più chiaro il significato del passo parallelo: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, mentre a loro non è dato” (cf. Mt 13,11).
Ma quali sono queste disposizioni di cui si parla? Nel rispondere alla domanda vorrei partire dai brani biblici del profeta Zaccaria e quello di Paolo ai Romani. Zaccaria presenta il profilo di un re che oscilla tra l’autorevolezza di un condottiero militare e politico – immagini che hanno lo scopo di esaltarne la potenza, l’onore, la grandezza – e la semplicità di un modesto e umile israelita. Ad accrescere il suo aspetto paradossale contribuisce anche la sua cavalcatura: non un cavallo gualdrappato, ma “un puledro figlio d’asina” - immagine tra l’altro prefigurativa di quella dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme -. Egli è re giusto e vittorioso, sovrano di un regno esteso: da “mare a mare”, “fino ai confini della terra”. Malgrado tutto, però, egli assume gli atteggiamenti di un uomo semplice, che non si inorgoglisce delle sue imprese. I suoi portamenti non sono quelli di un dominatore, ma di un uomo mite, semplice, pacifico. Anzi, il suo scopo è quello di mettere fine alle imprese militari e belliche, “facendo sparire il carro da guerra” e “spezzando l’arco di guerra”. Il suo unico desiderio, dunque, è promuovere la “giustizia” e la “pace” (cf. Zc 9,9-10).
Nella stessa scia si pone anche il brano di Paolo, il quale fa leva sulla docilità allo Spirito, come ciò che consente di giungere alla conoscenza della vita intima di Dio. Per fare ciò occorre lasciarsi guidare da lui, poiché è lui che, scrutando i pensieri di Dio, li rende partecipi a quanti entrano in un rapporto di fede con Cristo. Senza lo Spirito non è possibile perciò svelare il segreto dell’identità divina di Cristo: “Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rm 8,9). Chi dispone del suo Spirito, invece, ha modo di acquisire il suo pensiero e di essere abilitato a vivere secondo il suo vangelo. Grazie a questo rinnovato modo d’essere egli può così combattere le opere che scaturiscono dalla “carne”, ovvero dalla logica di vita del mondo, come: l’orgoglio, il dominio, l’ozio, l’avarizia, l’invidia, le gozzoviglie, l’impurità, le ubriachezze … Chiunque si lascia dominare da questi sentimenti sperimenta già in se stesso i germi della morte, ovvero della distanza da Dio; chi invece vive una vita conforme allo Spirito, sperimenta i germi della vita eterna, che si manifesta attraverso i frutti dell’amore, della gioia, della pace, della magnanimità, della benevolenza, della bontà, della fedeltà, della mitezza, del dominio di sé (cf. Gal 5,19-22).
Nell’inno di giubilo Gesù sembra ricapitolare tutte queste caratteristiche ed esprimerle in termini di umiltà, mitezza, semplicità, piccolezza, giustizia: tutti atteggiamenti che riflettono il suo carattere “mite e umile di cuore” (Mt 11,29). L’acquisizione di questi atteggiamenti contribuisce a creare nel discepolo quella disposizione d’animo, atta alla conoscenza delle “cose” divine. Le “cose” dunque di cui parla Gesù sono quelle relative alla mutua relazione che sussiste tra lui e il Padre, alla quale può accedere solo chi entra in un rapporto di fede con Lui. “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). È all’interno di questa intima relazione d’amore interpersonale con Cristo che lo Spirito apre la mente dei “piccoli evangelici” (cf. Mt 18,1-5.10.12-14) e permette loro di cogliere l’identità paterna di Dio e quella filiale di Gesù. Una conoscenza che non rimane circoscritta all’interno della loro relazione trinitaria, ma viene estesa e partecipata a tutti coloro che entrano in relazione con Cristo. Essa non scaturisce da una speculazione teologica razionale, ma dall’umile adesione al piano salvifico di Dio. Non che i piccoli di cui parla Gesù siano poco dotati dal punto di vista intellettivo, anzi talvolta ne eccellono perfino, ma che non fanno della loro intelligenza un metro di giudizio e di confronti con gli altri, da sentirsi superiori a ciascuno[1].
Entrare in questa logica d’amore significa scoprire la bellezza e la libertà della vita filiale; e sperimentare la soavità, la dolcezza e la leggerezza dello spirito, tutti sentimenti che scaturiscono dalla volontaria adesione alla sua relazione divina. Rivelandoci questo segreto Gesù, dunque, intende farci sperimentare la pienezza della sua gioia divina. È a questo che si riferisce quando dice: “Vi ho detto queste cose, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Si tratta di una conoscenza che dà “ristoro” e “riposo” all’anima di quanti sperimentano quotidianamente quel tipo di “stanchezza esistenziale” che scaturisce dalla tentazione dell’autosufficienza, ovvero dall’idea di vivere un’esistenza lontani da Dio e quindi di realizzarsi fuori dalla relazione con lui. Più che mai Gesù ci rivela l’identità relazionale del nostro io. Esso non è fatto per vivere da solo, come un’isola, ma come un arcipelago nell’oceano dell’amore.
[1] Per avere un’idea di questa forma di intelligenza conoscitiva è opportuno un richiamo alla rivelazione che il Padre fa dell’identità messianica di Gesù a Pietro, a Cesarea di Filippo, dove alla domanda che Gesù pone ai discepoli: “Chi dite che io sia?”, Pietro risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e subito dopo Gesù, come a volere chiarire il segreto di questa scoperta, aggiunge: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16, 13-17). Si tratta dunque di una conoscenza che non scaturisce da una riflessione logica-razionale, ma da una adesione alla vita relazionale di Dio, nella quale lo Spirito di Cristo consente all’intelligenza umana di partecipare della libera e gratuita rivelazione divina.
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