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1 Novembre 2025 - Anno C - Solennità di tutti i Santi


Ap 7,2-4.9-14; Sal 23;1 Gv 3,1-3; Mt 5,1-12



L’attualità della santità




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“Siate santi, perché io il Signore vostro Dio sono santo” (Lv 19,2) è il comando con cui Mosè sintetizza la volontà di Dio nell’Antico Testamento. La stessa santità viene colta da Isaia al momento della sua chiamata nel tempio quando, rivolgendosi al Signore, lo esalta dichiarandolo: “Santo, santo, santo … tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6,3). Una lode la sua con la quale esplicita l’essenza della sua vocazione profetica. Anche Gesù riprende questa tradizione spirituale traducendola con la seguente formula: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48), o: “Siate misericordiosi come il Padre vostro celeste” (Lc 6,36), dove appare ancora più chiaramente che la vita del discepolo consiste nel tendere perennemente alla santità del Padre, la cui perfezione è costituita essenzialmente dall’amore misericordioso che essi dovranno manifestare perfino verso i nemici (cf. Lc 6,27-35). L’apostolo Paolo nel farsi interprete di questa originaria vocazione divina dice agli Efesini: “In Cristo Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). Queste citazioni bibliche, pur esulando dall’attuale liturgia della Parola, tracciano non solo il principio, il senso e il fine della nostra vita cristiana, ma anche lo specifico della festa di oggi, centrata intorno alla celebrazione di Tutti i Santi. Si tratta di una festa particolare, con la quale la Chiesa, intende lodare l’amore di Dio in tutte le sue forme e declinazioni umane.

Una festa chiaramente religiosa e specificamente cristiana, ma di cui la storia ci ha abbondantemente abituato a vederne le ricadute sociali e culturali. Non sono poche infatti le testimonianze di chi nel tentativo di attualizzare i principi evangelici, ha favorito lo sviluppo di un progresso umanistico, sociale, culturale, scientifico, artistico, letterario particolarmente glorioso. Ma nonostante questo passato straordinariamente ricco e fecondo, viene da chiedersi se sia ancora attuale la santità, specie osservando il presente clima morale che caratterizza non solo la vita sociale, ma anche quella ecclesiale. A questa domanda ne possiamo aggiungere delle altre, del tipo: l’ideale evangelico anima ancora la vita relazionale, sociale e culturale della nostra gente? In che modo questo amore viene tradotto nel vissuto quotidiano? A quale forma di perfezione tendono i nostri giovani? Per quanti di essi la santità costituisce realmente un ideale di vita? Quanti decidono di spendere la propria vita per Cristo e per la causa evangelica?

È interessante notare che nonostante i forti interessi che la nostra società nutre per l’economia, la finanza, la tecnologia, l’informatica, la scienza, lo sport l’ideale della santità non ha smesso di suscitare il suo fascino e la sua attrazione. Da qui l’idea di proporre un itinerario che ne rende possibile ancora la sua incarnazione storica[1]. Nel tentativo di tracciare questo itinerario cercheremo di rispondere ad alcune domande guida: cos’è la santità? Qual è l’essenza che la costituisce? Chi è il santo? E soprattutto come si fa a essere santi nell’oggi della nostra cultura? Alla luce delle citazioni che ci hanno introdotto nel nostro argomento possiamo dire che la santità pur essendo rivolta specificamente all’uomo ha un origine divina. Si tratta di una qualità della vita divina che Dio condivide e partecipa con le sue creature: “Siate santi, perché io il Signore vostro Dio sono santo”. [2]

Ma cos’è più chiaramente questa qualità che Dio condivide con le sue creature? Quando l’evangelista Giovanni, nella sua prima lettera, cerca di qualificare la realtà di Dio, dice che: Dio è amore! (1Gv 4,8). Pertanto l’amore è l’essenza della vita di Dio. In altre parole potremmo dire che l’ingrediente principale, la materia prima della santità è l’amore. E questa è propria di Dio, come afferma ancora l’evangelista, quando dice che: “l’amore è da Dio” (1Gv 4,7). Dio, quindi, non solo è amore, ma è anche l’origine dell’amore. Il che significa che la presenza dell’amore nel creato, in tutte le sue forme e manifestazioni, ha origine da Dio. L’amore è ciò che fa sussistere il mondo, lo rende vivo, dinamico, operoso, espansivo, perfino autorigenerantesi e autocreativo. L’amore, volendoci esprimere in termini un po’ più scientifici, secondo la teoria del Big Bang, è la materia originaria infinitamente piccola, che nel pieno della sua “estasi d’amore” ha dato origine all’universo. Il cosmo intero vive d’amore, nell’amore e in vista dell’amore. L’amore è la sostanza prima della nostra vita. E perciò è all’origine dell’unità e della molteplicità del mondo. L’amore contiene in sé il principio dell’unità e della diversità delle cose. Esso è ciò che ci fa uno e distinti al contempo.

Pertanto chi ama dà modo a Dio di distendere la sua vita nella storia del mondo. In tal senso chi ama, stando sempre a Giovanni, “è da Dio” ed “è da lui generato” (cf. v. 7). Se Dio è amore e noi siamo fatti prevalentemente d’amore, significa che l’amore è anche la condizione principale per conoscere Dio, il mondo, noi, gli altri. Dunque Dio è Santo perché è Amore e l’amore è essenzialmente santità. Dio è il Santo per eccellenza, anzi il tre volte Santo (cf. Is 6,3). Come tale santo è colui che conformandosi alla vita divina compie fino in fondo la volontà di Dio, lasciandosi impregnare del suo amore. Da ciò possiamo dedurre che i santi sono coloro che amano d’amore divino. Amando si conformano alla santità di Dio, diventando pienamente se stessi. La santità realizza in pieno la loro umanità, il loro essere figli di Dio. In ciò essi diventano “simili a Dio” (cf. Sal 82,6; Gv 10,34), perché lo vedranno così come egli è (cf. 1Gv 3,2)[3].

Ma come si diventa santi? Qual è il percorso d’amore che ciascuno di noi è chiamato a percorrere? Giovanni col brano dell’Apocalisse, e Matteo con quello evangelico, ci offrono delle indicazioni assai significative, attraverso cui tracciare un percorso di santità. “Quelli vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? […] Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione” (Ap 7,13-14). I santi sono coloro che passano attraverso la “grande tribolazione”, ovvero la via della croce, necessaria secondo Gesù, per “rendere candida”, pura, santa la propria vita. La croce – con tutto quello che essa comprende – vissuta nella volontà di Dio[4], ci fa una sola cosa con Gesù. Essa è il crogiolo che purifica il nostro io da tutte le impurità, così da far emergere il suo nucleo originario e vitale: Dio. Essa è il martirio che lava (trasfigura) le nostre vesti – parole, opere, abitudini, comportamenti –“col sangue dell’Agnello” (v. 14).

Nel brano evangelico di Matteo Gesù considera la croce addirittura una beatitudine: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa” (Mt 5,12). La santità, dunque, si dischiude e si realizza in noi attraverso le beatitudini. Esse tracciano la via evangelica per la santità. Costituiscono lo stile di vita del santo; il criterio per riconoscerlo tra la gente, il segno distintivo del discepolo di Gesù (cf. Gv 13,34-35). Il santo, nel linguaggio biblico, viene definito in termini di beato. Comunemente il termine lo riferiamo a colui che dispone di un benessere che gli consente di vivere una vita senza problemi. Evangelicamente invece, il termine viene riferito a colui che ha Dio, considerato come il sommo bene, ovvero come la forma più piena di benessere esistenziale e spirituale. In altre parole la santità ha tutte le declinazioni delle beatitudini: la purezza, la misericordia, la giustizia, la pace … Ognuna di essa può essere una forma di santità, una via attraverso cui santificarsi[5].

Nonostante i numerosi pregiudizi culturali che tendono a minimizzarla la santità è e rimane un ideale più che mai attuale, che esercita fascino e seduzione (cf. Ger 20,7-9). Aspirare alla santità significa però decidere di inoltrarsi nell’avventura dell’amore divino-umano, compreso come ciò che ci rende pienamente noi stessi, perfettamente conforme alla nostra identità. Esso è capace di rispondere alle nostre istanze umane più autentiche e profonde. La santità è, perciò, una questione d’amore, che chiede di introdurci in un rapporto personale con Dio e contemporaneamente con l’altro: dove ciascuno è profondamente coinvolto in un gioco relazionale, vissuto all’insegna della fiducia reciproca: noi, Dio e l’altro. Il segreto della santità è tutto nell’amore e chi ama è sempre attuale. Non passa mai di moda. 

 

 

 

 


[1] Naturalmente per compiere una simile operazione non è possibile fare a meno della testimonianza di coloro che ci hanno già preceduto in questa via e hanno, con la loro vita, saputo coniugare i principi evangelici e le istanze umane in un’unità perfetta, tale da perpetuare nel tempo l’eredità d’amore di Cristo, realizzando nella storia il piano salvifico di Dio.

[2] “Santo”, sotto il profilo linguistico, è il participio passivo del verbo “sancire” che significa “decretare”, ovvero “riconoscere la sacralità di una realtà”. Dio è santo, ma rende santo anche tutto ciò che è oggetto della sua creazione. L’autore del libro della Genesi esprime questo riconoscimento con la formula: “vide che era cosa buona”, finché, parlando dell’uomo dice che: “era cosa molto buona” (Gen 1,4.10.12.18.21.25.31).

[3] Gesù, citando il Sal 82,6, ritiene addirittura possibile il diventare una sola cosa con Dio: “Io ho detto: voi siete dei” (cf. Gv 10,34). La santità è già dentro di noi, il nostro compito è dischiuderla attraverso l’amore.

[4] Gesù traduce la chiamata alla santità con la formula “fare la volontà di Dio”, che nella nostra mentalità culturale viene compresa molto spesso come una limitazione, se non addirittura come un ostacolo alla realizzazione della nostra volontà umana, o ancora come un “dovere morale” dal quale sottrarsi non senza assumere un atteggiamento di sfida. Essa come fa notare Frère John, nel suo libro Metanoia: “evoca l’immagine di una divinità che ha stabilito tutto in anticipo, lasciando gli esseri umani nel ruolo di marionette condannate a seguire un cammino predestinato”. In questa prospettiva Dio viene compreso come colui che rimane assolutamente indifferente e perfino ostile ai nostri desideri più profondi. In realtà essa è nient’altro che la condizione essenziale che permette alla nostra umanità di esprimersi nella pienezza della sua libertà. In questo senso essa costituisce la ragione più profonda e originaria della nostra gioia. A testimonianza di questo significato il nostro autore riporta il senso della radice etimologica ebraica della “volontà divina”. Il termine infatti che viene usato è ratson, dalla radice rtsh, che significa letteralmente “compiacersi, provare piacere”. Il termine ratson può quindi essere tradotto anche con “contentezza, gioia, piacere”, riferito a ciò che rende qualcuno felice. Di conseguenza la volontà di Dio non è un comandamento rigido e severo che contrasta con i nostri desideri più intimi, ma semplicemente un modo attraverso cui Dio intende renderci pienamente felici. Interessante a questo proposito è la formula con cui lui traduce il Salmo 40,8: “Nel rotolo del libro su di me è scritto: il mio piacere è fare la tua volontà”, come a voler dire: “il mio piacere è farti piacere”.

[5] Nel particolare contesto culturale e sociale, credo quanto mai opportuno mettere a fuoco solo alcune di queste beatitudini: la “povertà in spirito” e la “mitezza”. Nella mentalità di Gesù il povero evangelico non è solo chi non dispone di nulla per vivere, ma colui che rinuncia volontariamente e liberamente alle proprie ricchezze e alle proprie sicurezze per Dio, per avere solo lui e vivere della sua provvidenza. Prima ancora che la povertà contingente Gesù chiede al suo discepolo la “povertà in spirito”, come lascia intendere Matteo nella sua prima beatitudine. Il “povero in spirito” è colui che pur disponendo di qualità intellettuali, cognitive, spirituali, affettive, creative non le considera come metro di giudizio nei confronti degli altri. Al contrario esse vengono disposte e donate in modo tale da favorire lo sviluppo, la diversità e la ricchezza degli altri. In questo senso la povertà in spirito è la via maestra per manifestare la ricchezza dell’opera di Dio nella vita di ciascuno, e come tale la condizione che ne rende manifesta la santità. In questo senso Gesù è il vero povero in spirito, per essersi svuotato persino del potere della propria divinità, pur di trasformare dal di dentro l’umanità, con la forza del suo amore (cf. Fil 2,5-11).

Anche la mitezza acquista più che mai un’importanza straordinaria nel particolare momento di crisi esistenziale che ci ritroviamo a sperimentare. Di solito in queste circostanze la prima cosa che si sperimenta è lo smarrimento a causa della perdita di ogni punto di riferimento, con una conseguente confusione mentale. Il mite ci insegna a vivere anche queste situazioni limiti. La sua figura viene tracciato molto bene nel Salmo 117,10-13: “Tutti i popoli mi hanno circondato, / ma nel nome del Signore li ho sconfitti … / mi hanno circondato come api, / come fuoco che divampa tra le spine, / ma nel nome del Signore li ho sconfitti. / Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, / ma il Signore è stato mio aiuto”. Il mite non si perde d’animo neppure quanto sperimenta l’imminenza del pericolo di morte. Nulla turba la sua quiete in Dio. Questa immagine così distante da noi, abituati a spaventarci anche di un semplice mal di testa, potrebbe apparirci addirittura irreale. Il mite è colui che non si agita davanti al nemico, non si irrita davanti alle accuse. Egli è paziente, dolce e misericordioso mentre tutt’intorno naufraga nel male. Viene da sé che la mitezza è espressione di una grande forza d’animo, di una capacità di dominio, di fortezza e temperanza che non nascono solo dalla forza di volontà, ma vengono da Dio. Dio è l’unica forza del mite. Il mite diventa allora un segno di contraddizione in una società, come la nostra, intrisa di violenze, tensioni, minacce, aggressività. Anche in queste situazioni egli irraggia serenità, luce, gioia; invita alla calma, alla comprensione, alla misericordia. Egli non reagisce davanti alle persecuzioni se non con l’amore. È qui che trova la sua beatitudine, la sua felicità. I miti allora, come i poveri, i misericordiosi, i giusti ci rendono viva la presenza di Dio tra di noi, ce lo fanno vedere attraverso il loro amore. In loro è il cielo e la terra, la comunione dei santi, appunto.

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