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24 Agosto 2025 - Anno C - XXI Domenica del tempo ordinario


Is 66,18, 21; Sal 116/117; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30


La porta stretta della salvezza

 


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“Signore sono pochi quelli che si salvano?” (Lc 13,23). È la domanda che “un tale” pone a Gesù “mentre era in cammino verso Gerusalemme” (Lc 13,22) e alla quale Gesù risponde con una considerazione che ci lascia alquanto sconcertati: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Lc 13,24). La domanda ripone al centro della nostra attenzione la questione della salvezza, alla quale, in realtà, noi stiamo cercando di dare una risposta già da qualche domenica, da quando cioè, quel dottore della legge pose a Gesù una domanda molto simile: “Cosa devo fare per avere la vita eterna” (Lc 10,25). Si tratta di una questione decisiva per chi non si rassegna all’idea che l’esistenza umana possa ridursi ad una vita esclusivamente terrena e biologica; ma piuttosto marginale per chi invece ha una visione della vita esclusivamente empirica e immanente, priva cioè di qualsiasi dimensione trascendente. Non per questo la questione risulta meno provocante anche per quanti, pur professandosi non credenti, cercano a loro modo di risolverla, seguendo percorsi, per così dire ‘laici’, possibilmente fedeli alla loro coscienza. Anche noi, dunque, come quel tale, intendiamo prenderla in considerazione, se non altro per capire cosa dice Gesù in merito.

Ad essere più precisi la domanda più che sulla salvezza verte sul “numero” di coloro che si salvano. Il tale, infatti, non chiede “cosa deve fare” per ereditare la salvezza, come abbiamo visto in altri episodi evangelici: (cf. Mc 10,17; Mt 19,16; Lc 18,18; 10,25), ma “quanti’ sono” coloro che vi accedono, che a suo giudizio sembrano essere davvero pochi. La questione del numero tradisce, in realtà, una mentalità piuttosto pessimista e ristretta, come se Dio avesse problemi a salvare il maggior numero di persone possibili o, al contrario, come se si preoccupasse di creare criteri inflessibili e maglie molto strette per selezionare solo alcuni eletti[1]. Ciò non significa che la salvezza venga elargita così, a buon grado. Lo stesso Gesù dice che “molti cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Proviamo allora a capire come stanno le cose.

La questione della salvezza, com’è evidente, è centrale a tutte le esperienze religiose, compresa quella biblico-cristiana. La liturgia della Parola, per altro, ci propone brani biblici che tracciano un itinerario carico di preziose indicazioni pratiche, per chi decidesse di conseguirla. Noi ci lasceremo guidare nell’indagine anche da un detto di Gesù che prendiamo dalla lettura feriale del Vangelo di Matteo: “Molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). Attraverso di esso cercheremo di sviluppare un itinerario che ci aiuti a compiere il ‘passaggio dalla chiamata all’elezione’, ovvero dall’invito alla salvezza che Dio rivolge costantemente al suo popolo attraverso i profeti, al suo reale conseguimento per mezzo di Cristo. In questo senso la prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia e il brano evangelico di Luca, mettono chiaramente a fuoco l’aspetto centrale della questione. Il brano di Isaia ci fa capire che essa, pur essendo un anelito profondamente umano, ha origine divine: è Dio che chiama tutti alla salvezza: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro superstiti … ad annunciare la mia gloria alle genti” (Is 66,18-19). Si tratta chiaramente di un invito dal sapore escatologico, come il discorso di Gesù nel Vangelo di Luca, poiché entrambi fanno riferimento agli ultimi tempi, a quelli cioè nei quali ciascuno dovrà rendere conto al Signore della propria condotta morale e delle proprie scelte esistenziali e religiose. Il Vangelo inoltre più esplicitamente parla anche di un “padrone”, al quale spetta il potere di “aprire” o “chiudere” la porta della salvezza. Un potere questo che nella parabola delle Dieci vergini (cf. Mt 25,1-13) viene attribuito allo “Sposo”, identificato con Cristo. Anche in questo caso infatti assistiamo ad alcune persone che “rimaste fuori” busseranno alla porta pronunciando le stesse parole: “Signore, aprici!” (Lc 1,27; Mt 25,11), e anche in questo caso assistiamo ad una risposta molto simile di Cristo: “Non vi conosco” (Mt 25,12; “Non so di dove siete” (Lc 13,27). Il rischio di farsi trovare impreparati a questo incontro decisivo e alto. Da qui il monito alla conversione che il Signore rinnova costantemente, anche oggi, attraverso i nuovi profeti, ovvero coloro che aderendo alla realtà del Regno di Dio, annunciato da Gesù, ne rendono testimonianza attraverso uno stile di vita evangelico. Magari la loro testimonianza viene resa attraverso una forma di vita discreta e silente, ma certamente più credibile e persuasiva di quelli che pur “mangiando e bevendo alla sua presenza e assistito al suo insegnamento nelle piazze” (cf. Lc 13,26), si prodigano a favore di una predicazione suggestiva e attraente, ma vuota di vita evangelica. Anche questi ultimi, come emerge dal brano evangelico, a loro modo “chiedono di entrare nel regno”, ma a differenza degli altri “non ci riusciranno” (cf. Lc 13,24). Perché? Cosa impedisce loro di salvarsi? La salvezza è solo una questione morale o anche teologica?

Eccoci allora giunti al punto decisivo della questione che Gesù esprime con l’immagine del “passaggio attraverso la porta stretta”. A cosa allude Gesù quando parla della “porta stretta”? Come si manifesta nella nostra vita? Perché il suo passaggio è necessario? Perché la salvezza è solo oltre la porta stretta? Cosa ci impedisce di salvarci attraverso una porta più larga e comoda? Se Dio è così prodigo nel salvare le persone perché pone delle condizioni così restrittive? E quali sono queste condizioni che lui pone, realizzando le quali ci si salva? Nel considerare queste domande troviamo che già il brano della lettera agli Ebrei, ci dà una possibile risposta, se non altro ci offre un’idea di cosa si possa intendere per “porta stretta” e quale forma essa può assumere nella nostra vita. Il brano, infatti, ci riferisce della “correzione divina” e dell’importanza che essa assume nella vita di chi intraprende un itinerario spirituale: “Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio. È per la vostra correzione che voi soffrite” (Eb 12,5-7). Anche la correzione divina, infatti, come il passaggio attraverso la porta stretta, quando viene eseguita “sul momento è più causa di tristezza e di dolore che di gioia”, in quanto si manifesta con una serie di provvedimenti che sul momento sembrano limitare la nostra libertà, in realtà essi hanno la funzione di far convergere verso un solo obiettivo tutta la nostra energia spirituale. Un po’ come capita ad un atleta che viene continuamente istruito dal suo allenatore a concentrare le sue forze solo su quei gesti essenziali per conseguire l’obiettivo. Dio, da buon maestro e pedagogo, sa benissimo di quello che è strettamente necessario alla salvezza e non sempre, quello che riteniamo buono e utile si rivela effettivamente tale e idoneo per noi. Da qui i suoi interventi che possono manifestarsi anche attraverso circostanze dolorose, come una malattia imprevista, la morte improvvisa di un proprio caro, una sconfitta, una bocciatura, una delusione … tutte situazioni apparentemente assurde e incomprensibili quando sopraggiungono, ma se accolte e comprese all’interno di un’ottica relazionale con Dio, possono rivelarsi estremamente significative per noi e purificative per il nostro spirito. Per questa ragione è importante lasciarsi “addestrare e plasmare” (Lc 13,11) dall’azione dello Spirito che opera attraverso le circostanze della vita, il cui scopo è quello di conformare la nostra mentalità a quella evangelica di Cristo e la nostra vita al piano salvifico di Dio. Spesso la sofferenza più grande non è tanto quella provocata dalla gravità di una malattia, quanto quella che scaturisce della sua incomprensibilità, quella cioè che ci impedisce di coglierne il senso, ovvero l’opera di Dio. Forse è proprio a questo livello che si manifesta la più grande sventura spirituale ed esistenziale dell’uomo contemporaneo. Non è un caso perciò che l’ateismo e il nichilismo costituiscono le più grandi cause del pessimismo esistenziale e indifferentismo religioso attuale, che come una coltre razionalista impediscono all’uomo di gettare lo sguardo fuori dal proprio immanentismo culturale e di praticare la sua dimensione religiosa più autentica e originaria.

Come intendere allora la domanda che quel “tale” pone a Gesù; e anche quella di coloro che, rimasti fuori la porta, cercano insistentemente di entrare, purtroppo senza risultati, se non come il timore che, senza la grazia di Dio, la salvezza costituisce solo un ideale irraggiungibile, malgrado i tentativi umani irreprensibili? Dalla risposta di Gesù emergono chiaramente i suoi criteri e le sue condizioni. Per Gesù non basta far parte di un popolo, esercitare una professione religiosa, o essere membro di un’istituzione ecclesiale e neppure come dice lui: “mangiare e bere alla sua presenza o mettersi in ascolto del suo insegnamento”, o ancora “compiere perfino miracoli nel suo nome” (Mt 7,22); nulla di tutto ciò basta ad assicurare la salvezza. Ancora meno bastano i tentativi, sia pure onesti e sinceri, di coloro che ritengono di tracciare percorsi morali o filosofici autosufficienti di tipo ‘laico’, come se la salvezza fosse una questione umana e terrena. Occorre ‘un di più’ che Gesù formula attraverso l’immagine della “porta”, con la quale lui stesso si identifica: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato, entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,9). La condizione fondamentale è, perciò, la fede in lui, alla quale vanno associate quelle che lui stesso pratica durante la sua vita e richiede ai suoi discepoli. Basta ricordare qui quelle della sequela: “Se uno viene a me e non odio suo padre … e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,25-33); “Chi non prende la sua croce, non è degno di me” (Mt 10,38); oppure quelle che espresse nel Discorso delle beatitudini: “… Beati voi, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e, mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia …” (Mt 5,3-12); o ancora quelle espresse alla fine di ogni Annuncio della passione (cf. Mt 16,21-23 e //). La salvezza è il risultato di una prolungata lotta, condotta con perseveranza, contro le forze del male, come quelle intraprese da Gesù durante le sue tentazioni nel deserto (cf. Mt 4,1-11 e //), oppure nell’orto del Getsemani (cf. Mt 26,36-46 e //) e ancora quelle sperimentate durante la passione (cf. Mt 26-27 e //).

Apparentemente tali condizioni sembrano caratterizzare uno stile di vita costellato di rinunce e sofferenze, in realtà sono solo i presupposti per “prendere parte alla gioia del Padre che è nei cieli” (cf. Mt 25,23; Lc 15,7). In ogni caso si tratta di condizioni vere, giuste, atte a verificare l’autenticità della nostra sequela, la cui applicazione ci riserverà perciò risultati molto sorprendenti e che Gesù non esita a preannunciare: “molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi” (Lc 13,30). Stando a questo criterio formulato da Gesù molti di quelli che noi additiamo come lontani, immorali, atei si salveranno grazie all’amore del prossimo che avranno esercitato in momenti, circostanze e forme diverse rispetto a quelle da noi immaginate o richieste. Altri che pure avranno occupato i primi posti nelle nostre assemblee liturgiche e partecipato perfino ai sacramenti, si ritroveranno fuori.

Riletto nel contesto dell’Anno Giubilare questo brano evangelico può invitarci a capire meglio il significato del passaggio attraverso la Porta Santa. Non è solo questione di passaggio fisico. Se esso non coinvolge la dimensione spirituale, morale ed esistenziale a nulla valgono i pellegrinaggi vissuti nel confort turistico. Ma tra tutti i sacrifici che ci vengono richiesti, il più impegnativo rimane quello del nostro io e in particolare quello della nostra ragione. Piegarla alla logica evangelica significa, oggi più che mai, compiere il passaggio attraverso la porta più stretta della nostra vita. A noi il coraggio di rinnegare il nichilismo, l’individualismo, il materialismo culturale che condizionano ormai da secoli la visione della vita e lasciarci illuminare dalla luce che promana dal Vangelo, per cogliere la dimensione eterna che esso ci promette.

 

 


[1] Oltretutto non credo che nella vita eterna ci siano problemi di spazio, tanto da dichiarare tutto esaurito come lasciano intendere coloro che interpretano in chiave numerica il passo biblico dell’Apocalisse dei “centoquarantaquattromila” (Ap 7,4), senza considerare che subito dopo lo stesso Giovanni dichiara di vedere nella sua visione “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (Ap 7,9).

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