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11 maggio 2025 - Anno C - IV Domenica di Pasqua


At 13,14.43-52; Sal 99/100; Ap 7,9.14-17; Gv 10,27-30



Il Pastore che dà la vita …


Tintoretto, Discesa nel Limbo (1568), Chiesa di San Cassiano, Venezia
Tintoretto, Discesa nel Limbo (1568), Chiesa di San Cassiano, Venezia

“In quel tempo, Gesù disse: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,27-30).

Nel contesto dei Racconti delle apparizioni che la liturgia ci sta proponendo in queste domeniche di Pasqua, ci sorprende questo brano evangelico dedicato al tema del Pastore. Un’immagine non immediatamente comprensibile e perciò suscettibile di qualche domanda: quale relazione ha questa immagine con la Pasqua e perché richiamarla in questo contesto liturgico? Apparentemente fuori luogo, essa ci svela in realtà l’opera salvifica di Cristo, compiuta attraverso la Risurrezione. Chi è il Risorto se non “il Pastore grande delle pecore che Dio ha fatto tornare dai morti” (cf. Eb 13,20), per condurre coloro che ascoltano la sua voce alla vita eterna? (cf. Gv 10,27-28)[1].

Il tema del Pastore viene sviluppato da Giovanni nel capitolo 10 del suo Vangelo, dove troviamo Gesù coinvolto in una discussione con i Giudei sulla sua identità. In pratica costoro gli chiedono di fare una dichiarazione esplicita sulla sua messianicità: “Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente” (Gv 10,24). Dinanzi a una simile richiesta Gesù preferisce che siano le sue opere a dargli testimonianza: “Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore … Io è il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10,25-26.30). A questa dichiarazione, di per sé già abbastanza esplicita, Gesù replica con un’ulteriore affermazione: “Se non compio le opere del Padre mio non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre” (Gv 10,37-38). E qual è questa opera del Padre alla quale Gesù fa riferimento se non la sua risurrezione? Più di ogni altra opera essa attesta l’intrinseca partecipazione del Padre all’attività messianica di Cristo. La Risurrezione viene proposta allora come l’opera che rivela l’intimo e speciale rapporto che sussiste tra Gesù e il Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,29).

Nonostante queste dichiarazioni i Giudei rimangono scettici e diffidenti. La questione dunque non è la mancata testimonianza di Gesù, ma il reiterato sospetto che essi nutrono nei suoi confronti, perfino dinanzi all’evidenza. Nessuna testimonianza è efficace quando il dubbio, il sospetto, lo scetticismo e il negazionismo pervadono l’anima degli interlocutori. In realtà essi sono increduli non perché Gesù è incapace di attestare la sua divinità, bensì perché non accettano lui e l’immagine che egli dà di Dio: troppo umano per essere divino, troppo immanente per salvaguardare la trascendenza. Essi infatti non credono neppure alla testimonianza che viene dal Padre (cf. Gv 5,32; 8,18), o a quella che viene dal Battista (cf. Gv 5,33)[2]. Per Gesù il loro scetticismo è dovuto soprattutto all’ostinato rifiuto di entrare in relazione di fede con lui: “Voi non credete perché non siete mie pecore” (Gv 10,26). Essi non dispongono cioè di quella conoscenza intima e profonda che scaturisce da una comunione di vita con lui, rifiutando la quale si precludono la possibilità di cogliere e verificare la verità della sua testimonianza. Contro questa ostinata e accanita forma di scetticismo nessuna argomentazione razionale o testimonianza di vita è in grado di far cambiare le loro convinzioni.  

La mancata disposizione nei confronti di Gesù da parte dei Giudei ci offre una chiave di lettura per capire la polemica degli antiocheni contro Paolo e Barnaba. Dinanzi al crescente numero dei fedeli che si univano ai discepoli di Cristo, gli abitanti di Antiochia cominciarono a esternare le più bieche forme di gelosia e invidia, contrastando con “parole ingiuriose le affermazioni di Paolo” (At 13,45)[3]. Non soddisfatti dalla testimonianza degli apostoli, giunsero a “sobillare la classe delle donne ragguardevoli e dei notabili della città”, fino a scatenare una violenta persecuzione contro Paolo e Barnaba, i quali dinanzi ad un rifiuto così evidente si ritrovarono costretti a estendere il loro annuncio evangelico ai Gentili: “Era necessario che fosse prima di tutto proclamata a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani, come il Signore stesso ci ha ordinato: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra” (At 13,46-47)[4]. 

Dinanzi a questi due episodi che fanno luce anche sulla nostra attuale incredulità, viene da chiedersi: come superare lo scetticismo nei confronti di Gesù? La risposta ce la offre lo stesso Gesù, quando dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27). Egli delinea così le condizioni per avviare una relazione di fede con lui.  Ascoltare, conoscere e seguire costituiscono i presupposti per assimilare la sua mentalità, condividere la sua vita e comprendere le sue parole. Tra Cristo e i discepoli si viene a creare un intimo nesso di comunione che consente di partecipare della stessa relazione che lui ha col Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Questa unità o comunione d’amore tra Cristo e il Padre nello Spirito, costituisce la vita eterna. È familiarizzando con essa che si fa esperienza della vita eterna. La salvezza, alla quale accediamo attraverso la risurrezione di Cristo, è tutta qui: in questa partecipazione personale alla comunione d’amore trinitario che Cristo offre a chi decide di entrare in relazione con lui. Pertanto, chiunque, ponendosi alla sequela di Cristo, può partecipare della sua salvezza. Chi ne partecipa entra nella comunione eterna col Padre che ci salvaguardia dalle possibili forme di perdizione e rende immune il nostro spirito dalle azioni diaboliche di coloro che cercano di strapparci dalla mano di Dio. Essi “non andranno perduti in eterno e nessuno li strapperà dalla mano del Padre” (Gv 10,28.29).  

La salvezza, dunque, è per tutti, sebbene non tutti ne partecipano. Esiste la reale possibilità di perdersi e le ragioni che la rendono possibile, possono essere svariate, tra le quali anche quella di lasciarsi dominare dalla dinamica dell’invidia e della gelosia. “L’invidia è la carie delle ossa” dice il libro dei Proverbi 14,30, un tarlo che lasciato operare può diventare distruttivo per la persona. C’è tuttavia una condizione che può bloccare lo sviluppo di questo dominio, ed è quella del passaggio attraverso “la grande tribolazione” (cf. Ap 7,14), come la definisce Giovanni. Noi potremmo tradurla in termini di “rinnegamento di sé”, lo stesso che Gesù chiede a chiunque decide di mettersi in ascolto della sua parola. Per poter partecipare della vita eterna occorre allora fare come Gesù, rinunciare a se stessi, fino a dare la vita. È chiaro che non a tutti Gesù chiede questa forma di testimonianza così estrema, ma certamente ci chiede di morire al nostro egocentrismo. Si tratta perciò di lasciarsi seriamente interpellare dalle Parole di Gesù e verificare se effettivamente esse non siano in grado di dare vita eterna, come lui stesso afferma in questo brano evangelico (cf. Gv 10,28). Occorre allora il coraggio di rivedere radicalmente le proprie convinzioni e lasciarle trasfigurare dalla luce dello Spirito. Egli solo conosce fino in fondo i pensieri di ogni cuore. Lui e lui solo potrà pacificarci con Dio, con quella pace che Cristo annuncia all’indomani della sua Risurrezione (cf. Gv 20,19-20). Poiché solo un cuore puro potrà vedere Dio (cf. Mt 5,8), ovvero la salvezza che lui ci offre in Cristo Gesù[5].

Riletto in questa luce il tema del Pastore ci offre perciò la possibilità di riflettere sull’evento della Pasqua che stiamo ancora celebrando. Il che significa che non basta assistere alle diverse liturgie per ritenersi integrati nella vita eterna, occorre chiedersi se la Pasqua ha realmente inciso sulla nostra mentalità fondamentalmente scettica e fatto capire che Gesù è veramente – come ci chiedevamo all’inizio – “il Pastore grande delle pecore che Dio ha fatto tornare dai morti” (cf. Eb13,20), per condurre coloro che ascoltano la sua voce alla vita eterna (cf. Gv 10,27-28). Ma ciò richiede un atto di fede. E questa riapre l’antica questione: sapremo andare, come Tommaso, oltre la nostra incredulità? Chi crederà, vedrà! 


[1] E in questa luce che si comprende anche l’immagine del “posto” e della “via”, a cui fa riferimento Gesù durante il Discorso di Addio: “Io vado a prepararvi un posto … (poi) ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Gv 14,2-3), come a volere esplicitare il luogo e le condizioni per partecipare della sua vita eterna.

[2] Per Gesù una testimonianza basata solo sulle parole non è sufficiente, poiché chiunque può dire di sé quello che ritiene opportuno, occorre perciò una testimonianza di un altro che garantisca e confermi la vericità della sua parola. 

[3] L’ingiuria, tanto per precisare, non è appena appena la critica spicciola che viene solitamente fatta nelle questioni quotidiane, ma una sorta di diffamazione che a livello legale costituisce un illecito civile, passibile perciò di pena civile.

[4] Un passo, quello appena citato, che fa luce sulle ragioni che determinarono la decisiva svolta della predicazione degli apostoli fuori dai confini della fede ebraica. Fatti che evidentemente costituiscono ancora oggi una dolorosa frattura che solo una rinnovata rilettura evangelica e una paziente misericordia potranno risanare.

[5] Sembrano perciò molto interessanti i suggerimenti che vengono dal libro della Sapienza: “Cercate il Signore con cuore semplice. Egli infatti si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui. I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio; l’onnipotenza messa alla prova, caccia gli stolti” (Sap 1,1-3).

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