3 Agosto 2025 - Anno C - XVIII Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 2 ago
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Qo 1,2; 2,21-23; Sal 89/90; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21
Vanità o eternità?
Quando il futuro dipende dalle nostre scelte

“Vanità delle vanità” (Qo 1,2), è la conclusione a cui perviene l’autore del libro di Qoèlet, che contrasta palesemente con la domanda sull’eternità e sulle condizioni per ereditarla, alla quale abbiamo cercato di dare una risposta in queste ultime domeniche.
Di tutt’altro spessore, quindi, è la questione che si profila da questa Liturgia della Parola: vanità o eternità? Sembra essere racchiuso in questa domanda il tema sul quale siamo invitati a riflettere. La domanda infatti pone al centro della nostra attenzione una questione esistenziale fondamentale: darsi ad una vita effimera, edonistica e priva di senso, oppure viverla nella speranza che sia solo una condizione transitoria per l’eternità? Si tratta com’è evidente di una domanda decisiva, dalla quale dipende il futuro eterno della nostra esistenza; ragion per cui, ciascuno di noi, indipendentemente dalla propria sensibilità culturale, morale o religiosa, è chiamato a dare una risposta. Nessuno è esente. Anche chi non è in grado di rispondere è responsabile della propria mancata risposta. Da qui l’idea di rileggere e commentare i brani biblici dell’odierna Liturgia come l’occasione per fare il punto della questione e magari, perché no, invitare ciascuno a dare la propria risposta.
Quello di Qoèlet è in realtà il motivo narrativo che attraversa l’intero testo biblico; una sorta di leitmotiv che viene declinato nei diversi ambiti della vita umana. “Vanità delle vanità” è la formula con la quale l’autore traduce l’amaro epilogo al quale giunge al termine della sua vita, col quale dà ragione del suo cocente pessimismo. L’autore che afferma di essere il Re Salomone (cf. Qo 1,1.12)[1], pur essendo stato educato e formato ai più nobili ideali della sapienza e della scienza israelita (cf. Qo 1,16-17), non può fare a meno di esprimere la propria visione di vita, che si presenta ai suoi occhi in tutto il suo carattere precario e fugace, manifestando nella morte la forma più cruda e dura del suo nichilismo. Tutto è vano, ingannevole, illusorio, effimero, vuoto. Panta rei “tutto passa”, avrebbe ribadito Eraclito. Un’analisi spietata, eppure terribilmente vera, anche se ancora priva di qualsiasi visione trascendente della vita. Da qui l’inevitabile domanda che attraversa la sua mente e quella di tanti che, come lui, si chiedono ancora oggi: a che pro’ “affannarsi sotto il sole” (cf. Qo 1,3) se tutto si rivela inutile? Non è forse meglio darsi al piacere, al godimento, al divertimento? Ma l’analisi del nostro autore non dà scampo neppure a questa soluzione: “anche questo è vanità” (Qo 2,1).
Raccogliendo l’eredità di questo autore viene da chiedersi: se questo è l’esito dell’esistenza che senso ha vivere? Se il destino è il nulla perché esistere? Che fine fanno tutti quei beni, quei sacrifici, affetti, aneliti, speranze per i quali ho faticato tutta la vita? Che motivo c’è di impegnarsi, e affannarsi se poi tutto sfocia nel nulla? La questione si fa ancora più drammatica quando la sua analisi passa in rassegna non solo l’atteggiamento di chi si è impegnato ad accumulare i beni materiali, ma anche quello di chi ha vissuto dedicandosi a impegni più nobili come la sapienza, la scienza, le virtù, la morale. “Tutto è vanità”. Una constatazione, questa di Qoèlet, che non sembra lasciare scampo a nessuna forma di speranza e visione trascendente della vita. E nessuno potrebbe contraddirlo, specie quando ci viene di constatare il carattere misterioso, enigmatico, assurdo, ambiguo, equivoco e incomprensibile della vita. Eppure dinanzi a questo doloroso e spietato riscontro viene da chiedersi: se la vita nasce dal nulla e torna nel nulla, qual è la ragione della sua esistenza? E per noi che esistiamo: c’è qualcosa di solido, di duraturo, di vero, autentico, eterno per cui vale la pena vivere? È con queste domande che ci accostiamo alla parabola evangelica sulla vanità dei beni terreni – che sembra essere un’esclusiva lucana – e al testo paolino, nella speranza di trovarvi una risposta persuasiva e credibile.
La formulazione della parabola viene provocata da una domanda posta a Gesù da “uno della folla” che aveva chiaramente travisato il senso della sua missione pubblica: “Maestro dì a mio fratello che divida con me l’eredità” (Lc 12,13), alla quale Gesù, senza mezzi termini, risponde subito chiarendo il senso della sua giustizia: “O uomo chi mi ha costituito giudice e mediatore sopra di voi?” (Lc 12,14). Il tale, la cui identità ci rimane anonima, riduce la missione di Gesù a un incarico notarile, come se la sua giustizia dovesse riguardare questioni di ordine ereditario. Nonostante l’equivoco Gesù coglie l’occasione per esternare la sua visione sul rischio a cui si espone chi persegue nella vita questo genere di beni. Da qui l’insistenza sulla “cupidigia”, ovvero su quel sentimento di avidità, bramosia, possesso e attaccamento ai beni terreni che induce a sviluppare una mentalità di accumulo sempre più stressante e ansiosa, secondo la quale i beni sono ritenuti indispensabili per una maggiore qualità e sicurezza della vita. Una sorta di polizza assicurativa per garantirsi un futuro felice, sereno e privo di imprevedibili difficoltà, esattamente come attesta la conclusione alla quale perviene l’uomo della parabola al quale quell’anno il suo campo aveva dato un ottimo raccolto, dinanzi al quale disse a se stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!” (Lc 12,19). Ma quando tutto sembrava andare per il meglio, ecco il colpo di scena, che conferisce al racconto una svolta narrativa, con la quale Gesù cambia radicalmente non solo la sorte favorevole dell’uomo, ma anche la visione pessimistica di Qoèlet: “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (Lc 12,20-21).
Seppure in modo molto semplice Gesù introduce nella sua riflessione sulla vita la voce di Dio, e più specificamente la promessa di un futuro eterno, che paradossalmente non entra mai in gioco nella visione nichilista di Qoèlet. Il suo scetticismo infatti nasce dalla sperimentazione dei limiti della sapienza israelita. Egli crede sì in Dio, ma come tanti suoi contemporanei non crede in una vita dopo la morte. Da qui la triste e dolorosa conclusione a cui giunge al termine della sua vita: tutto è vano. Tutto finisce nel nulla. Si capisce chiaramente l’assenza della risurrezione nella sua visione sapienziale. Visione alla quale Israele perviene solo più tardi, come emerge dal secondo libro dei Maccabei, 7, scritto intorno al II sec. a.C.
Quella di Gesù costituisce allora una riflessione con la quale ciascuno di noi è chiamato a confrontarsi se intende uscire da quella visione immanentista, materialista e nichilista della vita, tipica anche della mentalità culturale contemporanea. Priva di una dimensione trascendente la vita rimane chiusa all’interno di una interpretazione asfissiante e sterile. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Tutto si ripete sempre allo stesso modo. Nessuna speranza di rinnovamento diventa plausibile per chi si preclude la possibilità di mettersi in ascolto di quel sottilissimo e apparentemente insignificante sibilo spirituale, che attraversa ciascuno di noi, meglio conosciuto come “voce di Dio”.
Da qui l’ammonizione di Gesù che invita a prendere le distanze dalla cupidigia: “Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede” (Lc 12,15). Gesù non condanna i beni necessari, funzionali alla vita, ma quell’atteggiamento avido con cui si cerca morbosamente di accaparrarsi di un bene altrui o di un potere, per farne oggetto esclusivo del proprio possesso e piacere. Quando la cupidigia diventa criterio esclusivo della vita rischia di restringere il campo visivo dell’intelligenza creativa, fino a impedire di cogliere il senso autentico e pieno della vita. Purtroppo nonostante queste amare e tristi conseguenze, per altro molto diffuse perfino tra i cristiani, tante persone continuano imperterriti a lasciarsi guidare dal criterio della cupidigia, fino a sperimentare già su questa terra la dannazione, nel veder svanire quei beni che magari hanno accaparrato con tanto sforzo e avidità durante la vita. Ora se tale criterio viene giudicato vano già dall’autore del libro di Qoèlet, che pure non disponeva di una visione trascendente della vita, ancora di più la sua vanità emerge alla luce dell’Evento Pasquale di Gesù. Ecco il dato che ci consente di dare fiato alla speranza di una vita eterna.
È a queste condizioni che si capisce l’esortazione paolina a “cercare le cose di lassù” (Col 3,1), per conseguire le quali però occorre acquisire la mentalità di Cristo che consente di valutare e scegliere con ragionevolezza le cose per cui vale la pena vivere e quelle sulle quali siamo chiamati a investire le nostre risorse intellettive, creative, volitive, affettive, affinché non accada di aver corso invano nella vita. Perciò mi piace concludere con le parole di Gesù: “Non preoccupatevi per la vita, di quello che mangerete; né per il corpo, di quello che indosserete. La vita, infatti, vale più del cibo e il corpo più del vestito …” (Lc 12,22-23). Di tutte queste cose vanno in cerca gli avidi, gli ingordi. “Voi invece cercate il suo regno, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Lc 12,31). Pertanto “non accumulate tesori sulla terra … accumulate invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano” (Mt 6,19-21). Ecco il tesoro di cui arricchirsi (cf. Lc 12,21). Solo chi ha un cuore libero da ogni forma di attaccamento potrà nutrire la speranza a cui danno adito queste parole di Gesù. È la fede nella sua parola a garantirci la realizzazione di questa promessa: “Chi ascolta la mia Parola ha la vita eterna … e quelli che l’avranno ascoltata vivranno” (Gv 5,24.25). Il futuro della nostra vita, allora, sembra dirci Gesù, dipende dalla persona alla quale diamo credito e dalla forza delle nostre scelte.
[1] In realtà la critica esegetica moderna ritiene difficile sostenere questa tesi poiché il libro risale al 200 a.C., praticamente lontano dall’epoca vissuta dal re Salomone che corrisponde invece al 500 a.C. L’attribuzione al “Figlio di Davide” risponde allora al criterio, piuttosto comune all’epoca, di conferire la paternità ad una figura stimata che conferisse autorevolezza all’opera.




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