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19 Ottobre 2025 - Anno C - XXIX Domenica del tempo ordinario


Es 17,8-13; Sal 120/121; 2Tm 3,14-4,2; Lc 18,1-8



Perseverare nella preghiera




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“Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia contro il mio avversario. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi. E il Signore soggiunse: Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,1-8).

Ancora una volta la Liturgia ci offre l’occasione per approfondire il potere della preghiera. Dopo aver esaminato gli aspetti della “fiducia” e della “convinzione” quest’oggi metteremo a fuoco quelli della “perseveranza”, “assiduità”, “costanza” e “insistenza”. A questo riguardo si rivela assai interessante l’episodio biblico tratto dal libro dell’Esodo, dove ci viene raccontato lo scontro[1] tra gli Ebrei e gli Amaleciti[2], durante il quale la preghiera di Mosè si rivela perfino capace di cambiare le sorti della battaglia. Mosè, ormai anziano e incapace di sostenere lo sforzo fisico del combattimento, incarica il suo segretario Giusuè per condurre gli Israeliti alla vittoria. Dinanzi all’infuriare del conflitto, Mosè non trova altro modo per sostenere Giosuè in questo incarico se non quello della preghiera. Ma contrariamente alle sue attese, lo scontro si prolunga oltre ogni misura e con essa anche la preghiera. Spossato dalla fatica avverte il bisogno di riposarsi, ma quando ciò accade s’accorge che il suo popolo viene meno e cede alla forza del nemico. Diversamente quando riprende a pregare, immediatamente cambiano le sorti della battaglia. Da qui l’idea di farsi aiutare dal fratello Aronne e dal collaboratore Cur i quali, saliti sul monte dove si trovava Mosè, “presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani” (Es 17,12). Grazie a questo stratagemma “le mani (di Mosè) rimasero ferme fino al tramonto del sole” finché “Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo” (Es 17,13).

Questo supporto fisico che Aronne e Cur rendono a Mosè, potrebbe passare inosservato, e invece si rivela ricco di significati spirituali, poiché ci suggerisce il modo con cui anche noi, nel nostro piccolo, possiamo sorreggere e condividere nella preghiera il peso di quei pastori o governanti che, come Mosè e Giosuè, sono chiamati a guidare i popoli alla pace. Ritengo importante questo supporto, poiché ciascuno di noi, a suo modo, sente il bisogno di essere sostenuto nelle proprie fatiche, specie quando siamo letteralmente investiti dal peso delle responsabilità che esse comportano. Il loro supporto, come abbiamo visto, si rivela fondamentale ai fini della battaglia, determinandone la vittoria. Lo stesso vale anche per noi, quando ci sentiamo supportati dalla comunità nelle nostre lotte spirituali, nelle quali Dio non ci concede la vittoria, ma ci offre l’occasione per conquistarla attraverso la nostra perseveranza.

La preghiera di Mosè ci fa capire che né la forza fisica, né quella delle armi, né il vigore dell’esercito e neppure l’abilità dei soldati sono determinanti per la soluzione della battaglia. Se da una parte è vero che il popolo combatte fisicamente contro il nemico, dall’altra è ancora più vero che la loro battaglia è sostenuta dall’azione invisibile e misteriosa di Dio, come rileva anche il Salmo 120, quando dice: “Da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore … Egli non lascerà vacillare il tuo piede … poiché sta alla tua destra … Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita”, o ancora come esplicita più chiaramente il capitolo 20 del libro del Deuteronomio[3]. Il vero vincitore è Dio. La guerra costituisce perciò solo un mezzo e un luogo attraverso cui Dio manifesta la potenza della sua azione salvifica nel mondo, simbolo di quella guerra celeste che le schiere di Dio sostengono nei confronti del male. La sconfitta del nemico è quindi nient’altro che la vittoria sul male. È questa convinzione religiosa a sostenere gli Israeliti nella loro battaglia.

La stessa “insistenza” nella preghiera viene fortemente raccomandata anche da Gesù con la parabola della Vedova molesta, che vi invito a leggere insieme a quella dell’Amico inopportuno (cf. Lc 11,5-8), che presenta caratteristiche assi simili. La vedova, pur consapevole di trovarsi dinanzi allo strapotere di un giudice che non concedeva margini di soluzione alla sua situazione, manifesta una notevole forza d’animo che le impedisce di crollare sotto i colpi di un uomo totalmente insensibile alla sua causa e alla sua condizione sociale. La forza d’animo della vedova scaturisce dalla sua capacità di perseverare, consapevole che in questo modo quel giudice prima o poi si sarebbe ricreduto e impegnato ad ascoltarla. Da qui la conclusione di Gesù: se l’insistenza della vedova è stata capace di piegare la volontà traviata e corrotta del giudice, quanto più la preghiera muove Dio a manifestare la sua bontà e compassione verso coloro che gridano a lui giorno e notte?[4]  Se il giudice disonesto si è mosso a compassione della vedova, quanto più il Padre buono si lascerà piegare dall’esigenza delle sue creature? Per Gesù, dunque, non basta pregare, ma occorre pregare con insistenza, se s’intende essere esauditi dal Padre. Pregare “sempre senza stancarsi” non significa ripetere incessantemente una preghiera verbale, alternandosi a turni ininterrotti notte e giorno, come si pensava di fare, nei primi secoli, in alcune comunità monastiche tebane, rischiando di diventare noiosi, abitudinari e ossessivi, ma custodire il cuore e la mente in un atteggiamento di perenne docilità all’azione dello Spirito di Dio in noi, tale da essere sempre disposti a compiere la sua volontà in tutte le circostanze.

L’efficacia della preghiera dipende allora anche dalla insistenza e dalla perseveranza con cui viene praticata. Questi due aspetti ci aiutano a capire che essa non può limitarsi a momenti di estemporaneo slancio spirituale, ma necessita di un’assidua frequenza. È chiaro che l’insistenza non va confusa con l’ostinazione, la caparbietà, la cocciutaggine che spesso manifestiamo nelle circostanze in cui, pur sapendo di sbagliare, continuiamo ad affermare a tutti i costi le nostre idee o a difendere, a spada tratta, la nostra immagine. L’insistenza di cui parliamo è piuttosto l’atteggiamento fermo che nasce dalla convinzione di essere nella volontà di Dio, certi che “qualunque cosa chiediamo nel nome di Cristo” (Gv 15,16) il Padre ci esaudirà. In questo senso anche la perseveranza è la capacità di rimanere fermi e “saldi” in questa convinzione – come chiede Paolo a Timoteo (cf. 2Tm,3,14), quando le circostanze sembrano affermare il contrario, come descrive in modo emblematico il Salmo 117,5-14, o ancora quando constatiamo un apparente silenzio o ritardo di Dio, rispetto alle nostre attese. È così facendo che la preghiera alimenta la nostra fede e ci mette nella condizione di perseverare[5] in essa, quando ci ritroviamo ad attraversare prolungati periodi di dolore, di crisi o aridità spirituale. La perseveranza si rivela allora come l’atteggiamento fondamentale per un’“attesa fedele”. Praticandola ci sforziamo di entrare a far parte del numero di coloro che conservano la fede fino al giorno in cui il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra (cf. Lc 18,8), nutrendo la speranza di ripetere con san Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7); o sentirci dire da Cristo: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (Lc 22,28). Chissà che perseverando in questo modo non consentiremo a Cristo di trovare ancora la fede sulla terra al suo ritorno.

 


[1] L’Antico Testamento è costellato da episodi bellici. Lo stesso libro dell’Esodo, e successivamente quelli storici del periodo monarchico (cf. 1e2Re), ci riferiscono di continui conflitti degli Israeliti con gli altri popoli limitrofi, specie in vista della conquista e del mantenimento della “terra promessa”. Tali episodi vengono spesso giustificati come espressione della volontà di Dio, che secondo alcuni trova il suo fondamento nell’appellativo “Dio degli eserciti” Jhwh sebaot (da non confondere col “dio della guerra”, tipico dei popoli pagani, o peggio ancora col Gott mit uns “Dio con noi” dei nazisti). Nella Bibbia, tale appellativo, infatti, non si riferisce alle armate ebraiche, ma viene impiegato per celebrare la trascendenza e la signoria cosmica. Pertanto gli eserciti a cui si riferisce la locuzione sono quelli degli angeli, come viene ricordato dall’evangelista Luca 2,13: “Apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio”. Questa mentalità belligerante ha spesso condotto a parlare di “guerra santa”, in realtà per capire la necessità di quest’azione bellica occorre inquadrare l’idea della guerra nella mentalità religiosa del tempo. Essa non è mai finalizzata a se stessa, considerata cioè un modo per ostentare il potere bellico o il dominio regale, ma una condizione per conquistare la terra promessa da Dio. Certo il modo con cui essa viene esercitata dagli Israeliti non è sempre perfettamente conforme ai criteri della volontà di Dio, ma secondo quella mentalità la guerra costituisce il modo con cui essi ritenevano di attuare il piano di Dio nella storia. Ciò non esclude una previa preparazione e formazione all’arte della guerra. Tuttavia l’Israelita rimane convinto che la vittoria non dipende da un’abile strategia bellica, ma da una manifestazione dell’intervento di Dio. Nel Nuovo Testamento il linguaggio bellico perde il suo vigore fisico a favore di un significato chiaramente simbolico, come scaturisce dal libro dell’Apocalisse. In ogni caso a noi, oggi, questa associazione tra preghiera e guerra fa storcere un po’ il naso, ma in un contesto religioso e culturale come quello praticato dagli Israeliti, dove la guerra viene concepita ancora come il mezzo più efficace per farsi spazio a livello sociale, allora questa associazione diviene comprensibile, ma non giustificabile. Purtroppo non sono pochi i popoli che nel passato hanno considerato e tutt’ora considerano la religione, perfino cristiana, come un supporto per giustificare scelte politiche e militari come la guerra. Basti pensare alle crociate; all’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, dove la religione viene strumentalizzata a fini nazionalistici; o al terrorismo islamico, dove lo stesso Corano viene interpretato alla luce di condizionamenti culturali e assunto come fonte religiosa per giustificare i propri atti terroristici, di stampo politico. 

[2] Gli Amaleciti sono i discendenti Amalek, capo di una tribù edomita che porta il suo nome. Questo popolo viene spesso ricordato nella Torah, specie durante il periodo storico che va dall’uscita dall’Egitto all’entrata nella terra promessa. Essi si opposero spesso gli Ebrei attaccandoli in diverse occasioni, e perciò sono considerati un simbolo del male.

[3]Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli e carri e forze superiori a te, non li temere, perché è con te il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto. Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici; il vostro cuore non venga meno; non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi” (Dt 20,1-4). 

[4] Anche il passo matteano contribuisce ad esplicitare ulteriormente questa affermazione di Gesù, dove dice: “Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il vostro Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono?” (Mt 7,11).

[5] Letteralmente “rimanere sotto il peso” senza lasciarsene schiacciare.

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