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25 maggio 2025 - Anno C - VI Domenica di Pasqua


At 15,1-2.22-29; Sal 66/67; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29



La promessa del ritorno


Giotto, Ultima Cena (1303-1305), part. di Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni, Cappella degli Scrovegni, Padova
Giotto, Ultima Cena (1303-1305), part. di Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni, Cappella degli Scrovegni, Padova

“In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui … Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto …: Vado e tornerò da voi. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me” (Gv 14,23.25-26.28).

“Vado e tornerò da voi”, è una delle promesse che Gesù fa ai suoi apostoli durante il Discorso di Addio che la Liturgia ci sta proponendo in queste Domeniche. Riletta nella luce della Pasqua questa promessa ci predispone a vivere l’evento dell’Ascensione, con cui Gesù si congeda dal mondo per ritornare al Padre. Si tratta perciò di una promessa rassicurante, con la quale egli tranquillizza gli animi dei suoi discepoli, costernati per la sua imminente dipartita. E a conferma di ciò promette loro lo “Spirito Consolatore”. Da qui la sua esortazione: “Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore: io vado al Padre, perché il Padre mandi nel mio nome lo Spirito Consolatore” (cf. vv. 28.26). “Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (v. 26). La ragione che spiega dunque l’invio dello Spirito è tutta in questo versetto: insegnare e ricordare tutte le cose dette e fatte da Gesù.

Ma come mai gli apostoli necessitano ancora di un ulteriore insegnamento e quali sono queste cose che lo Spirito dovrà insegnare e ricordare loro? Gli apostoli pur essendo stati istruiti direttamente da Gesù non sono ancora nella condizione di cogliere il significato profondo del suo insegnamento. Essi necessitano dello Spirito di Gesù per acquisire la sua stessa intelligenza e la stessa dinamica dell’amore. Sarà lui ad educarli al modo di pensare, parlare, agire e amare di Gesù. Solo così essi potranno capire e prendere parte della sua vita gloriosa e quindi della stessa comunione d’amore che egli condivide col Padre. È a queste condizioni spirituali che essi creeranno i presupposti affinché Gesù e il Padre potranno prendere dimora presso di loro, secondo la stessa parola di Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (cf. Gv 14,23). Pertanto lo Spirito non dovrà insegnare loro verità diverse da quelle rivelate da Cristo, ma aiutarli a fare memoria del suo insegnamento e a sviscerarne il contenuto, così da acquisire il suo stesso stile di vita evangelico. La memoriadell’insegnamento e l’amore vissuto quotidianamente nelle relazioni interpersonali, costituiscono per gli apostoli il fondamento della conoscenza di Dio. Senza questi presupposti essi rischiano la deriva gnostica o l’osservanza formale, ovvero ridurre la fede solo a una conoscenza intellettiva, teorica e astratta, priva di quel vissuto evangelico che rende concretamente possibile la salvezza nell’oggi della storia.

Ma in cosa consiste questa comunione d’amore che Gesù promette ai suoi apostoli e a tutti coloro che decideranno di vivere secondo le sue parole? Si tratta di un amore mistico, poiché la modalità con cui Gesù continuerà ad essere presente in mezzo a loro, dopo la sua risurrezione, non sarà più fisica, come quella condivisa durante gli anni della sua presenza storica, ma di tipo spirituale. Gesù continuerà a vivere con loro e ad essere motivo di comunione, ma attraverso lo Spirito e nella forma dello Spirito.  A partire dalla chiamata essi avevano sì imparato a “stare con lui” (cf. Mc 3, 19) e a condividere tutto: cibo, sonno, stanchezza, missione, predicazione, gioie, sconfitte, incomprensioni, delusioni, ansie, speranze … ora che è risorto, però, potranno rimanere in lui nella misura in cui vivranno il comandamento dell’amore reciproco. È a queste condizioni che egli continuerà ad essere presente in mezzo a loro (cf. Mt 18,20). L’amore costituirà la condizione che consentirà al Padre di dimorare in loro e loro con Cristo nel Padre. Si tratta perciò di una vita pericoretica che vede coinvolti i discepoli, il Padre, lo Spirito e lui stesso in un rapporto di reciproca donazione dell’uno nell’altro. Una vita contemplativa, o come direbbe san Paolo una “vita nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3), ma comunque una vita vera, reale, concreta; incomprensibile e inaccessibile ai sapienti e ai dotti, ma chiara e accessibile agli umili e ai semplici (cf. Mt 11,27). Essa non dipende dal quoziente intellettivo, ma dalla disponibilità del cuore; e nessuno può entrarvi se non è chiamato dal Padre e condotto dallo Spirito (cf. Mt 16,17). Si tratta quindi di una comunione d’amore, vissuta nella logica della relazione trinitaria.

Segno di questa comunione è la pace, non quella che promette il mondo, ma quella che offre lui stesso (cf. Gv 14,27), come espressione della definitiva riconciliazione col Padre, che lui ora è in grado di garantire grazie alla sua rinnovata unità col Padre. La stessa pace di cui Paolo e Barnaba si fanno promotori presso i gentili, quando contravvenendo all’insegnamento di alcuni Giudeo-cristiani[1], favorevoli alla pratica della circoncisione[2], decisero di rivolgere anche a loro l’annuncio evangelico, determinando in questo modo una straordinaria svolta nella storia della nascente Chiesa, a partire dalla quale la salvezza proclamata inizialmente solo ai Giudei, viene estesa ad ogni popolo, assumendo in questo modo una vera e propria dimensione universale. 

I fatti narrati in questo capitolo degli Atti potrebbero apparire per noi una questione irrisoria e marginale, in realtà si rivelano estremamente importanti, poiché ci mettono in guardia dai diversi problemi che si vengono a creare anche nelle nostre comunità, tutte le volte che in una situazione di crisi religiosa ed esistenziale come la nostra, ci scopriamo incapaci di cogliere e attuare la proposta evangelica, e avvertiamo la tentazione di integrarla con una serie di prescrizioni morali e religiose provenienti perfino da altre fedi. Mi riferisco a quella sorta di sincretismo religioso, piuttosto diffuso tra i cosiddetti ‘cristiani anagrafici’, i quali nel tentativo di risolvere pacificamente le tensioni provenienti dall’attuale pluralismo religioso, ritengono di creare una religione universalmente condivisa, rischiando così di snaturare non solo l’essenza del cristianesimo, ma anche lo specifico delle diverse fedi religiose. Si tratta di una tentazione che insidia in modo particolare coloro che ignari e scettici della proposta evangelica, trovano opportuno appellarsi ad un impegno morale che garantisca quantomeno una salvezza personale. Nulla di più lontano dalla predicazione di Gesù e degli apostoli, secondo la quale la salvezza sta nella pratica del comandamento dell’amore. Tale salvezza non dipende dall’osservanza minuziosa delle varie norme morali o religiose, come ritenevano i Giudeo-cristiani, ma dalla fede in Cristo, ovvero dalla gratuita giustificazione che Dio ci concede per amore di Cristo. Una simile proposta, tuttavia, non può che nascere da un rapporto più intenso e frequente con la Parola di Dio che assume un ruolo sempre più centrale nella nostra vita spirituale, relazionale ed ecclesiale. È a partire da questa familiarità con la Parola che può scaturire una rinnovata prassi d’amore evangelico, quale segno distintivo della salvezza cristiana.

 


[1] Con la predicazione degli Apostoli, ben presto molti cominciarono ad aderire al Vangelo di Cristo, sia tra i Giudei che tra i Gentili. Ma tra i Giudei non mancarono coloro che ritenevano la prassi evangelica insufficiente per giungere alla salvezza, da qui la convinzione di una necessaria integrazione della pratica mosaica, ritenuta propedeutica e ineludibile a quella evangelica. Questa pratica prevedeva il rito della circoncisione, come segno di appartenenza al popolo di Dio. Ma convinti della novità e dell’autonomia evangelica, Barnaba e Paolo si opposero risolutamente a questa idea, sostenendo che la salvezza veniva garantita dalla fede in Cristo. Dinanzi al rischio di una vera e propria manipolazione del Vangelo di Cristo e all’inevitabile confusione che poteva generare questo tipo di insegnamento, Paolo e Barnaba ritennero opportuno un fermo e decisivo intervento chiarificativo. La questione fu perciò portata a Gerusalemme, dove fu discussa dalla comunità apostolica che ritenne superfluo continuare ad esercitare la pratica della circoncisione, in quanto la fede in Cristo costituisce il vero e unico presupposto della salvezza. A nessun altro obbligo, dunque, la comunità antiochena era tenuta se non a quello di una totale apertura, comprensione e disponibilità alla volontà di Dio, unico e vero segno di appartenenza alla fede cristiana.

[2] Quello della circoncisione (dal latino circumcidere che significa “incidere intorno”) è un rito piuttosto diffuso nelle varie esperienze religiose del mondo. Esso ha origine antichissime. In base ad una scultura tombale del 2400 a.C. di Sakkara, sembra che era esercitato già dagli antichi Egizi, a partire dai quali si estese anche in ambito cananeo: la terra di Abramo che lo assunse come segno di alleanza della fede in Dio (cf Gen 17,10-14). Tale rito consiste nel taglio del prepuzio che avvolge il glande dell’organo maschile. Quali siano le ragioni di questa pratica in ambito biblico rimangono tutt’ora discusse. Per gli stessi musulmani costituisce uno dei doveri religiosi principali, per quanto il Corano non ne parli. In senso lato la Bibbia parla anche di circoncisione delle labbra, del cuore e delle orecchie, come segno di adesione alla parola di Dio.


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