5 Ottobre 2025 - Anno C - XXVII Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 4 ott
- Tempo di lettura: 8 min
Ab 1,2-3; 2,2-4; Sal 94/95; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Verso una fede matura

“Accresci in noi la fede!” (Lc 17,6) è la richiesta che gli apostoli rivolgono al Signore nel tentativo di conoscere le condizioni umane e spirituali per svilupparla e farla progredire. La risposta di Gesù ci sorprende perché sembra non solo eludere il desiderio sincero e autentico degli apostoli, ma addirittura mostrarne i limiti, già di per sé evidenti: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,6). La stessa risposta, sia pure con qualche variante narrativa, la troviamo anche nei Vangeli di Matteo (17,20; 21,21) e di Marco (11,23)[1], i quali, però, collocano l’episodio in un contesto ben diverso: Matteo in quello dell’“Epilettico indemoniato” (Mt 17,14-20), Marco in quello del “Fico sterile” (Mc 11,12-14; Mt 21,21-22). In entrambi i casi gli apostoli, davanti alla gravità della situazione e della straordinaria potenza taumaturgica di Gesù, prendono coscienza del limite della loro fede. Da qui la richiesta: “Accresci in noi la fede!”.
La richiesta dei discepoli ci offre l’occasione per fare il punto della situazione, per capire in quale fase o condizione si ritrova la nostra fede. Anche noi, infatti, come gli apostoli, ci scopriamo limitati e desiderosi di accrescerla in noi. Ma come si fa a sviluppare la fede? Quali sono gli elementi che la costituiscono? Quali le condizioni, le tappe e i tempi che ci permettono di farla maturare? Quali rapporti essa intesse con la preghiera? Dai brani biblici che la Liturgia sottopone alla nostra attenzione, si deduce che l’aspetto che stiamo cercando di mettere a fuoco non riguarda solo la relazione di fiducia che essa ci consente di creare con Dio, la fedeltà alla sua promessa, l’attesa e la perseveranza nella sua realizzazione – come attesta la prima lettura – ma soprattutto le potenzialità che la caratterizzano – come invece emerge dal Vangelo –. In questo senso essa non va intesa come un dono divino che riceviamo già bello e compiuto, come ritengono alcuni, ma come un potere creativo, vivo e pulsante che necessita però di essere scoperto e potenziato, e del quale noi possiamo disporre per concentrare tutta l’energia divina verso uno scopo ben definito. Si tratta di un potere che può realmente compiere opere di una portata straordinaria. Gesù è estremamente fiducioso di questa potenzialità divina che alberga dentro di noi, tanto da arrivare a dire ai suoi discepoli: “In verità vi dico: chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12).
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Abacuc, ci offre una straordinaria testimonianza in merito. Quella descritta dal profeta è la situazione tipica di chi trova difficile comprendere, anche all’interno di un contesto religioso ed ecclesiale, il linguaggio comunicativo di Dio. In particolare al profeta risulta incomprensibile il criterio con cui Dio interviene nella storia, specie quando questi sembra non rispettare i tempi e i modi previsti dalle nostre attese. Il suo ritardo gli appare ingiustificato, soprattutto dinanzi alla reiterata violenza dei prepotenti, verso i quali Dio sembra rimanere come un’impassibile “spettatore” (cf. Ab 1,3). Questa “sordità” di Dio gli appare ancora più assurda soprattutto dopo le sue continue preghiere e suppliche: “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: ‘Violenza!’ e non salvi?” (Ab 1,2). Ma proprio quando gli sembra di sperimentare il fondo della tristezza, ecco che Dio gli si manifesta in una visione: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente” (Ab 2,2). Si tratta di una risposta che gli giunge nella forma di una teofania (letteralmente “manifestazione sensibile di Dio”, dal greco Theos “Dio” e phàinein “manifestarsi”), maturata all’interno di un contesto di preghiera, il che lascia intendere che il profeta abbia continuato a invocare l’intervento di Dio anche dopo il suo prolungato silenzio, convinto com’era della fedeltà di Dio alla sua promessa. Quella circostanza che sembrava evidenziare l’assenza di Dio e il limite della sua fede, gli si rivela, paradossalmente, come l’occasione per crescere in essa. Ecco, dunque, una prima condizione fondamentale per progredire nella fede: la preghiera fatta con convinzione, senza esitazione, alimentata dalla perseveranza e dalla certezza della fedeltà di Dio alla sua promessa. È a queste condizioni che Abacuc ha modo di sviluppare il suo sguardo profetico, grazie al quale egli riesce a intravedere l’opera di Dio oltre le “iniquità” dei suoi “oppressori”. Indugiare in queste circostanze significa esporsi al pericolo del dubbio. E il dubbio è segno di chi non ha ancora raggiunto “l’animo retto”, integro, puro, come quello del “giusto (che) invece vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). Non è un caso dunque che al profeta venga chiesto di rimanere fedele alla “parola datagli da Dio”. Essa parla di una “scadenza”, al termine della quale Dio interverrà. Il profeta deve solo nutrire questa convinzione nel suo animo, anche quando tutto sembra dire il contrario. Da qui l’invito a non indugiare, anzi ad attendere la realizzazione della sua promessa; “perché essa certo verrà e non tarderà” (Ab 2,3).
La preghiera fatta con convinzione è ciò che emerge ancora più chiaramente dall’episodio del Fico sterile, raccontato da Marco e Matteo, nel quale Gesù ribadisce: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quando dice avviene, ciò gli avverrà. Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (cf. Mc 11,22-24; Mt 21,21-22).
Una condizione questa richiesta da Gesù che, a dire il vero, ci capita di sperimentare molto raramente. Di solito siamo attraversati dai dubbi e questo indebolisce il potere della preghiera e di conseguenza anche quello della fede. Chi di noi, infatti, non ha mai sperimentato queste difficoltà? E chi di noi, in simili circostanze, come il silenzio di Dio, non ha provato dubbi sul suo reale intervento nella storia, specie in quelle situazioni di persistente ingiustizia sociale? Quanti cristiani, in simili situazioni, abbandonano la fede, rassegnandosi all’idea che la logica del mondo sia destinata a prevalere sempre su quella evangelica? Magari alcuni prepotenti potranno anche soccombere, ma quanti altri sono pronti subito a prendere il loro posto, ancora più agguerriti dei loro predecessori? È possibile maturare la fede in simili circostanze? Il benessere nel quale viviamo non ci ha forse infiacchiti nello spirito, facendoci sembrare la realizzazione della giustizia di Dio solo un’utopia? Eppure è proprio in queste circostanze critiche che anche Maria è rimasta fedele alla certezza di un reale intervento di Dio che “disperde i superbi nei pensieri del loro cuore; rovescia i potenti dai troni; innalza gli umili …” (cf. Lc 1,51-52). Una logica divina questa comprensibile solo ai “poveri in spirito” (Mt 5,3), ai “puri di cuore” (Mt 5,8) e agli “umili” come lei (cf. Lc 1,48), che sanno scrutare le profondità di Dio e cogliere la sapienza del suo piano d’amore anche nelle più tragiche e nefaste vicende storiche. Maria non si limita a denunciare l’ipocrisia con cui i potenti esercitano la loro giustizia giuridica e distributiva a livello personale e sociale, ma a profetizzare l’azione con cui Dio ribalterà la loro logica arrogante e prepotente. Dinanzi alle evidenti e persistenti ingiustizie, come quelle che emergono anche dal nostro contesto sociale, non è facile credere che Dio “innalzi gli umili; ricolmi di beni gli affamati e rimandi a mani vuote i ricchi; che soccorra i suoi servi e rimanga fedele alla promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza” (cf. Lc 1,51-55). Credere in questa “sovversiva” logica evangelica, quando la storia ci attesta tutt’altro – come le crudeltà compiute nei vari campi di concentramento nazisti o l’attuale sterminio di massa che si sta compiendo a Gaza – e la cultura ci induce a credere che è solo un’utopia, significa avere un autentico sguardo di fede-profetica, capace di cogliere l’azione discreta di Dio anche nei più piccoli segni dei tempi. Una fede, dunque, quella che ci viene suggerita da Abacuc e da Maria, che riusciamo a sviluppare in noi solo se rimaniamo fermamente convinti che l’opera di Dio si palesa secondo la logica del granello di senape, animata dalla certezza che, malgrado tutto, lo Spirito “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5).
È in situazioni di chiara, assurda e reiterata ingiustizia sociale, come queste che occorre accrescere la fede. Esse ci appaiono insormontabili come le montagne o difficili da sradicare come un albero di gelso[2], eppure Gesù ci fa nutrire la certezza che “a Dio nulla è impossibile” (Lc 1,37). È chiaro che la fede descritta da questi brani biblici non è quella preliminare che si limita a credere solo nell’esistenza di Dio e neppure quella che viene studiata e argomentata teoricamente nelle aule accademiche, ma quella che scaturisce dalle situazioni quotidiane e concrete della vita, come attesta il Salmo 94/95, dove il l’autore invita il popolo ad “ascoltare la voce di Dio e a non indurire il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove i loro padri tentarono Dio, mettendolo alla prova, pur avendo visto le sue opere” (Sal 94,8-9). È la fede di coloro che nei momenti di maggiore bisogno – come può essere la sete nel deserto, la schiavitù in Egitto o ancora le diverse circostanze di pericoli – colgono negli eventi – apparentemente insignificanti della vita e della storia – un intervento di Dio, come invita a riconoscere Paolo, quando afferma che “Dio sceglie ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti … ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ignobile e disprezzato … per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,27-28). Avere fede significa allora credere in questa logica assurda e incomprensibile, con la quale Dio conduce nella storia la salvezza del mondo. Entrare nella dinamica di questa logica divina significa aderire al modo di pensare e di operare di Dio nel mondo. Ma credere in lui comporta anche la consegna della propria vita, ovvero l’impegno ad offrire il proprio contributo alla salvezza del mondo, convinti che anche dopo aver fatto tutto quello che ci è stato ordinato di essere servi inutili (cf. Lc 17,10), affinché “nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1Cor 1,29).
Cos’è allora che in ultima analisi Gesù chiede ai suoi discepoli? Crescere nella fede non significa acquisire criteri che ci consentono di gestire o pilotare l’imprevedibile azione di Dio nella storia. Ma di avere quell’atteggiamento di intima fiducia in lui che ci persuade della certezza del suo intervento, anche quando tutto sembra dirci il contrario. Si tratta di stabilire e sviluppare con lui un atteggiamento di ascolto, fiducia, affidamento totale. La fede diventa perciò il luogo nel quale prendiamo coscienza della presenza misteriosa di Dio e il modo con cui egli attraverso Cristo e per mezzo dello Spirito, ci educa a vedere la realtà dall’alto. Avere fede significa, dunque, imparare a pensare come Dio, per cogliere nella profondità del suo amore il senso salvifico della storia. Significa credere nelle cose impossibili, come quelle descritte dall’esempio paradossale del gelso: “sradicati e vai a piantarti nel mare”. Questa fede non dipende dalla nostra conoscenza teologica, ma dal modo in cui lasciamo Dio libero di essere Dio in noi e nel mondo, ovvero di lasciarlo libero di manifestare tutta la potenza della sua divinità. Così vissuta la fede ci libera dalla tentazione di sentirci indispensabili protagonisti della salvezza, purtroppo così frequente perfino in molti cristiani. Il monito di Gesù: “siete servi inutili”, diventa allora l’occasione per svuotarci di quest’arrogante presunzione che abita nel nostro cuore e, al contempo, il modo per cogliere il segreto di ogni autentica missione, che potremmo sintetizzare con questa massima spirituale di sant’Ignazio di Loyola: “Prega come se tutto dipendesse da Dio, lavora come se tutto dipendesse da te”. Se questa è la fede perché vergognarci di esercitala? (cf. 2Tm 1,8).
[1] In questi due evangelisti, infatti, al posto del “gelso” troviamo il “monte”.
[2] La ragione per cui Gesù fa questo paragone si spiega col fatto che la fede, pur essendo piccola, pur riuscire nelle imprese letteralmente impossibili, come spostare una montagna o sradicare un albero come il gelso, le cui radici sono così espanse e profonde che risulta quasi impossibile divellerle.




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