top of page

27 Aprile 2025 - Anno C - II Domenica di Pasqua

Aggiornamento: 28 apr


At 5,12-16; Sal 117/118; Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31




Dalla fede in Gesù

alla fede in Cristo


Caravaggio, Incredulità di San Tommaso (1600-1601), Bildergalerie, Potsdam.
Caravaggio, Incredulità di San Tommaso (1600-1601), Bildergalerie, Potsdam.

“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Gv 20,26-29).

Con i “racconti delle apparizioni” propostoci in queste domeniche di Pasqua, la Chiesa ci sta aiutando a comprendere il passaggio dalla “fede in Gesù” alla” fede in Cristo”[1], compiuto dagli apostoli. Si tratta di un passaggio delicato, ma decisivo, non solo per gli apostoli, ma anche per tutte quelle generazioni di fedeli che li hanno seguiti nel corso della storia e hanno scelto di condividere e perpetuare nel tempo la loro stessa eredità. Tutti costoro – sia pure in diversi modi, tempi e forme – hanno dovuto compiere questo passaggio fondamentale: partecipare all’Evento Pasquale di Cristo. È alla luce di questo Evento che essi hanno compreso e testimoniato l’identità divina di Gesù. Tutta la fede cristiana, dunque, si fonda su questo decisivo e fondamentale atto di fede.

Ne consegue una domanda altrettanto decisiva e fondamentale per noi: è possibile, oggi, fare la stessa esperienza di fede degli apostoli? Se sì, in che modo ciò può avvenire? Nel rispondere a questa domanda, prendiamo atto, però, di una sostanziale differenza tra noi e gli apostoli, che potrebbe limitare le nostre possibilità prima ancora di inoltrarci in essa: gli apostoli videro e toccarono il corpo del Cristo risorto (cf. 1Gv 1,1-2), noi invece siamo solo eredi della loro testimonianza di fede[2]. Si rivelano perciò cariche di straordinaria speranza le parole che Gesù rivolge a Tommaso, al termine della sua travagliata esperienza di fede: “Tu hai creduto perché mi hai veduto. Beati quelli che non vedono e credono” (Gv 20,29). Beati noi, allora, poiché apparteniamo a quella generazioni di fedeli che nel corso della storia continuano a credere senza averlo visto e toccato. In questo senso, quello che siamo soliti immaginare come un limite, viene invece considerato una beatitudine da Gesù. Per questa ragione troviamo assai utile rifarci al brano evangelico attuale che ci descrive le tappe che hanno condotto Tommaso ad esprimere una delle più belle testimonianze di fede cristiana.

Tommaso vien colto in uno di quei momenti di crisi di fede, di cui anche noi facciamo esperienza, quando delusi dai fratelli e dalle circostanze ecclesiali, veniamo attraversati dall’idea di ritornare alla vita di prima. Da qui quel pernicioso pensiero che si insinua progressivamente come un tarlo nella nostra mente, fino a farci ritenere inutili i nostri sforzi e i nostri impegni pastorali, al punto da appartarci e isolarci dalla comunità, sottraendoci alle nostre responsabilità ecclesiali. Al pari dei suoi amici apostoli anche Tommaso era rimasto profondamente sconvolto dall’atteggiamento assunto da Gesù durante la sua passione e soprattutto per l’epilogo inaspettato della sua morte. Egli, che per l’innanzi s’era abituato a vederlo “potente in opere e parole” (Lc 24,19), faceva fatica ad accettarlo fragile e indifeso “dinanzi ai suoi carnefici” (cf. Is 53,6-8). E non è difficile immaginarlo triste, mentre ripete le stesse parole dei due discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24,21). Ma come loro anch’egli rimane scettico davanti ai discepoli che gli ripetono: “Abbiamo visto il Signore” (Gv 20,25). Malgrado tutto non esita a incaponirsi nel suo scetticismo: “Se non metto le mie mani nel suo costato … io non credo” (Gv 20,25).

Quella di Tommaso è la tipica situazione di chi non si accontenta più del sentito dire, e neppure della fede tradizionale, ma esige un’esperienza personale. La sua esigenza interpreta perfettamente la nostra attuale situazione: anche noi avvertiamo la necessità di passare da una fede abituale, ad una fede fondata su un’esperienza personale, autentica, non filtrata o mediata dalle interpretazioni degli altri. In realtà la situazione di Tommaso è la stessa degli apostoli. Anche loro si mostrano scettici nei confronti delle prime testimonianze di fede delle donne. Il che ci fa capire che non basta appartenere ad una tradizione o comunità religiosa per credere, ma occorre un incontro personale col Risorto. Un incontro tuttavia che si concretizza nella misura in cui – come dice san Paolo – “partecipiamo alle sue sofferenze” (Rm 8,17). Ciascuno, apostolo o discepolo che sia, ha dovuto compiere questo passaggio. Pietro e Giovanni l’hanno compiuto scendendo nel sepolcro di Gesù (cf. Gv 20,1-9). I discepoli di Emmaus partecipando al gesto dello “spezzare il pane” (cf. Lc 23,29-30). In simili circostanze, l’evangelista Luca ci fa capire anche che non basta la sola spiegazione delle Scritture, ma occorre partecipare della sua morte, scendere negli inferi della sua sofferenza, per ricevere la luce che illumina la nostra mente all’intelligenza della fede (cf. Lc 23,31). Spiegare le Scritture[3], scendere nel sepolcro e spezzare il pane, sono gesti complementari, che si integrano e si completano a vicenda. L’uno non può essere compreso, vissuto e compiuto senza l’altro. Che tradotto a livello spirituale e intellettivo, significa che siamo chiamati a morire alla nostra intelligenza, a condividere la sua sofferenza e a fare dono, come Gesù, della nostra vita.

È in questa chiave che va riletto e interpretato l’episodio evangelico di Tommaso. Per questa ragione la sua potrebbe essere considerata una prima testimonianza di conversione dell’intelletto. Rileggendo il racconto prendiamo atto che egli è animato da un’istanza razionale: “Se non metto le mie mani nel suo costato”. In realtà l’esigenza di mettere la mano nel costato è un modo metaforico per dire che egli intende partecipare non solo a livello spirituale, ma anche intellettivo al mistero della sofferenza di Gesù, compiendo in questo modo una vera e propria kenosi della ragione, cioè una radicale rinuncia alla logica razionale del proprio modo di pensare gli eventi della Passione e Morteche hanno caratterizzato la vita di Gesù. In altre parole per comprendere il mistero di Cristo occorre consegnare totalmente la propria mente a Dio. È compiendo questa consegna che egli giunge a manifestare la sua straordinaria formula di fede, dichiarando Gesù come: “Mio Signore e mio Dio”.

Quella di Tommaso, perciò, non è una fede empirica, come spesso viene interpretata, ma una fede animata da una ragione trasfigurata. Egli, infatti, non chiede di toccare una qualsiasi parte del corpo di Gesù, ma le sue piaghe, ovvero i segni della sofferenza, gli unici che sono rimasti nella carne, nonostante la trasformazione gloriosa del suo corpo[4]. Gli unici segni che gli garantivano la continuità della persona. Cristo risorto non era una “fantasma” (Mt 14,26), come ritennero gli stessi discepoli, ma Gesù nel suo corpo glorioso.

Il nostro episodio, tuttavia, non fa che esplicitare la metodologia rivelativa di Cristo. Infatti, prima ancora di essere un’esigenza di Tommaso, il gesto di far vedere le mani e il costato fa parte dell’azione rivelativa di Cristo. Non a caso al momento della sua manifestazione nel Cenacolo, il primo gesto che fece fu: “mostrò loro le mani e il fianco”, come a voler attestare che il corpo del Cristo del Risorto era lo stesso di quello di Gesù sofferente. È alla luce di questa rinnovata visione di Cristo che “i discepoli gioirono al vedere il Signore” (Gv 20,20).

Si capisce allora la ragione per cui Gesù, dopo la terribile esperienza della passione e morte, che aveva provocato dispersione (cf. Gv 16,32) e panico tra i discepoli, li saluta con la seguente formula: “Pace a voi”. La pace che Gesù porta ai suoi discepoli non è quella che scaturisce dall’assenza dei conflitti relazionali o quella psicologica che alcuni raggiungono attraverso alcune tecniche rilassanti, ma è quella che scaturisce dalla definitiva riconciliazione con Dio, ovvero quella pace che scioglie tutte quelle tensioni, ansie, paure, preoccupazioni e inquietudini interiori, provocate dal peccato, da quell’idea adamitica che ci induce a credere possibile una vita autonoma e indipendente da Dio e da tutti. È la pace che decreta la fine delle nostre resistenze dinanzi alla logica della croce e con esse di quelle “pieghe mentali” che impediscono alla nostra intelligenza di vedere Dio. È la pace di chi ha consegnato totalmente a Cristo la propria ragione. Privi di questa pace la nostra mente rimane come attanagliata dalla paura e quindi incapace di vedere nella sofferenza di Gesù la manifestazione della sua divinità. La fede nel Risorto difficilmente sboccia finché siamo bloccati dalla paura.

Nessuna differenza perciò tra la nostra e la fede degli apostoli, poiché nell’uno e nell’altro caso essa consiste nel riconoscere Gesù come Cristo, Figlio di Dio, perché credendo in lui possiamo partecipare della vita di Dio, compresa e vissuta come esperienza salvifica. Essa non è il risultato delle nostre riflessioni intellettive, ma un dono della rivelazione del Padre (cf. Mt 16,17). Perciò alla luce di questo episodio evangelico riteniamo che anche per noi debba arrivare prima o poi il momento di “mettere il dito nella piaga”, nel senso più esistenziale del termine: di partecipazione al mistero della passione di Cristo. Quella di Tommaso infatti è l’istanza di chi è giunto ormai alla maturità spirituale e avverte, più che mai, il bisogno di aderire totalmente alla vita di Cristo. È giungendo a questo vertice che egli lo comprende come “Signore e Dio”; come il Tutto della sua vita, nel quale ogni cosa trova la pienezza di senso. È a queste condizioni che anche noi come Pietro possiamo proclamare Gesù “Messia, Signore e Salvatore” (At 2,36) e ribadire con lo stesso vigore: “Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvi” (At 4,11-12).

Veramente un “momento favorevole” (2Cor 6,2) e decisivo, allora, quello che la Chiesa ci propone in questo tempo pasquale, nel quale siamo chiamati a rifondare e ricentrare la nostra fede, per estenderla anche a quelle persone che pur vivendo tra noi, esulano dai nostri orizzonti religiosi, spirituali e culturali, affinché possiamo riscoprire le radici apostoliche della fede, per ripetere con Giovanni: “Ciò che noi abbiamo … contemplato …, ossia il Verbo della vita  noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,1-4).


[1] La distinzione tra “fede in Gesù” e “fede in Cristo” potrebbe risultare incomprensibile a quanti ritengono sinonimi i termini “Gesù” e “Cristo”, in realtà il primo è il nome proprio dell’uomo di Nazaret, il secondo è il titolo con cui viene riconosciuta la sua messianicità e divinità. La “fede in Gesù” è l’atteggiamento con cui un discepolo stabilisce un rapporto di fiducia umano col suo maestro; la “fede in Cristo” presuppone invece l’esperienza pasquale nella quale Gesù viene compreso come il Cristo Salvatore. 

[2] Sebbene questa testimonianza possa apparirci lontana nel tempo essa costituisce un fondamento della nostra fede e della fede della Chiesa, non a caso definita anche “apostolica”, proprio perché fondata su quella degli apostoli.

[3] Spiegare significa togliere le pieghe che impediscono alla nostra intelligenza di accedere al mistero di Cristo. Si tratta di pieghe culturali che spesso si formano nella nostra ragione a causa di quelle idee, concezioni, visioni della vita che acquisiamo più o meno consapevolmente, nel corso della nostra formazione culturale, le quali distorcono o alterano la realtà impedendoci di giungere alla verità delle cose. Il compito della nostra ragione consiste perciò nello spiegarle, in modo da far emergere la verità che spesso è nascosta dietro le situazioni, gli avvenimenti, le circostanze dolorose e misteriose della vita.

[4] È interessante notare che dopo la risurrezione tutti gli altri segni della passione come frustate, membra tumefatte, volto sfigurato, scompaiono tranne le piaghe. Esse diventano perciò per gli apostoli il principale criterio di riconoscimento.

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page