3 Aprile 2022 - Anno C - V Domenica di Quaresima
- don luigi
- 2 apr 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Is 43,16-21; Sal 125/126; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11
Protesi verso la meta di lassù

“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,18-19). Rileggere questi versetti di Isaia dopo la liturgia della “riconciliazione” di domenica scorsa (cf. Lc 15,20-24) e quella del “perdono”, nell’odierno brano evangelico (cf. Gv 8,10-11), sembra di intravedere già la novità della vita nuova in Cristo, alla quale ci apre la Pasqua, ormai imminente. “Novità” che Paolo descrive ancora più esplicitamente in questo suo brano della lettera ai Filippesi: “Quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considero una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita di fronte alla sublimità di Cristo, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura … Questo soltanto io so: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,7-8.13-14). Cos’è allora la “novità” di cui parla Isaia e qual è la “meta” alla quale è proteso Paolo, se non la Pasqua alla quale la Chiesa ci fa volgere lo sguardo? Dopo la parabola del Figliol prodigo la liturgia ci propone, dunque, un altro episodio evangelico che fa luce sulla dinamica del perdono e degli effetti che ne derivano, quali segni della vita nuova, nella quale Cristo ci introduce con la sua Pasqua (cf. Ef 4,17-5,1-20; Rm 6,3-4.8-11), e alla cui luce possiamo risignificare tutta la nostra esistenza.
Cosa fare per divenire oggetti del perdono di Cristo? (cf. Mc 10,17) Posta in questi termini la domanda è volontariamente insidiosa, poiché ci porta a stanare quella mentalità religiosa, tipicamente farisaica, ma così diffusa e radicata anche tra noi, secondo la quale la salvezza è considerata un premio del nostro impegno, un merito della nostra presunta condotta morale integerrima. In realtà il per-dono è, come dice il termine, un dono che Dio elargisce gratuitamente per noi, indipendentemente dalla nostra condotta morale e religiosa. Esso non ci viene offerto in base ai nostri meriti, ma per l’eccedenza dell’amore di Cristo: “Donna dove sono? Nessuno ti ha condannata?” dice Gesù all’adultera. “Ed ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù disse: Neanche io ti condanno” (Gv 8,10-11). L’adultera, com’è evidente, viene perdonata prima ancora di compiere un cammino penitenziale.
Questo gratuito perdono che Cristo elargisce senza misura e la libertà che ne consegue è alla base dell’adesione di Paolo al Vangelo di Cristo, alla cui luce egli “considera spazzatura” “queste cose” (Fil 3,8) o “le cose passate” come le definisce Isaia (43,18). “Le cose” alle quali si riferisce Paolo non sono affatto le situazioni immorali della sua vita precedente, bensì quella mentalità religiosa che lo induceva a pensare la salvezza come la conseguenza della sua fedele applicazione della legge. Paolo era una persona integra, zelante, ma un po’ come tanti farisei, era divenuto vittima di una perversa e insidiosa interpretazione della legge. Egli era convinto che la fedeltà alla legge gli avrebbe garantito la salvezza, ma più si sforzava di seguirla e applicarla in tutto il suo rigore, più essa gli faceva prendere coscienza dell’impossibilità di una simile impresa. Finché Cristo non gli fa scoprire la salvezza come un dono della fede in lui. Questo cambio di mentalità religiosa avvenuto in Paolo è esattamente quello che la Chiesa ci invita a fare attraverso il cammino quaresimale.
Per avere un’idea di questa straordinaria esperienza di libertà che la fede in Cristo ha comportato nella vita di Paolo, possiamo osservare l’atteggiamento che i farisei e gli scribi assumono nei confronti di Gesù, nell’episodio evangelico dell’adultera perdonata. Il brano ci riferisce di una donna, colta in flagrante adulterio, presentata a Gesù con l’esplicito pretesto di avere un motivo di che accusarlo, a causa del suo operato a favore dei peccatori, ritenuto, per così dire, troppo generoso, avventato e inopportuno, nel dispensare il perdono di Dio. La donna, dunque, è solo un pretesto. La circostanza, com’è evidente, è premeditata. Il caso al quale essi si riferiscono è uno di quelli che la legge mosaica non ammette equivoci: la condanna alla lapidazione, senza mezzi termini, della donna e dell’uomo che vengono colti in flagrante adulterio (cf. Dt 22, 1ss; 5, 18; Lv 18, 20; 20,10; Es 20,14). A Gesù tuttavia viene presentata solo la donna, a testimonianza della perfida intenzione dei suoi interlocutori. Secondo gli accusatori Gesù non avrebbe avuto scampo: comunque sarebbe stata la sua risposta, essi avrebbero trovato in lui un motivo di che accusarlo. Infatti, nel caso in cui avesse approvato la condanna, lo avrebbero accusato di contraddire l’amore misericordioso che andava predicando; se invece l’avesse perdonata, allora lo avrebbero accusato di essere trasgressore della legge. Ma contrariamente alle loro previsioni Gesù dà una risposta lapidaria: “Chi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei” (Gv 8,7). Nessuno avrebbe mai immaginato una risposta così disarmante, che sgretola improvvisamente tutto il loro sistema giudiziario, fondato sulla condanna del reo e del reato. La logica di Dio, invece, ribadisce Gesù, è del tutto diversa: “Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (Ez 33,11).
Al centro della questione, dunque, per i farisei e gli scribi, c’è il peccato; per Gesù, invece, c’è la persona del peccatore. I primi identificano la trasgressione col peccatore e come tale va condannato ed eliminato. Gesù opera invece una fondamentale distinzione, che lascia trapelare la funzione e il senso autentico della legge nella visione di Dio: il peccato va biasimato, mentre il peccatore va compatito e perdonato. La giustizia di Dio, per Gesù, dunque, non si manifesta secondo la tradizionale teoria della retribuzione che vede Dio condannare i peccatori e premiare i buoni, ma nella giustificazione gratuita del peccatore. È questa l’esperienza che Paolo sintetizza nella sua lettera ai Filippesi, nel brano che la liturgia ci propone per la circostanza, con la quale egli cerca di far prendere coscienza ai suoi interlocutori del rischio al quale si stanno pericolosamente esponendo, benché essi abbiano aderito già alla fede in Cristo. Quello dei Filippesi in realtà è anche il nostro pericolo al quale ci esponiamo tutte le volte che, come i farisei, facciamo della legge morale uno strumento di giudizio e di condanna degli altri, anziché un modo per guidarli alla piena conoscenza della salvezza di Dio. Dinanzi a questo pericolo non abbiamo forse anche noi bisogno di liberarci di quella mentalità farisaica che ci fa ritenere la salvezza una conseguenza della nostra impeccabile osservanza della legge, piuttosto che come un dono gratuito che “viene dalla fede in Cristo” (Fil 3,9)?
Cos’è allora la Pasqua se non quella straordinaria esperienza di libertà[1], della quale Cristo ci rende partecipe attraverso “la sua giustificazione”? [2] Qual è allora la sapienza divina che siamo chiamati ad acquisire se non quella mentalità evangelica che ci porta a considerare necessaria la nostra adesione alla sofferenza di Cristo, per partecipare anche della sua Risurrezione? (cf. Fil 3,10-11). L’augurio, dunque, è che ciascuno di noi, al termine di questo cammino quaresimale di conversione, possa ripetere con san Paolo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede (Fil 3, 8-9).
[1]La libertà costituisce senza dubbio il criterio più chiaro ed esplicativo per riconoscere l’opera dello Spirito di Dio in noi. Sentirsi liberi, leggeri, puri dopo essersi riconciliati con Dio, con l’altro, con se stessi, col creato, significa pregustare, già nell’oggi della fede, la vita pasquale di Cristo. [2] Per avere un’idea del significato che Paolo attribuisce al termine “giustificazione”, si rivela efficace un esempio che ritengo comune a tanti di noi, quando ritrovandosi al mattino a scuola, dopo un pomeriggio trascorso senza studiare, si chiede al professore di essere esonerato dall’interrogazione. La gratuita giustificazione che inaspettatamente ci viene concessa, ci evita quelle spiacevoli sorprese che ritenevamo di meritarci. La stessa cosa accade anche quando Cristo, per amore, ci giustifica gratuitamente davanti a Dio, evitando così di farci sperimentare le conseguenze del peccato.
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