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29 Giugno 2025 - Anno C - Santi Pietro e Paolo Apostoli


At 12,1-11; Sal 33; 2Tm 4,6-8.17-18; Mt 16,13-19


Il primato di Pietro



Perugino, Consegna delle chiavi a Pietro (1481-1482), Cappella Sistina, Città del Vaticano
Perugino, Consegna delle chiavi a Pietro (1481-1482), Cappella Sistina, Città del Vaticano

“In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: Chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù gli disse: Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli (Mt 16,13-19).

La solennità che caratterizza la celebrazione dei Santi Pietro e Paolo assume in questa circostanza la prevalenza sulla 13a Domenica del TO. La coincidenza ci offre l’occasione per considerare più da vicino la fede dei due apostoli, la modalità con cui essi l’hanno vissuta e i relativi aspetti che la caratterizzano: come il primato che essa assume nel loro ministero; il rapporto che intercorre tra la disponibilità a ricevere la rivelazione divina e l’esercizio dell’intelligenza umana nella conoscenza teologica; gli influssi culturali che ne condizionano le interpretazioni; la speranza che essa infonde nelle circostanze più critiche e difficili della loro vita.

La professione di fede da parte di Pietro è un episodio chiave nel cammino dei discepoli. Essa scaturisce da una domanda che Gesù pone loro, come ai discepoli di ogni tempo: “Chi dite che io sia?” (Mt 16, 15), alla quale nessuno può sottrarsi, se intende essere un testimone autentico della fede in Cristo. I sinottici pongono questo episodio, presso a poco alla metà della loro narrazione evangelica (cf Mt 16, 13-20; Mc 8, 27-30; Lc 8, 18-21), come a voler evidenziare la svolta che essa segna nel cammino di sequela di ciascuno discepolo. Il riconoscimento dell’identità messianica di Gesù: “Tu sei il Cristo” (Mt 16,16), rappresenta perciò la condizione imprescindibile di ogni professione di fede e di ogni esercizio ecclesiale che ne scaturisce. Se c’è una ragione che giustifica l’essenza della fede cristiana, questa sta nel riconoscere Gesù come l’Unto di Dio.

La scena viene ambientata a Cesarea di Filippo, una città pagana a nord della Palestina e ruota intorno alla questione centrale della predicazione messianica di Gesù e l’esatta comprensione del titolo di Cristo che gli viene riconosciuto. Che il Messia fosse atteso era un dato da tutti condiviso, ma non tutti erano concordi nella sua interpretazione. Lo stesso Gesù, come attesta anche il v. 20 del nostro brano, si era mostrato estremamente cauto nell’uso di questo titolo: “Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo” (Mt 16, 20). Questo divieto nasce dai diversi equivoci a cui davano adito le sue interpretazioni. Quella più diffusa era senza dubbio politica. Da qui l’idea, abbastanza radicata nel popolo d’Israele, dell’attesa di un condottiero di tipo davidico, che avrebbe definitivamente conferito al popolo una dignità sociale, rispetto ai regni a cui spesso era sottomesso. Tutt’altro che politica, invece, era l’interpretazione messianica del profeta Isaia, alla quale Gesù si rifà dandone prova durante la passione, quando ne manifesta il profilo nella forma del servo sofferente (cf. Is 42, 1-4; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-15). Essa però incontra non poche difficoltà ad essere recepita da parte dei discepoli, condizionati come sono da una mentalità culturale che ne limita la comprensione, come attesta il rimprovero che Pietro fa a Gesù appena dopo il suo annuncio della passione (cf. Mt 16,22).

Questa visione politica del messia si rivela particolarmente difficile da sradicare. Essa ha condizionato e condiziona non poco il vissuto della fede anche a livello ecclesiale, dove le interferenze politiche hanno spesso alterato l’esatta interpretazione del primato conferito da Gesù a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa …” (Mt 16,18.19). La storia ci insegna che questo tipo di interferenze sono state motivo di non pochi conflitti ecclesiali e sociali, non solo sotto il profilo teologico, ma anche governativo.

Anche la particolare investitura ecclesiale che Gesù conferisce a Pietro si rifà alla tradizione del profeta Isaia, il quale parla dei poteri regali che Dio attribuisce a Eliakim, figlio di Kelkia: “Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire” (Is 22,22). Le chiavi, a cui si fa riferimento in questo brano, avevano un significato simbolico. Spesso erano di grandi dimensioni e venivano poste sulle spalle del prescelto, come a volere indicare il peso della responsabilità che comportava il suo incarico. Pietro, dunque, viene investito di una responsabilità divina. Essa viene dall’alto, e per questo non può essere esercitata con la stessa logica di un potere politico, come invece pensano di fare i figli di Zebedeo: Giacomo e Giovanni, quando osano chiedere a Gesù di essere posti a destra e a sinistra di lui nel regno di Dio (cf. Mc 10,35-45). A Pietro vengono consegnate le chiavi del Regno che gli conferiscono il potere di “sciogliere e di legare”, ovvero di concedere o negare l’accesso al regno, con la stessa autorità di Cristo. Dinanzi a una simile responsabilità si rivela più che mai decisiva la totale diponibilità paolina a lasciar operare Cristo nella propria vita, fino a condividere con lui una radicale identificazione: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Ecco il primato che Pietro è chiamato a custodire: conferire a Cristo la preminenza della salvezza nel mondo. Tale primato, non dipende da una decisione arbitraria di Gesù, e neppure da una capacità governativa di Pietro, ma dalla totale disponibilità a lasciar operare lo Spirito di Cristo in sé.

Questa nuova logica interpretativa del primato scaturisce dall’autorevolezza carismatica di Pietro nell’esercitare il suo ruolo all’interno della Chiesa. Il suo potere non sta nell’esercizio di un dominio, ma nella realizzazione di una comunione di vita evangelica fondata sul servizio reciproco , esattamente come Gesù stesso attesta di vivere la sua missione: “Il Figlio dell’uomo è venuto per servire e non per esser servito” (cf. Mc 10,45). A fondamento del primato c’è dunque la fede e in particolare l’intuizione messianica di Pietro, come evidenzia lo stesso Gesù, subito dopo la risposta di Pietro, facendoci cogliere un elemento rilevante della fede cristiana, legato non tanto alla particolare dote intellettiva di Pietro, quanto alla docile disposizione della sua ragione alla rivelazione divina. “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. La rivelazione della quale Pietro viene fatto partecipe, non scaturisce dalla capacità speculativa della sua ragione, ma è un dono libero e gratuito di Dio, che si rivela a lui nella povertà di spirito (cf. Mt 5,5), ovvero nell’umile esercizio dell’attività intellettiva e razionale della sua mente.

È interessante notare come la fede sia l’unica cosa che Paolo custodisce gelosamente al termine della sua vita, tutta spesa per l’evangelizzazione di Cristo. I toni intimi e personali con cui scrive al suo collaboratore Timoteo rasentano perfino la commozione: “Figlio mio … è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede” (2Tm 4,7). Nessuna gloria, nessuna opera, nessuna impresa viene menzionata da Paolo. Nulla ha più importanza a conclusione della sua missione, solo la fede con la quale nutre la speranza di essere salvato: quel “Signore che mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo … mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno” (2Tm 4,18).

In conclusione: nessun primato ecclesiale può essere autenticamente esercitato se esso non ha origine nella volontà di Dio e non ha come fine la realizzazione del suo Regno nel mondo. La storia della salvezza è fatta da coloro che si fanno interpreti di questo piano divino nell’oggi della fede.

 

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