top of page

21 Settembre 2025 - Anno C - XXV Domenica del tempo ordinario


Am 8,4-7; Sal 112/113; Tm 2,1-8; Lc 16,1-13



La scarsa ‘strategia salvifica’ dei cristiani

 


Marinus van Reymerswaele, Due esattori delle tasse (1540), National Gallery di Londra
Marinus van Reymerswaele, Due esattori delle tasse (1540), National Gallery di Londra

“Fatevi degli amici con la disonesta ricchezza, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Lc 16,9). È la conclusione alla quale perviene Gesù al termine di una sua parabola, solitamente qualificata come l’Amministratore disonesto, ma che sarebbe più opportuno definire come l’Amministratore scaltro. Essa costituisce un’esortazione che Gesù rivolge ai suoi discepoli, come a voler suggerire loro la giusta ‘strategia spirituale’ per conquistare la salvezza. In realtà ci appare come un invito piuttosto ambiguo e sconcertante, di non facile comprensione, per questo motivo necessita di un’adeguata spiegazione. Per farlo troviamo opportuno collocare la parabola all’interno di un insegnamento volto a trovare un rapporto equilibrato tra la ricchezza e la capacità di amministrarla, come ci suggerisce, tra l’altro, anche la conclusione dello stesso brano evangelico: “Non potete servire Dio e la ricchezza” (Lc 16,13), che fa eco a quella di qualche domenica fa: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo” (Lc 14,33).

La parabola[1] racconta di un amministratore che viene accusato di sperperare le ricchezze del suo padrone. Dinanzi all’inevitabile rischio di ritrovarsi licenziato, l’amministratore mette in atto un piano strategico che gli consente di garantirsi il futuro, decisamente compromesso. L’operazione consisteva nel sottrarre ad ogni creditore del suo padrone una percentuale di merce, prevista come usufrutto del terreno coltivato. Con essa egli avrebbe dovuto fare l’interesse del padrone e invece fa quello dei suoi creditori. Una manovra disonesta con la quale l’amministratore si assicura la loro amicizia, nella speranza che poi costoro, a loro volta, si mostrino disponibili ad aiutarlo al momento opportuno. Dinanzi ad una simile operazione ci si aspetterebbe una conclusione di condanna da parte del padrone e, invece questi, contrariamente alle nostre attese, loda la scaltrezza dell’amministratore.

Ne scaturisce una parabola piena di imprevedibili colpi di scena, il primo dei quali riguarda proprio l’amministratore e più precisamente la sicurezza che egli poneva nella sua collaudata scaltrezza. Fiducioso delle sue abilità amministrative riusciva a tenere il padrone all’oscuro dei suoi loschi traffici; ma accecato dalla presunzione delle sue abili qualità, rimane fortemente sorpreso quando il padrone, sulla base di alcune voci che gli erano pervenute all’orecchio, gli chiede inaspettatamente conto della sua amministrazione: “Cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare” (Lc 16,3). Vistosi sgamato, non riesce neppure a giustificarsi; tuttavia non si arrende, al contrario, manifesta una sorprendete abilità creativa e riorganizzativa della vita. Ne consegue un autentico esempio per chi a livello spirituale non dovrebbe mai gettare la spugna, neppure dinanzi alle più evidenti disfatte morali. Una caratteristica che oggi siamo soliti vedere in modo particolare nei politici o negli operatori finanziari, ma difficilmente troviamo in chi è chiamato a conquistarsi la salvezza.

Il secondo colpo di scena ci viene dal padrone, il quale, dinanzi all’atteggiamento sleale e disonesto del suo amministratore, anziché procedere con un intervento disciplinare, come ci saremmo aspettati, giunge perfino a lodare la sua scaltrezza. I criteri con cui valuta questa situazione ci sfuggono, per cui ci rimane difficile capire la ragione di questo suo comportamento.  

Il terzo e più sorprendente colpo di scena ci viene da Gesù il quale, nell’invitare i suoi discepoli a prendere come esempio l’atteggiamento di questo amministratore, afferma: “Fatevi amici con la ricchezza disonesta”. Come giustificare questa sconcertante affermazione di Gesù? È possibile che lui inviti i suoi discepoli a farsi amici perseguendo simili strategie, palesemente ingiuste? Come si rapporta tutto ciò con la sua diffusa predicazione sulla povertà o semplicità di cuore, e sull’estrema fiducia che chiede loro di avere nella provvidenza del Padre? In realtà ciò che Gesù loda nell’amministratore non è la disonestà, ma la capacità di svincolarsi da una condanna certa: anziché scoraggiarsi, abbattersi e deprimersi dinanzi a un futuro chiaramente compromesso, mette in atto tutta una tattica che gli consente di cambiare le sorti del suo destino. Questo atteggiamento offre a Gesù l’occasione per formulare un inciso che costituisce la chiave interpretativa della parabola: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8). Eccoci dunque giunti al nucleo della parabola: la questione centrale evidentemente non è la strategia della “disonesta ricchezza”, come sembra emergere dalla lode del padrone (cf. Lc 16,8), ma l’abilità con cui riesce a farsi amici grazie alla sua astuzia, assicurandosi in questo modo l’aiuto necessario al momento opportuno. La vera ricchezza da conquistare, dunque, è l’amicizia, specie quella divina dei santi, per la quale Gesù chiede di essere estremamente creativi, nell’assicurarsi amici atti a raggiungere l’obiettivo. A giudizio di Gesù gli amici potranno rivelarsi determinanti nel processo salvifico. La loro parola e la loro testimonianza a nostro favore può essere perfino decisiva.

Tradotto a livello spirituale tutto ciò significa che non basta accumulare solo per sé, in vista della propria salvezza, ma provvedere anche a quella degli altri, così che nel caso in cui ‘la propria dovesse venire a mancare, essi sono nella condizione di accoglierti nelle dimore eterne’ (cf. Lc 16,9). Inevitabile a questo punto si rivela il risvolto escatologico della parabola: gli amici ai quali allude Gesù sono tutti coloro che, nel giorno del giudizio, potranno accoglierci per il bene che abbiamo loro fatto in vita, e qualora ci siano state mancanze da parte nostra, l’amicizia che abbiamo costruito con loro è tale che potranno perfino giustificarci davanti a Dio. In altre parole, la salvezza per quanto venga elargita da Dio senza misura, è al contempo una conquista che prevede non solo lo sforzo personale, ma anche l’aiuto degli altri. La salvezza cristiana è un’operazione essenzialmente relazionale, comunitaria, ecclesiale.

Se ne deduce l’importanza e la necessità della “preghiera di intercessione” che facciamo per coloro che necessitano della salvezza, specie quando si trovano in condizione di non poterla chiedere – come gli ammalati agonizzanti per esempio – e, una volta salvi, essi intervengono a favore della nostra redenzione. Di intercessione è anche la preghiera che Paolo chiede a Timoteo di fare per “tutti coloro che stanno al potere”, affinché garantiscano la pratica libera della fede e “una vita calma e tranquilla” (1Tm 2,1-2), possibilmente lontana dalle persecuzioni.

Dall’onestà o dalla disonestà con cui realizziamo le nostre amicizie in vita, ovvero dal disinteresse o dall’interesse che avremo praticato nei loro confronti, dipende il futuro della nostra esistenza, che può essere: la “salvezza”, se ci saremo relazionati agli altri in modo gratuito, disinteressato, elargendo generosamente i propri beni e distribuendo correttamente quelli comuni; oppure la “perdizione”, se avremo strumentalizzato gli altri a nostro favore o ai nostri scopi. La modalità con cui gestiamo le amicizie in vita è rivelativa di quella con cui gestiremo le relazioni nell’eternità (cf. Lc 16,10-12). E non può essere diversamente, come rileva lo stesso Gesù quando dice che dal tipo di albero dipende la qualità dei frutti (cf. Lc 6,43-45). Se oggi, nella vita terrena, siamo altruisti, generosi, amichevoli, liberi, allora lo saremo anche in quella eterna, nel senso che tali atteggiamenti ci predispongono a partecipare della comunione d’amore con Dio; diversamente, se le nostre relazioni sono viziate dall’egoismo, egocentrismo, individualismo, indifferentismo allora nell’eternità sperimenteremo tutte le conseguenze di questi atteggiamenti e dell’assenza del suo amore. In questo senso, quelle realtà eterne che noi siamo soliti tradurre con “paradiso” e “inferno” e immaginare come luoghi fisici, altro non sono che condizioni relazionali, determinate dalla presenza o dall’assenza dell’amore di Dio.

Il discepolo, nel mettersi alla sequela di Cristo, deve decidere quale logica di vita seguire: quella del “regno”, che è caratterizzata dall’altruismo, dalla gratuità, dal disinteresse e dalla libertà; oppure quella della “ricchezza”, che è caratterizzata, invece, dall’egoismo, dall’egocentrismo, dall’avidità, dall’accumulo, dal possesso. Non è possibile perseguire l’una e l’altra logica contemporaneamente; impegnarsi cioè per il “regno di Dio” e, al contempo, per il regno del mondo. Ogni regno è animato da logiche diverse ed opposte. E ognuna di esse ha le sue esigenze, regole e priorità, tese ad un fine che è diametralmente opposto all’altro. L’idea di coniugare queste due forme di vita è una tentazione che colpisce in modo particolare i credenti. È ad essa, infatti, che fa riferimento il profeta Amos, inviato da Dio a rimproverare gli Israeliti che avevano deciso di seguire il Signore e a porre in lui la loro fiducia, eppure non riescono a sottrarsi ai traffici commerciali e ad arricchirsi a discapito dei poveri, usando strategie tipicamente commerciali e mercantili, come quelle di “diminuire l’efa, aumentando il siclo e usando bilance false” (Am 8,5). Costoro non esitano a ricorrere alla frode e a calpestare i diritti del prossimo, pur di accumulare il capitale pro-capite e il loro benessere. Il profeta si fa portavoce di quella Parola di Dio capace di regolare ogni forma di relazione e di scambio commerciale, per conformarli alla giustizia di Dio.

A questo punto viene da chiedersi: qual è il messaggio che Gesù ci invita a trarre da questa parabola? E come esso va tradotto nella prassi quotidiana della vita spirituale, ecclesiale e sociale? Nel rispondere intuiamo la necessità di imparare a trasferire in ambito spirituale la stessa intelligenza che siamo soliti impiegare per risolvere le difficoltà che nascono nelle situazioni della vita quotidiana. Provo a fare qualche esempio: non poche volte capita di vedere cristiani che in ambito lavorativo manifestano un’intelligenza brillante nel risolvere situazioni difficili e poi mostrarsi incapaci, inadeguati, se non addirittura goffi e ingenui, dinanzi a difficoltà analoghe a livello spirituale; passando così da un atteggiamento di estrema creatività e astuzia a livello mondano, a uno di radicale tontaggine e inettitudine a livello spirituale. In realtà il segreto della salvezza sta nel giusto mezzo, ovvero nel lasciar operare lo Spirito di Dio attraverso la nostra azione pastorale, consapevoli che “se il Signore non costruisce la casa invano vi faticano i costruttori” (Sal 127/126,1). Il che significa che se è vero che da una parte Gesù vuole dei discepoli docili, miti, mansueti, accoglienti, disponibili, è altrettanto vero che li vuole, anche intraprendenti, creativi, ingegnosi, energici, grintosi, scaltri che abbiano coraggio di osare, pur di raggiungere l’obiettivo. La salvezza è sì un dono gratuito di Dio, ma deve essere anche richiesta, cercata, voluta, desiderata. La domanda che lui pone ad alcuni: “Vuoi guarire” (Gv 5,6), non è affatto retorica, ma serve a verificare se il suo interlocutore dispone o meno di una volontà ferrea. La salvezza non è affatto scontata, anzi esige determinazione, decisione, fermezza, spirito d’iniziativa, creatività, immaginazione spirituale, flessibilità e duttilità intellettiva, generosità e disponibilità personale. Se per provvedere al nostro benessere fisico e materiale facciamo ogni sforzo e sacrificio, altrettanto vale per quello spirituale e quindi per il conseguimento della salvezza, che è la forma più alta di benessere che siamo chiamati a conseguire. L’energia intellettiva e creativa che l’amministratore disonesto mette in atto per assicurarsi il suo futuro, deve essere imitata ed emulata anche da noi che siamo chiamato ad amministrare i beni spirituali personali, comunitari ed ecclesiali. E ciò vale in modo particolare per i pastori, che hanno ricevuto da Cristo il compito di suscitare, promuovere, organizzare e amministrare la salvezza del popolo di Dio. Perciò occorre darsi da fare, creandosi amici, aiutandoli nelle varie circostanze, parlare bene di loro, affinché essi facciano altrettanto con noi dinanzi a Dio. Pronti a difenderci ad ogni costo, qualora la situazione dovesse richiederlo. Sono essi che potranno assicurarci l’accesso al regno dei cieli.


[1] Il sistema lavorativo a cui fa riferimento la parabola è quello della mezzadria, secondo la quale un ricco proprietario di terreno, chiamato “concedente”, consentiva a un coltivatore, chiamato “mezzadro”, la possibilità di lavorare il proprio terreno, dividendo, solitamente a metà, i prodotti e gli utili del podere. Per avere un’idea di questo sistema lavorativo dovremmo riferirci a quello attuale dell’amministratore delegato di un’azienda.

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page