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22 Giugno 2025 - Anno C - Corpus Domini


Gen 14,18-20; Sal 109/110;1 Cor 11,23-26; Lc 9,11-17


Verso uno stile di vita eucaristico



Raffaello Sanzio, La Disputa del Sacramento (1509), Stanza della Segnatura, Musei Vaticani, Città del Vaticano
Raffaello Sanzio, La Disputa del Sacramento (1509), Stanza della Segnatura, Musei Vaticani, Città del Vaticano

“Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1Cor 11,24-25).

Quello appena letto è il brano paolino col quale la liturgia ci fa celebrare la “memoria” dell’Eucaristia nel giorno della sua festa liturgica. Si tratta, com’è evidente, di uno dei rari passi narrativi col quale Paolo ci riferisce dettagliatamente i “gesti e le “parole”” compiuti e pronunciati da Gesù durante l’Ultima Cena. A dire il vero ci sorprende un po’ questo stile letterario di Paolo, perché di solito egli non si limita a descrive gli episodi della vita di Gesù, come fanno gli evangelisti, ma a darne un’interpretazione teologica. Pertanto il fatto stesso che ce li abbia “trasmessi fedelmente così come lui li ha ricevuti” (cf. 1Cor 11,23), ci fa capire la loro importanza teologica e liturgica. Si tratta perciò di “gesti e parole” centrali che vanno compresi e trasmessi nel loro significato originario, senza alcuna alterazione, rispettando esattamente le intenzioni di Gesù.

Ma qual è questo senso che Paolo si preoccupa prima di capire e poi di riferirci fedelmente? Esso emerge dal versetto successivo: “Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11,26). “Mangiare il corpo” e “bere al calice” di Cristo significa rendere vivo e vero, nell’oggi della fede, il mistero fondativo della salvezza di Cristo, durante tutto il tempo d’attesa della sua seconda venuta. Non si tratta solo di un annuncio verbale, ma di un vissuto evangelico che implica una partecipazione viva alla sua passione e morte e un’adesione totale alla logica del suo amore oblativo, convinti che una simile celebrazione realizza nel mondo e continua nella storia l’evento salvifico di Cristo, fino al suo compimento escatologico.

Con pochi versetti Paolo ci introduce direttamente nel cuore del mistero salvifico di Cristo. Anche per lui, come per gli stessi sinottici, l’Ultima Cena non è un semplice episodio di cronaca narrativa, ma un evento centrale della salvezza, durante il quale Gesù manifesta la piena coscienza di operare una svolta decisiva e definitiva nel piano salvifico di Dio. La salvezza non si attua più alla maniera dell’Alleanza veterotestamentaria, osservando i precetti morali e religiosi fissati dalla Legge mosaica, ma partecipando e lasciandosi trasformare dall’amore oblativo e gratuito di Cristo. In questo senso, il “fare memoria” [1], di cui parla Gesù, non consiste in un semplice esercizio mnemonico, ma è volto a orientare la propria vita a quella di Cristo e a farne un dono di sé all’altro. Celebrare l’Eucaristia, significa decidere di fare della propria vita un’esistenza eucaristica, vivere cioè secondo la logica della passione, morte e risurrezione di Cristo. Si capisce allora che l’Eucaristia, nella modalità con cui è praticata da Cristo, non si limita alla sola celebrazione liturgica, come di solito avviene per noi, ma si estende a tutta la sua vita. Non a caso nell’Ultima Cena Gesù riepiloga tutta la sua esistenza evangelica e al contempo prefigura quel dono che egli fa di sé sulla croce durante la passione. In questo senso essa è uno stile di vita, un’esistenza vissuta all’insegna dell’amore di Dio per l’altro. Pertanto ogni volta che anche noi facciamo dono di noi stessi all’altro, nelle varie circostanze della vita quotidiana, rinnoviamo, in certo qual modo, il mistero pasquale di Cristo (cf. 1Cor 11,26).

Prima ancora che ministeriale e liturgico l’Eucaristia è un atto di gratitudine e di donazione di sé, che chiama a raccolta, integralmente, tutti gli ambiti della nostra vita e si distende lungo tutto l’arco della nostra esistenza. È qui lo specifico del sacerdozio regale di Cristo, al quale, tutti, indistintamente, siamo chiamati. “Nell’Eucaristia” – dice il Card. Martini – “Cristo consegna se stesso al Padre per noi”, ed è nell’Eucaristia che anche noi siamo chiamati a lasciarci attrarre da questo vortice d’amore per entrare nel dono stesso di Cristo. “Consegnare a Dio la nostra vita” – continua il Cardinale – “non significa estraniarsi dal mondo, significa invece consegnarla a lui perché ci metta in stato di servizio verso i fratelli. È questo il punto di arrivo della preghiera cristiana: … educare a buttarsi nel servizio incondizionato dei fratelli … Qui si fonda non solo il rapporto tra preghiera ed eucaristia, ma anche quello tra preghiera e vita”.[2]

Ne scaturisce un’interpretazione che ci consente di agganciarci direttamente agli altri due brani biblici di questa domenica: quello evangelico, in cui Gesù, alla richiesta dei discepoli di “congedare la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, a trovare cibo e alloggio” risponde dicendo: “Date loro voi stessi da mangiare” (Lc 9,13); e a quello della Genesi, in cui “Abramo diede a (Melchisedek) la decima di tutto” (Gen 14,20). Nell’uno e nell’altro caso si fa riferimento a un dono. In quello evangelico è un dono esistenziale, che potremmo tradurlo con queste parole simili di Gesù ai discepoli: fate dono di voi, della vostra vita; rendetevi totalmente disponibili, se volete soddisfare la fame della gente. Nel brano della Genesi, invece, Abramo fa dono a Melchisedek delle sue provviste e del suo bottino, come espressione di gratitudine a Dio. Il modo con cui Gesù e Abramo esercitano il dono, ci lascia intendere quello che ciascuno di noi è chiamato a praticare nei confronti di Dio. Dio non ci chiede di dare subito la nostra vita o di renderci immediatamente e totalmente disponibili a lui, come può emergere dalla richiesta di Gesù ai discepoli. L’esigenza radicale manifestata da Gesù necessita di un graduale passaggio, la cui prima tappa è quella manifestata dal ragazzo che fa dono a Cristo dei “pochi pani e pochi pesciolini” di cui dispone (cf. Lc 9,13). Quel poco che ha lo mette a disposizione di Cristo. L’importante dunque è offrire quel poco che abbiamo, poiché è sul nostro poco che Dio opera miracoli. Dio non ci chiede di dare sempre il tutto di noi, ma “la decima di quello che possediamo”, esattamente come fa Abramo nei confronti di Melchisedek[3]. È attraverso i piccoli doni che Dio giunge gradualmente a chiederci tutta la nostra vita e a farne dono per la causa evangelica di Cristo. Paradossalmente è la nostra povertà, la nostra fragilità, la nostra impotenza umana a rendere Dio libero di essere Dio in noi, proprio come afferma Paolo: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12,10), ovvero, è allora che si manifesta la potenza di Dio in noi.

Questo commento esegetico ci induce a fare una considerazione sui temi dell’Eucaristia, del dono di sé all’altro e della fame nel mondo. Partiamo da quest’ultimo. L’evidente diffusione della fame e della povertà nel mondo, ha radici antiche e profonde. Esse ci riportano fino alle origini del male, di cui è difficile stabilirne gli inizi. La loro presenza è indice della nostra scarsa tensione alla giustizia e alla fratellanza universale. E probabilmente, come dice Gesù, le avremo sempre con noi (cf. Mc 14,7), fino alla fine del mondo. Lui stesso, nonostante i suoi sforzi evangelici, non ha mai avuto la pretesa di risolverle definitivamente. La questione dunque non è sradicarle dalla nostra vita, ma trasformarle in luoghi manifestativi della potenza di Dio, esattamente come lui afferma dinanzi al cieco nato, quando gli astanti gli chiedono le origini della colpa: “né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio” (Gv 9,3). La fame e la povertà fisica sono problemi che superano le nostre capacità risolutive, e tuttavia esse sono indice di una fame e di una povertà più profonda e misteriosa, dal sapore spirituale ed esistenziale. È a questi livelli che egli ci chiede di volgere l’attenzione. Fare dono a Dio di questo genere di bisogni è esattamente quello che lui desidera più di qualsiasi altra cosa. Farli emergere dal nostro cuore e dal cuore della gente significa dargli il tutto e il meglio di noi stessi. Nulla trattenere, ma tutto dare, convinti che “tutto possiamo in Colui che ci dà forza” (Fil 4,13). Non è sempre facile giungere a questa fiducia estrema in Dio, poiché siamo abituati sempre a risolvere le cose appellandoci alla nostre possibilità. Ma è facendo dono di noi, delle nostre povertà e soprattutto della nostra fame di Dio che Cristo può soddisfare i nostri bisogni più reconditi e autentici.

L’invito dunque che ci viene rivolto da questa liturgia della Parola eucaristica è quello di consegnare a Cristo le nostre povertà, come fa il ragazzo con i pani e i pesci, affinché lui possa “prenderle”, “benedirle”, “spezzarle” e “distribuirle” (cf. Lc 9,16) a quanti ancora oggi hanno fame e sete di Dio. È questo il vero miracolo eucaristico che siamo chiamati ad operare nel mondo.

 

 

 


[1] Fare memoria significa ri-cor-dare, ovvero di ri-dare-al cuore il senso originario dell’evento salvifico di Cristo, nel senso che veniamo condotti dallo Spirito a capire, a partecipare e ad aderire dell’evento originario e fondativo della nostra salvezza, quello cioè vissuto da Cristo durante la sua Passione-Morte-Risurrezione.

[2] C.M. Martini, Educare alla Parola, in Id., La scuola della Parola, Opera Omnia vol. 4°, Bompiani, Firenze-Milano 2018, 17.

[3] Melchisedek re di Salem. Melchisedek è una figura misteriosa ed emblematica dell’Antico Testamento. Letteralmente il termine Melchisedek significa “mio re è giustizia”. Il nome infatti deriva dalla radice mèlekh che significa “re” e tzédeq che vuol dire “giustizia”. Egli viene designato come re e sacerdote del Dio Elyon (che nella lingua ebraica è uno dei nomi di Dio, tradotto con “Altissimo”), cosa alquanto enigmatica, poiché la legge mosaica vietava che un re fosse anche sacerdote, compito riservato solo ai leviti. Di lui si parla solo pochissime volte nella Bibbia e si conosce poco o quasi nulla. Egli infatti compare e scompare all’improvviso. Nell’Antico Testamento si parla di lui solo in rare circostanze: Gn 14,18-20, quando va incontro ad Abram che torna vittoriosa da una spedizione grazie alla quale ha liberato il nipote Lot. Abramo gli offre pane e vino e lui benedice il patriarca. Allora Abramo decide di fargli dono della decima del suo bottino. Nel Salmo 110 viene evocato come il Messia e lo si ritrova come figura perfetta di sacerdote: “Il Signore ha giurato e non si pente: tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek”. L’autore della lettera agli Ebrei dice che è “senza padre, e senza madre, ovvero senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile a Dio”. Per questa ragione egli diventa prefigurazione simbolica di Gesù Cristo, Figlio di Dio (cf. Eb 7, 3). “Assimilato al Figlio di Dio, rimane sacerdote in eterno” (Eb 7, 8). Il fatto che Abramo gli abbia dato la decima del suo bottino dimostra “quanto grande deve essere” (Eb 7, 4). Come Melchisedek anche il Cristo non proviene da una famiglia sacerdotale, lasciando intendere la superiorità del suo sacerdozio. Nello specifico della liturgia della Parola di oggi l’offerta che Abramo rende a Melchisedk costituisce un atto prefigurativo della cena eucaristica, con la quale Gesù, in quanto Sommo sacerdote, preannuncia la sua immolazione sulla croce. Il brano di Genesi 14, 18-20, il Salmo 110 e il brano della lettera agli Ebrei 9, 11-15 (prevista per l’Anno B) sono di fatto gli unici testi canonici che fanno riferimento alla figura misteriosa di Melchisedek.

Salem invece è il nome dell’antica Geru-salem-me (cf Gn 14, 18; Sal 76,2). Esso è di origine ebraica e fa riferimento al termine Shalom che corrisponde al saluto arabo salàm che significa pace. Salemme è dunque città della pace. Secondo Giuseppe Flavio il termine Salem fu mutato dal sacerdote Melchisedek in Ierusalèm che contiene l’aggettivo ieros “santo” (cf. G. Flavio, De bello iudaico VI, 10, 1). Gerusalemme dunque pare che sia una sorta di traslitterazione greca dell’ebraico Ierusalèm.

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