26 Ottobre 2025 - Anno C - XXX Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 25 ott
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Sir 35,12-14.16-18; Sal 33/34; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
Gli atteggiamenti estremi della preghiera

“Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,14) è il principio che Gesù formula a conclusione della parabola del Fariseo e il pubblicano (Lc 18,9-14), dove mette a confronto due atteggiamenti religiosi estremi: quello dell’“autoesaltazione morale” e quello dell’“umiltà spirituale”[1]. Si tratta di un principio che ci consente ancora una volta di riprendere il discorso sul rapporto tra la preghiera e la fede, e che noi cercheremo di considerare come criterio per verificare la loro autenticità.
La parabola ci tratteggia due figure: il “fariseo” e il “pubblicano” che incarnano due modi di relazionarsi a Dio attraverso la preghiera. Entrambi, infatti, si recano al tempio a pregare, ma ciascuno è mosso da un’intenzione diversa: il fariseo si pone davanti a Dio nutrendo l’intima convinzione di essere una persona virtuosa, integerrima, moralmente irreprensibile, che non necessita di alcun miglioramento: tutto quello che realizza è già perfettamente conforme alle prescrizioni della legge: “Digiuno due volte la settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc 18,12). Le virtù costituiscono per lui un modo per ostentare agli altri la superiorità della sua vita morale e spirituale. Esse vengono infatti considerate come criterio di confronto, di giudizio e perfino di disprezzo degli altri: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano” (Lc 18,11).
Il pubblicano, invece, è mosso dalla chiara consapevolezza di essere una persona moralmente fragile, da non riuscire a scorgere nulla di buono nella sua vita, tanto che: “fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo” (Lc 18,13). Da qui la sua preghiera, durante la quale non fa mistero dei suoi peccati: “O Dio abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Dall’atteggiamento di queste due figure Gesù trae la sua conclusione: “Io vi dico: il pubblicano a differenza del fariseo, tornò a casa sua giustificato” (cf. Lc 18,14).
La parabola presenta una struttura narrativa che induce l’ascoltatore a rivedere onestamente la qualità della propria relazione con Dio. Un aspetto questo che vorremmo mettere a fuoco con l’ausilio di alcune domande: come mai l’atteggiamento del “fariseo”, pur essendo impeccabile sotto il profilo religioso e morale, viene condannato da Gesù; mentre quello del “pubblicano”, chiaramente discutibile, viene perdonato? Cosa induce Gesù a disapprovare l’uno e a giustificare l’altro? Gesù fa notare che il fariseo, in virtù della sua ineccepibile condotta morale, non avverte minimamente l’esigenza di dover chiedere perdono. Egli si dichiara assolutamente “giusto”, non colpevole dinanzi a Dio, perché ritiene la sua vita perfettamente conforme alla legge, perciò merita di essere riconosciuto dagli uomini e retribuito da Dio[2]. Nulla di gratuito, libero e disinteressato avviene nella sua vita. Tutto è in funzione di un tornaconto personale, sia pure spirituale, che si concretizza nella conquista personale della salvezza, considerata come il premio inevitabile, dovuto alla sua indiscutibile e ineccepibile condotta di vita. Così facendo egli detta a Dio le condizioni della salvezza, secondo il criterio della retribuzione legale. Una sorta di “cogito farisaico”: sono giusto, dunque mi merito la salvezza, sull’onda di quello cartesiano: io penso, dunque sono. Ne scaturisce un atteggiamento visibilmente arrogante e presuntuoso. Assolutamente lontano dal senso biblico della vita, il cui scopo è quello di favorire nell’uomo l’umiltà, ovvero l’esatta coscienza della propria identità rispetto a Dio, riconosciuto come principio, senso e fine della sua vita. Gesù esprime questa chiara coscienza religiosa quando, facendosi interprete della volontà di Dio, dice: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13). In altre parole per Gesù lo scopo della vita religiosa non è quello di sottomettere l’uomo all’imperativo della legge: tu devi! Ma quello di promuovere la sua dignità: “Non è l’uomo fatto per il sabato, ma il sabato è fatto per l’uomo” (Mc 2,27). Il fariseo riteneva che l’osservanza della legge fosse sufficiente per conformare il proprio cuore a quello di Dio ed era convinto che bastava essere moralmente perfetti agli occhi della legge, per essere gradito a Dio. Secondo questa logica religiosa si può essere moralmente irreprensibili, e non avere nessuna misericordia per le persone. Egli era sì giusto, ma concepiva e viveva la giustizia professata dalla legge come metro di giudizio e di condanna degli altri. Da qui la sua mancata giustificazione.
Diversamente il pubblicano capisce che la salvezza è un dono libero e gratuito che Dio elargisce non per premiare le virtù delle persone, ma per renderli partecipi della sua comunione d’amore. In questo senso l’umiltà costituisce l’alveo in cui tutte le virtù assumono la loro giusta collocazione e valutazione. Come tale l’umiltà non va ostentata, ma manifestata con discrezione. Senza l’umiltà perfino la carità verso il prossimo rischia di diventare un motivo di vanto personale. Umiltà e ostentazione costituiscono due modi di vivere la religione: uno che pone l’accento sull’io, l’altro su Dio; uno che tenta, sia pure in modo raffinato, di pilotare, orientare e piegare la volontà di Dio alla propria; l’altro che cerca, invece, di sottomettersi totalmente al disegno salvifico di Dio. Per Gesù non basta osservare fedelmente la legge e i precetti che essa comporta per essere giustificati. Occorre che questa pratica sia accompagnata dalla misericordia, poiché solo a queste condizioni la pratica religiosa evita di scivolare nel fanatismo e la sua dottrina usata come criterio di condanna. L’unico giudice, infatti, come ci ricorda il libro del Siracide, è Dio “e lui non fa preferenza di persone. Non è parziale a danno del povero”, ma al contrario “ascolta la preghiera dell’oppresso. Non trascura la supplica dell’orfano, né della vedova, quando si sfoga nel lamento” (Sir 35,15-15). Per questa ragione la preghiera del fariseo rimane circoscritta all’interno dell’io, ripiegata nella propria volontà, mentre quella del pubblicano “penetra le nubi”, ovvero attraversa la coltre del peccato e giunge fino a Dio (cf. Sir 35, 20). L’umile non desiste e il suo grido di supplica non si appaga finché “l’Altissimo non interviene a soddisfare la sua domanda e ristabilire l’equità” (Sir 35,21). “Il Signore ascolta il grido del povero” recita il ritornello del Salmo 33. Egli è “vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la vita dei suoi servi e non sarà condannato chi in lui si rifugia” (Sal 33/34,19.23).
Anche san Paolo, animato da questa intima certezza, rimane fedele a Dio, nelle circostanze più avverse della sua vita, come quella del processo che dovette subire a causa del suo annuncio evangelico, dove si sente abbandonato da tutti (cf. 2Tm 4,16). Ma paradossalmente proprio in questi momenti scopre la fede come il dono più geloso che egli abbia potuto custodire al termine della sua instancabile attività missionaria: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”. La fede gli si profila come la condizione umana più idonea per sperimentare la gratuita azione salvifica di Cristo in lui. Ed è a partire da questa straordinaria esperienza di gratuità salvifica che egli prende le distanze dall’impostazione religiosa mosaica.
In conclusione Dio non chiede un profilo morale ineccepibile a chi decide di intraprendere un cammino di fede, ma che pratichi l’umiltà e la giustizia come espressione di un reale e autentico cammino di conversione. Per questa ragione egli non vuole la condanna del peccatore, ma che questi si converta e viva lodando l’opera salvifica con la testimonianza evangelica della propria vita (cf. Ez 18,23). Di pari non chiede una preghiera perfetta sotto il profilo dottrinale e verbale, ma che essa trasfiguri il cuore, che lo conformi cioè alla volontà di Dio. In altre parole, essa deve poter favorire l’adesione piena alla volontà salvifica di Dio. Ecco la ragione allora della fede: essa non deve ridursi alla pratica religiosa del precetto, ma registrando la misteriosa opera dello Spirito di Dio nell’umile, aiuta a tradurla in una libera testimonianza dell’amore evangelico. «Ho piegato il mio cuore ai tuoi comandamenti» dice il salmista (cf. Sal 118/119,112). Gesù sa che è nel cuore che accade la vera conversione e la preghiera, quando è autentica e sincera, ne favorisce il processo. Questo non significa che l’umile sia privo di ogni seduzione di “esaltazione di sé”, né che sia giunto ad estirparla dal proprio cuore, ma che decida di vivere la fede secondo la beatitudine dei “poveri in spirito” (cf. Mt 5,3), consapevole che la tentazione di ostentare se stessi è così radicata che può essere vinta solo in virtù della grazia divina. Gesù stesso l’ha combattuta fino alla fine, come attesta la sua preghiera nel Getsemani, quando dice: “Padre se è possibile allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42). Convertire il proprio cuore, la propria volontà, la propria intelligenza, la propria vita a quella di Cristo è l’operazione spirituale più impegnativa che accompagna il credente per tutta la vita.
“Esaltazione” ed “umiltà” costituiscono perciò due atteggiamenti che riflettono due logiche di vita diametralmente opposte; l’una esclude l’altra. Farle convivere significa esporsi al rischio di una pericolosa lacerazione interiore. Sta a noi decidere quale delle due perseguire e capire quale delle due incarna ed esprime al meglio la spiritualità evangelica di Cristo. Questa parabola può aiutarci a compiere un serio “esercizio” di discernimento contro il rischio del formalismo religioso, che malgrado tutto continua costantemente e ad affiorare dal nostro cuore. Potremmo ispirarci ad essa ogni qualvolta desideriamo compiere una sincera riconciliazione con Dio e con i fratelli. Da essa possiamo dedurre i criteri con cui riconoscere i segni del nostro reale cambiamento e quindi l’autenticità della nostra conversione. In ultima analisi chi, come il “fariseo”, nonostante la pratica cristiana, continua ad autoesaltarsi in virtù delle proprie qualità religiose, è segno della scarsa o addirittura mancata incidenza dell’azione dello Spirito evangelico nella sua vita; diversamente chi, come il “pubblicano”, malgrado il peccato, riconosce umilmente il limite della propria vita morale viene giustificato da Dio. “Esaltazione” e “umiltà” costituiscono il risultato del nostro cammino di conversione, in quanto autentificano la nostra reale intenzione religiosa, come esplicita ancora più chiaramente Gesù in questo detto: “Ogni albero si riconosce dal suo frutto … L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,44-45).
[1] Il detto di Gesù ci offre l’occasione per esplicitare la differenza che passa tra “umiltà” e “umiliazione” e tra “autoesaltazione” umana ed “esaltazione” divina. L’umiltà è la virtù con la quale l’uomo riconosce i propri limiti e rifugge ogni forma di orgoglio, superbia o sopraffazione. Di conseguenza l’umile è colui che pur disponendo di numerose qualità non si sopravvaluta mai, e anche nelle circostanze più critiche mantiene la fiducia in se stesso e in Dio. Egli ha sempre la giusta idea di sé; e nelle relazioni interpersonali sa abbassarsi alla condizione dei poveri, ma sa anche difendere la sua dignità dinanzi all’arroganza dei potenti. L’umiliazione, invece, è uno stato di sottomissione, e in diversi casi di penosa commiserazione. In questo senso l’umiliato è colui che viene continuamente maltrattato e disprezzato dagli altri, tanto da indurlo a non avere più alcuna stima e fiducia in se stesso. Sotto il profilo religioso e spirituale l’umiltà costituisce la condizione per accedere alla relazione con Dio, in questo senso l’umile vive le umiliazioni per purificare il proprio cuore dall’orgoglio. Nonostante ciò, anzi proprio grazie a questa forma di umiliazione, egli coltiva la fiducia in se stesso e soprattutto in Dio. Anche in merito al termine “esaltazione” è opportuno capire la differenza che passa tra l’esaltazione intesa come “ostentazione di sé” e l’“esaltazione” che Dio compie a favore di una persona umile. Nel primo caso chi si “autoesalta” tende a riconosce come vero e giusto solo quello che pensa, dice e fa, quindi ad approvare esclusivamente quello che viene da sé. Ogni cosa è in funzione della propria glorificazione, per cui aborrisce ogni forma di umiliazione che costituisce per lui solo una riduzione della propria immagine. Questa forma di esaltazione non va confusa con quella che Gesù stesso ha manifestato e vissuto, quando “innalzato sulla croce ha attirato tutti a sé” (cf. Gv 12,32). In questo senso se la morte in croce ha costituito agli occhi delle persone una straziante umiliazione, la sua Risurrezione, invece, si è rivelata un’autentica esaltazione da parte di Dio. Egli, a differenza di coloro che si autoesaltano, ha conosciuto e vissuto il rinnegamento di sé, quale condizione dell’esaltazione divina. Paradossalmente chi si esalta verrà prima o poi, sminuito, ridimensionato o addirittura svalutato dalle circostanze della vita, diversamente chi esalta Dio, rendendogli onore e riconoscenza per quello che è, sarà lodato e magnificato da Dio stesso, come mette ben in evidenza anche Maria nel suo Magnificat (cf. Lc 1,46-50).
[2] Egli fonda la sua convinzione sulla cosiddetta ‘teoria della retribuzione’, secondo la quale Dio premia i giusti e condanna i peccatori. Si tratta di una teoria o dottrina molto professata nell’Antico Testamento, contro la quale combatte strenuamente Giobbe, quando i suoi amici, nel tentativo di consolarlo, finiscono col giudicarlo proprio facendo leva su di essa.




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