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27 Luglio 2025 - Anno C - XVII Domenica del tempo ordinario


Gn 18,20-32; Sal 137/138; Col 2,12-14; Lc 11,1-3


La preghiera:

l’humus della relazione col Padre


La distruzione di Sodoma (XII secolo), Duomo di Monreale
La distruzione di Sodoma (XII secolo), Duomo di Monreale

“Signore insegnaci a pregare” (Lc 11,2) è la richiesta che uno dei discepoli avanza a Gesù, dopo averlo osservato durante uno dei suoi prolungati momenti di preghiera. Affascinato, evidentemente, dal rapporto intimo e speciale che Gesù intesseva col Padre, chiese di esserne fatto partecipe. Da qui la domanda che egli pone a nome dei discepoli di ogni tempo: “Signore insegnaci a pregare”. E Gesù insegna una preghiera che è rivelativa non solo della sua personale relazione divina, ma soprattutto dell’identità di Dio, che lui definisce: “Abbà”. “Padre” è il nome con cui egli qualifica l’essenza di Dio. D’ora in poi i discepoli potranno invocarlo non solo col nome di Jahvè, come avevano acquisto dalla tradizione mosaica, ma con quello di Abbà, Padre. La preghiera del Padre nostro sembra costituire perciò l’humusdella nuova relazione con Dio. Essa ci dischiude il segreto dell’amore verso di lui e verso il prossimo e, in ultima analisi, diventa la via di accesso alla vita eterna (cf. Lc 10,25), propria del Regno da lui proclamato.

In realtà già qualche domenica fa[1] abbiamo avuto modo di accennare alla preghiera, quando, dinanzi alle esigenze del Regno, Gesù invitava i suoi discepoli a “pregare il Padre affinché mandasse altri operai nella messe” (cf. Lc 10,2). Oggi, la liturgia ci consente di soffermarci più estesamente su di essa e di prendere in considerazione alcuni aspetti che la caratterizzano, tra cui l’insistenza (Lc 11,5-8) e la perseveranza (cf. Lc 11,9-13). Non da meno sono l’intercessione, che evidenzia la forma altruistica della preghiera e il potere trasformativo che ne consegue (cf. Gn 18,20-32)[2]. Quando viene fatta con fede e per amore del prossimo, essa si rivela, infatti, capace perfino di far cambiare la decisione di Dio (cf. Gn 18,25-26). Ne scaturisce un insegnamento che fa luce sull’atteggiamento propedeutico che deve accompagnare e sostenere la preghiera, oltre che sul suo contenuto; una sorta di ‘regola d’ora’ che potremmo esprimere con lo stesso detto di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Lc 11,9-10). È in questa ottica che si comprende il senso della parabola dell’Amico inopportuno che Luca colloca a questo punto della sua narrazione evangelica. Ed è proprio questa parabola ad introdurci nei primi due aspetti, che sottolineano la necessità della persistenza nella preghiera, specie quando s’avverte la sensazione della totale indifferenza di Dio nei confronti nostri e delle nostre dolorose situazioni. Anche in un altro caso Gesù fa riferimento a questi atteggiamenti, come nella parabola della Vedova molesta (cf. Lc 18,1-8). Si tratta di atteggiamenti limiti, suscettibili anche di qualche interpretazione umana, in quanto in certi casi l’insistenza potrebbe essere indice di un’ostinata caparbietà e sfrontata insolenza.

In realtà questi atteggiamenti caratterizzano chiunque è intenzionato ad ottenere qualcosa da Dio, come la donna Siro-Fenicia (cf. Mc 7,24-30) e perfino Maria sua madre che, durante le nozze di Cana, sia pure con notevole discrezione, insiste così tanto da ‘costringere’, per così dire, il Figlio ad anticipare l’ora della sua manifestazione pubblica (cf. Gv 2,4-5). Occorre veramente sapersi in Dio, per giungere a piegare la sua volontà. Non a caso Gesù ci invita a rivolgerci al Padre nel suo nome, ovvero nella piena comunione d’amore con lui. Solo questa unità con lui conferisce forza alla nostra richiesta e convinzione alla nostra perseveranza. È a questa condizione che egli ci conferma la certezza di essere esauditi: “Qualunque cosa chiedete al Padre nel mio nome egli ve la darà” (cf. Mt 21,22; Gv 14,13-14; 15,16; 16,23). In effetti chi è in Dio non chiede mai per se stesso, ma sempre per l’altro. Questa forma di altruismo è indice di una totale libertà da se stessi. In tal caso si è nella giusta condizione per chiedere a Dio qualsiasi cosa: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato” (Gv 15,7).

Nel commentare l’insistenza e la perseveranza troviamo che si sono già delineati i profili degli altri due aspetti, quali l’intercessione e il potere trasformativo della preghiera, il che ci fa capire la loro interconnessione. Per descrivere questi due ulteriori aspetti la Liturgia ci propone la lettura dell’episodio biblico di Abramo. Quella di Abramo è la tipica preghiera di intercessione, in quanto viene praticata non per esaudire i propri bisogni, ma per la salvezza degli altri[3]. Il termine che la definisce rende particolarmente evidente il suo significato: intercedere, infatti, significa “passare attraverso” (da inter = “attraverso” e cedere = “passare”). In altre parole Abramo si ritrova a dover passare tra due amori, per i quali prova una rispettiva e irresistibile attrazione: quello verso Dio, di cui conosce la giustizia, e quello verso i giusti di Sodoma e Gomorra, di cui conosce la rettitudine. Consapevole dell’inevitabile conseguenza della decisione di Dio di condannare il peccato dei Gomorrei e dei Sodomiti, egli si schiera a favore dei quei pochi giusti pur di vedere salve le città. Abramo non accetta la mentalità religiosa del tempo, secondo la quale le colpe dei padri devono ricadere suoi figli (cf. Es 20,5; 34.7): “Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te!” (Gen 18,25). Ognuno invece è responsabile delle proprie scelte e azioni. Da qui la sua decisione di intercedere a favore di quei giusti e di perseverare nella richiesta anche quando prende realmente coscienza che il loro numero è sorprendentemente sparuto.

Ma proviamo a inquadrare il racconto biblico nel contesto dell’episodio precedente. Abramo capisce che i “tre misteriosi uomini” che si sono presentati a lui alla Quercia di Mamre, sono venuti per uno scopo ben preciso: non solo per confermare la promessa divina della sua discendenza, come il Signore stesso ebbe a dirgli: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio” (Gen 18,10), ma anche per decidere le sorti di Sodoma e Gomorra, di cui era giunto a conoscenza dei loro peccati, come riferiscono i versetti 20 e 21 dello stesso capitolo[4]. Dinanzi al drammatico scenario che si prospettava Abramo, mosso dalla compassione dei giusti di Sodoma e Gomorra, decide di prendere posizione a loro favore, arrischiandosi in una preghiera audace, fino a rasentare la sfacciataggine. Egli non mette in discussione la giusta condanna di Dio, ma non vuole che la sua esecuzione, finisca per sterminare i giusti che si trovano nelle due città. E anche quando capisce che essi sono relativamente pochi, prende le loro difese e persevera nella sua decisione finché non induce Dio a mutare il verdetto della sua condanna. Questo atteggiamento di Abramo che sotto il profilo religioso può risultare irriverente, si rivela invece come un gesto altruistico che non sfugge all’attenzione di Dio, il quale, diversamente dalle aspettative, si mostra pieno di stima nei suoi confronti e accondiscende la sua richiesta[5]. Non basta allora elevare a Dio una richiesta, ma occorre perseverare in essa finché non si viene esauditi. Perseverare infatti significa persistere, tenere duro, anche quando s’avverte più che mai pesante, duro e faticoso il peso della resistenza o della stessa preghiera, come ci attesta la straordinaria preghiera di Mosè a favore del popolo d’Israele, che dinanzi al peso della braccia oranti, chiede di essere sostenuto dai suoi collaboratori (cf. Es 32,11-14). È con questi presupposti che la preghiera perfora la coltre dell’apparente indifferenza divina e giunge alla sua attenzione, fino a trasformare la sua volontà. È sorprendente questo potere trasformativo della preghiera, capace di incidere perfino a livello divino[6].  

 È con questi presupposti che dovremmo accostarci alla preghiera del Padre nostro, se intendiamo evitare il rischio di trasformarla in una formula vuota e inefficace, come purtroppo ci accade molto spesso di sperimentare. Si tratta perciò di assumere con Dio gli stessi atteggiamenti filiali e fiduciosi che Gesù ha col Padre e quindi di tessere con lui la sua stessa relazione d’amore[7]. È in questa rinnovata forma relazionale che si radica la convinzione di essere esauditi da Dio: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli quanto di più Dio darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono” (Lc 11,13). Attraverso questa preghiera il discepolo di Gesù impara a “vivere da figlio nel Figlio”, secondo le indicazioni definite da san Paolo nella sua lettera ai Galati 4,1-11; 5,1.13-26. Pregare perciò con la preghiera di Gesù significa imparare a vivere nella stessa vita di comunione col Padre e a trovare in essa le ragioni e il fondamento della comunione fraterna ed ecclesiale. È questo il nuovo linguaggio della fede che Gesù è venuto a rivelare, attraverso il quale ciascun discepolo può nutrire per Dio “gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù” (cf. Fil 2,5). Paternità e filialità sono dunque i sentimenti che più di ogni altri devono nutrire la vita spirituale del discepolo. È da qui che scaturisce la relazione fraterna tra di loro, vero collante della vita ecclesiale. Se il discepolo è figlio egli deve tendere alla stessa perfezione del Padre (cf. Mt 5,48), ovvero condividere la sua stessa santità (cf. Lv 19,2). “Santificare il nome” del Padre, significa allora riconoscerne la divinità, la grandezza, la superiorità rispetto a tutti e a tutto. È questa la vera preghiera di lode. Il più grande sacrificio intellettivo dell’uomo consiste nel riconoscere che Dio è Dio. Egli è Signore, ossia colui che è al di sopra di ogni cosa. E cos’è la santità se non l’amore misericordioso che qualifica la paternità di Dio. È questa la vera perfezione a cui il discepolo deve tendere (cf. Lc 6,36).

Relazionarsi a Dio in questi termini significa creare i presupposti della vita del suo Regno nel mondo, unico scopo di tutta l’attività predicativa di Gesù e quindi anche dei suoi discepoli. Come Gesù anche il discepolo deve imparare a far convergere ogni suo pensiero, parola e gesto, verso la realizzazione del Regno di Dio nel mondo e per farlo deve condividere la sua volontà[8]. La sua attuazione richiede perciò un’adesione libera e volontaria da parte nostra, certi che il suo compimento comporta la realizzazione piena della nostra esistenza[9]. Un’unità d’intenti completa e piena dunque, tale da fare della vita umana il riflesso di quella divina: “come in cielo, così in terra”[10]. Vivere costantemente nella volontà del Padre, significa, allora, mostrarsi totalmente disponibili al suo disegno di salvezza, vivendo all’insegna della sua fiducia, abbandonati alla sua provvidenza, in tutte le circostanze della vita, non solo in quelle dei bisogni contingenti, ma soprattutto in quelle della sofferenza, dell’afflizione, dell’ingiustizia subita a livello personale e sociale. È in queste circostanze che il discepolo impara a capire che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4)[11].

Entrare nella comunione del Padre significa non solo vivere del suo amore, ma condividere anche la sua logica misericordiosa che ha nel perdono la più grande manifestazione dell’amore umano. “Perdona i nostri peccati, affinché anche noi perdoniamo quelli dei nostri debitori”. Perdonare è l’atto che fa nuove tutte le relazioni e che consente di andare oltre ogni forma di offesa. Il perdono è la terapia più efficace contro le diverse forme di peccato personale e sociale. È il segno distintivo della presenza operante di Dio nel mondo e la condizione per giungere a quella definitiva rappacificazione dell’uomo con Dio, con sé, col fratello, col creato. Ma il perdono del Padre dipende dal nostro: egli ci perdona nella misura in cui siamo disposti a perdonare (cf. Mt 6,14-15). L’uno dipende dall’altro e l’uno sfocia nell’altro. Solo chi è riconciliato veramente con Dio potrà a sua volta riconciliarsi con gli altri e potrà riconciliare gli altri con Dio.

Esercitarsi nell’arte del perdono significa imparare a perseverare nella misericordia di Dio, a rimanere nella comunione con lui, soprattutto quando siamo tentati dalle suggestioni del male. La comunione con lui diviene allora la principale condizione spirituale contro ogni forma di tentazione che si insinua dentro di noi, perfino quella più dura dell’abbandono di Dio, sperimentata da Gesù sulla croce (cf. Mc 15,34; Sal 21). Forse non c’è tentazione più grande se non quella di sentirsi abbandonati da Dio nelle tentazioni, da qui la nuova traduzione: “non abbandonarci alla tentazione” (Lc 11,4). Contro di esse non c’è virtù che regga, se non abbandonarsi a Dio e alla potenza della sua Parola, come Gesù nel deserto (cf. Mt 4,1-11)[12].

Stando alla testimonianza di Gesù la preghiera più che un’invocazione estemporanea che nasce dal grido di un cuore affranto, è un atteggiamento di vita, un modo di essere nel mondo secondo lo Spirito. Gesù non solo pregava, ma era egli stesso preghiera. Tutta la sua vita era una perenne relazione vitale con Dio. Per Gesù la preghiera è il modo per stare costantemente in Dio, e rimanere in comunione perenne con lui. Prima ancora di essere una formula verbale la preghiera del Padre nostro è allora uno stare con Cristo in Dio, esattamente come lui era con lo Spirito nel Padre. Pregare il Padre, col Padre, nel Padre e per il Padre era per lui il modo più autentico per essere nel mondo, con l’uomo e a favore dell’uomo.

 

 

 

 


[1] Cf. 14a Dom del TO Anno C.

[2] I diversi riferimenti biblici a nostra disposizione ci danno modo di conoscerne meglio le forme e i metodi con cui praticare la preghiera, perciò distinguiamo la preghiera di intercessione, di supplica, di invocazione, di implorazione, di lode, di ringraziamento, di adorazione, di consacrazione, di discernimento e perfino di imprecazione. La preghiera tuttavia può essere anche privata, personale, individuale, comunitaria, mentale, vocale … Insomma esistono diverse forme di preghiera e ciascuna dispone di un metodo specifico per essere praticata, che prevede o meno anche il coinvolgimento il corpo. La preghiera è certamente la pratica religiosa più diffusa, ma anche la meno conosciuta. La stragrande maggioranza delle persone la ritiene un atteggiamento naturale e spontaneo che sorge in alcune circostanze particolari, come quelle di un grido di aiuto verso il cielo, indipendentemente dall’identità di Dio a cui si fa riferimento. Per molti cristiani essa viene ridotta a formule verbali o scritte, acquisite nell’infanzia durante la formazione catechistica. Invece, là dove essa viene colta e praticata nel suo significato più specifico, diventa l’humus della vita spirituale personale ed ecclesiale.

[3] La sua funzione non è quella di ricordare a Dio i bisogni degli altri, poiché Dio sa già di cosa hanno bisogno (cf. Mt 6, 32), ma induce a sentirsi responsabili delle loro esigenze bisogni davanti a Dio.

[4] “Il grido contro Sodoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a veder se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere”.

[5] Questo brano si rivela particolarmente significativo a livello teologico, poiché ci fa assistere al superamento della mentalità religiosa del tempo, secondo la quale il peccato comportava sempre una responsabilità collettiva, da qui la convinzione della stessa sorte riservata ai giusti e agli ingiusti. Abramo, invece, si sottrae a questa convinzione comune, determinando lo sviluppo del principio della responsabilità individuale, come verrà espresso poi in Dt 7,10; 24,16; Ger 31,29-30; Ez 14,12s e 18. Per di più egli si domanda se per il merito di alcuni giusti, tutti i colpevoli non potrebbero ottenere il perdono di Dio. Le risposte di Dio confermano questa sua convinzione, qualificando il ruolo salvifico dei santi nel mondo. Ma mercanteggiando la misericordia di Dio Abramo non osa scendere al di sotto della soglia dei dieci. Invece, secondo Ger 5,1 ed Ez 22,30, Dio perdonerà a Gerusalemme anche per la presenza di un solo giusto. Infine in Is 53, è la sofferenza del solo servo che deve salvare tutto il popolo; ma questo tipo di annunzio sarà compreso e realizzato solo da Cristo. Egli, infatti, ancora più di Abramo si mostra disponibile a morire perfino per i peccatori. Alla fine, però, Sodoma e Gomorra vengono distrutte, poiché non si riescono a trovare neppure quei pochi giusti così tanto auspicati da Abramo. Il male di cui i suoi abitanti si erano macchiati fu tale che osarono tentare perfino di violentare quegli uomini che si presentarono ad Abramo (cf. Gen 19,5).

[6] Si capisce perciò anche quello che Gesù dice a proposito della fede, allorquando gli apostoli gli chiedono di accrescerla in loro: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: sradicati e vai a piantarti nel mare” (Lc 17,6).

[7] Pertanto chiunque lo invoca con questo nome significa che ha deciso di condividere la relazione filiale di Cristo. La filialità non dipende dall’essere creature di Dio, ma dalla fede in Cristo riconosciuto come Figlio di Dio. È in lui Figlio che diveniamo figli dell’unico Padre. La filialità di Cristo è a fondamento della relazione fraterna delle persone. 

[8] Tale volontà non va considerata come un imperativo divino prestabilito, una sorta di norma legale da attuare indistintamente alla lettera, sempre e a tutti i costi, ma come il bene migliore per noi, che si dischiude nelle varie circostanze della storia, e al quale il Signore chiede di conformare la nostra vita. La volontà di Dio non è quella di un despota che costringe tutti, compreso il Figlio, a soddisfare il proprio egoismo. Al contrario essa va pensata come un percorso spirituale che traccia il cammino di umanizzazione dell’uomo. Farla significa, perciò, divenire profondamente e autenticamente se stessi.

[9] Una simile operazione prevede un totale rinnegamento di sé, da considerare quella di Dio come la massima espressione della nostra volontà.

[10] Regno di Dio e volontà di Dio – come paternità e filialità – sono indissociabili. Non è possibile realizzare il suo regno nel mondo, senza volere la volontà del Padre. Il Regno è la volontà di Dio pienamente dispiegata e realizzata nel mondo.

[11] In un contesto di benessere come il nostro, chiedere al Padre il “pane quotidiano” può risultare irrisorio e superfluo, in realtà il vero pane di cui abbiamo urgentemente bisogno, oggi, è quello del senso, ovvero del significato della vita. E cosa più della Parola di Dio può dare senso alla nostra esistenza? Quanti obesi dal benessere muoiono negli stenti del non senso. Forse non è un caso che la bulimia del benessere è indice di un’anoressia di senso. “Dacci, oggi il senso quotidiano” potrebbe essere allora la formula con cui tradurre la domanda di Cristo nell’attuale contesto culturale.

[12] Padre nelle tue mani consegno il mio “peccato”, diviene allora il segreto per lasciare che la potenza del suo Spirito trasformi i nostri peccati in gesti d’amore. 


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