18 maggio 2025 - Anno C - V Domenica di Pasqua
- don luigi
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At 14,21-27; Sal 144/145; Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35
La via della glorificazione evangelica

“Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri (Gv 13,31-33a.34-35).
Nella quinta domenica di Pasqua la Liturgia ci propone un brano evangelico tratto dal Discorso di Addio che Gesù tiene agli apostoli durante l’ultima cena, poco prima della passione e morte. Si tratta di un discorso molto denso e profondo che Gesù rivolge ai suoi a mo’ di testamento, durante il quale fa alcune affermazioni, tra le quali quella dell’attuale brano evangelico, dove parla di una reciproca glorificazione in atto tra lui e il Padre: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Riletta nella luce pasquale, questa profezia ci offre la chiave per accedere al mistero della risurrezione e più precisamente alla vita gloriosa, o come direbbe Paolo: alla vita nuova in Cristo (cf. Col 3,1-17; Rm 3,6-11) che ne consegue. Al capitolo 17 dello stesso discorso Gesù parla di un’“ora” in cui si sarebbe realizzata la sua glorificazione e quella del Padre: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio, perché il Figlio glorifichi te” (Gv 17,1). Considerando l’imminenza della sua passione e morte non è difficile capire che si tratta dell’ora della sua crocifissione, quale evento manifestativo della glorificazione divina. Un’associazione incomprensibile, se non addirittura ermetica, quella che Gesù fa tra “crocifissione” e “glorificazione”, come si rileva anche dal brano evangelico di Luca, dove spiegando ai due discepoli di Emmaus la logica rivelativa del messia, parla perfino di necessità della sofferenza per accedere alla gloria: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). “Glorificazione” costituisce dunque il termine decisivo per cogliere il modo con cui Gesù rivela la paternità di Dio e questi la sua filialità divina: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui” (Gv 13,31-32).
Ma cosa intende Gesù per “gloria”? Con quale dinamica avviene la glorificazione sua e del Padre? E in cosa differisce questo termine dal nostro modo abituale di intenderlo? Nell’attuale contesto culturale il termine gloria indica un onore universalmente riconosciuto ad una persona assolutamente eccezionale; mentre per glorificazione s’intende il processo, per lo più soggettivo, con cui ci si appropria di questo onore. La “glorificazione” di cui parla Gesù, invece, non è volta al riconoscimento né all’affermazione di sé, ma alla manifestazione della potenza di Dio. E questa non si attua alla maniera umana: attraverso l’ostentazione e lo sfoggio delle proprie qualità personali, e neppure perseguendo la via del successo, del trionfo, del dominio, dell’imposizione sugli altri, bensì attraverso il rinnegamento di sé, della propria razionalità, della propria mentalità culturale e perfino religiosa. La morte di croce costituisce perciò per Gesù la massima espressione di questo epilogo esistenziale. È facendosi nulla che Cristo rivela il Padre, quale principio della sua filialità divina. Una vera e propria logica paradossale, per nulla attraente e suggestiva, rispetto a quella che possiamo attingere dalla nostra cultura, dove ogni cosa che pensiamo, diciamo e facciamo è in funzione di noi, dell’affermazione e dell’esaltazione della nostra soggettività. Tutt’altro che teso alla testimonianza di sé, Gesù vive in funzione della testimonianza del Padre e della realizzazione del suo Regno nel mondo. Convinto com’è che solo compiendo le opere del Padre egli avrebbe reso testimonianza di sé. In altre parole, lo scopo ultimo di Gesù non è l’affermazione personale e neppure il riconoscimento delle proprie idee, delle proprie qualità, ma l’affermazione e il riconoscimento di Dio e della sua verità. Questo modo di procedere comporta il rinnegamento di tutta quella mentalità che induce all’autoglorificazione personale.
Aderire a questa logica glorificativa è fondamentale per chi si accinge a mettersi alla sequela di Cristo. Per paradossale che sia è la via della testimonianza autentica e credibile della fede nell’oggi della storia. Per questa ragione non è più sostenibile la pratica, purtroppo ancora molto diffusa anche negli ambienti ecclesiali, di professarsi cristiani mentre si continua a pensare, a parlare, ad agire e a vivere secondo la logica del mondo. Questo modo di vivere la fede, in perfetta sintonia con la logica del mondo, è assolutamente inopportuno.
Cosa fare allora? Il Vangelo non ammette alternative o scorciatoie. Per “entrare nel regno di Dio” occorre, come ci ribadiscono Paolo e Barnaba, passare “attraverso molte tribolazioni” (At 14,22). Un passaggio necessario che già domenica scorsa abbiamo avuto modo di considerare, quando abbiamo commentato il brano apocalittico di Giovanni 7,14, dove la purificazione avviene “lavando le proprie vesti rendendole candide col sangue dell’agnello”. Un’immagine chiaramente contrastante con la nostra mentalità borghese, poiché nel mentre noi cerchiamo condizioni accomodanti, Giovanni parla di partecipazione alle tribolazioni di Cristo, per giungere alla salvezza.
A rendere ancora più esplicita questa logica evangelica della “glorificazione” è il “comandamento d’amore” (Gv 13,34), che Gesù definisce “antico” e “nuovo” al contempo. “Antico” perché già la Legge mosaica prevedeva d’amare il prossimo come se stessi, “nuovo” perché egli spinge la realtà dell’amore oltre ogni limite, conferendogli una forma manifestativa che consiste nel “dare la propria vita”, esattamente come ha fatto lui sulla croce. Se c’è dunque un modo autenticamente evangelico per “glorificare” se stessi, questo sta nel “dare la vita”, ovvero nel consegnare se stesso all’altro, come atto di supremo rinnegamento di sé. È in questa totale spogliazione della natura divina, che egli ha permesso al Padre di manifestarsi pienamente in lui. Allo stesso modo anche noi, quando morendo a noi stessi, cioè quando non avremo più modo di appellarci alle nostre qualità, alle nostre capacità, abilità, conoscenze, amicizie daremo modo a Dio di manifestare in noi la potenza della sua divinità (cf. 2Cor 12,10).
In un contesto culturale e sociale dove la tendenza all’autoaffermazione personale prevale perfino negli ambienti cristiani, la via della “glorificazione” evangelica costituisce una vera e propria inversione di tendenza. Essa, infatti, non mira al successo personale, ma al trionfo di Dio, non all’affermazione di sé, ma alla testimonianza di Dio. È glorificando il Padre che Gesù viene glorificato come Figlio (cf. Gv 17,1-5). Pertanto se intendiamo giungere a quella glorificazione intramontabile, salda, duratura, non suscettibile di corruzioni culturali, alla quale ciascuno di noi aspira, la via evangelica è quella che più di tutte consente un simile traguardo. È qui che si celano i presupposti della glorificazione eterna. A noi perciò la scelta di aderirvi secondo la potenza di colui che “fa nuove tutte le cose” (cf. Ap 21,5). È aderendo a questa logica che possiamo dare origine alla vita nuova in Cristo (cf. 2Cor 5,17) e diventare testimoni riconoscibili e credibili dell’amore di Cristo nel mondo (cf. Gv 13, 35). E così facendo possiamo lasciare intravedere già nell’oggi della storia il “cielo e la terra nuova” profetizzati da Giovanni nell’Apocalisse 21,1.
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