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17 Luglio 2022 - Anno C - XVI Domenica del Tempo Ordinario

Aggiornamento: 25 lug 2022


Gn 18,1-10; Sal 14/15; Col 1,24-28; Lc 10,38-42


Quando l’ospitalità diventa comunione d’amore


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La proposta liturgica di brani biblici come quello dell’ospitalità di Abramo e dell’accoglienza di Marta e Maria subito dopo il commento alla Parabola del Samaritano di domenica scorsa, sembra costituire un’ulteriore risposta alla domanda del dottore della legge, sull’identità del prossimo e sulla modalità con cui tradurre il suo amore nel vissuto quotidiano. Chi è in ultima analisi il prossimo da amare se non Dio che, nella persona di Cristo, chiede di essere ospitato e accolto nella nostra vita? E cos’è l’ospitalità se non una forma d’amore con cui accogliere la sua alterità?

Se poi proviamo a rileggere questo tema alla luce dell’attuale fenomeno migratorio che sta caratterizzando la nostra realtà europea, comprendiamo la necessità di riandare alle origini biblico-cristiane dell’ospitalità, per comprenderne il senso specifico ed evitarne gli equivoci. A questo proposito si rivela estremamente illuminante il versetto della Lettera agli Ebrei che considereremo come chiave di lettura del nostro tema: “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13,2). Di contro allora ad una certa cultura, purtroppo molto diffusa anche tra noi cristiani, che ci induce a nutrire sentimenti di sospetto, di diffidenza, di paura e perfino di indifferenza nei confronti dei migranti, la visione biblica ed evangelica ci induce non solo a recuperare la dimensione sacrale dell’ospite, ma addirittura a identificarlo con Cristo, secondo il detto di Gesù che ritiene fatto a lui ciò che facciamo agli altri: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Naturalmente queste considerazioni non escludono un atteggiamento di prudenza che aiuti ad avere una lettura attenta e realistica del fenomeno e delle singole persone, per evitare di cadere in comportamenti ingenui e sprovveduti. I casi di ospitalità che la liturgia della Parola ci propone quest’oggi, evidentemente non intendono offrire soluzioni di tipo sociale e politico, ma contribuiscono certamente a creare quelle disposizioni umane e spirituali che possono rivelarsi determinati tanto per l’interpretazione del fenomeno migratorio, quanto per l’accoglienza personale delle singole persone.

Partiamo dall’episodio descritto nel libro della Genesi, dove Abramo diviene protagonista di una delle testimonianze più emblematiche di ospitalità nell’AT e forse di tutta la Bibbia. Essa costituisce in tal senso un paradigma di accoglienza. Proviamo a leggere il testo e a mettere in evidenza le parti salienti del brano. Abramo sedeva presso la quercia di Mamre[1] nell’ora più calda del giorno, quando si presentano inaspettatamente “tre uomini in piedi davanti a lui” (Gen 18,2). La tradizione jahvista[2], nella sua redazione finale, non esita a considerare immediatamente questo episodio come una teofania di Dio (manifestazione sensibile), anche se ciò non riduce la nostra difficile interpretazione del brano. Il testo, infatti, dice che: “In quei giorni, il Signore apparve ad Abramo” (Gen 18,1), tuttavia egli “alzò gli occhi e vide tre uomini che stavano in piedi davanti a lui” (Gen 18,2). Una manifestazione assai misteriosa, nella quale Dio si rivela nelle sembianze di “tre uomini”. Ma pur essendo “tre” Abramo si rivolge a loro con l’appellativo singolare di: “Mio signore” (Gen 18,3). Nei versetti successivi però Abramo parla con lui al plurale: “lavatevi … accomodatevi … ristoratevi” (Gen 18,3-5), e poi ancora al singolare: “Il Signore riprese” (cf. Gen 18,10.13). Come interpretare queste alternanze? Secondo alcuni studiosi esso sarebbe il risultato redazionale di diverse tradizioni orali – risalenti al periodo dell’esilio babilonese (VI sec. a.C.) – confluite poi nella stesura finale dell’attuale testo scritto. Ma al di là di questa interpretazione storico-critica, assai difficile da dimostrare, la tradizione patristica cristologica ha visto in questo episodio un indizio della visione trinitaria di Dio, abbondantemente ripresa poi dalla rappresentazione iconografica bizantina, quando ha voluto cimentarsi con la difficile e controversa raffigurazione dell’immagine di Dio.

Ciò che a noi interessa, però, è l’atteggiamento ospitale che Abramo manifesta nei confronti di questi misteriosi personaggi. Atteggiamento che vogliamo rileggere insieme al brano evangelico di Marta e Maria che, come Abramo, si ritrovano anch’esse ad accogliere il Signore nella veste di un uomo come Gesù. In entrambi i casi la loro ospitalità non si riduce solo ad un atto di cortesia formale, dettato dalle buone maniere morali e culturali del tempo – come il saluto, la lavanda dei piedi, il ricevimento, la protezione dell’ospite e l’accompagnamento nel congedo, secondo le norme descritte nel libro di Giobbe 31, 31-32 e in quello di 2Re 4, 8-10 – il loro gesto perciò va inteso alla luce del Cantico di Zaccaria che “Benedice il Signore perché ha visitato e redento il suo popolo” (Lc 1,68), oppure a quello di Maria che “Magnifica il Signore … perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1,46-48). Essi, infatti, sono ben consapevoli della qualità dell’ospite che stanno accogliendo e di quello che lui sta compiendo nella loro vita.

Il brano evangelico, tuttavia, ci rivela aspetti ancora più profondi legati all’ospitalità. Essa, come viene rilevato da Gesù a Marta, non deve limitarsi al servizio di ristorazione, ma essere animata dall’ascolto. Non basta servire il prossimo, ma occorre prima di tutto ascoltare le sue istanze, per meglio favorire lo sviluppo della sua persona. In una prospettiva pastorale particolarmente tesa all’attivismo, come la nostra, l’ascolto occupa purtroppo un posto molto marginale, eppure senza di esso si rischia prima o poi di vanificare tutti gli sforzi e le energie profuse. Mettersi in ascolto dell’altro diventa per Gesù la parte migliore in tutto l’esercizio dell’ospitalità. L’ascolto diviene così il servizio più eccellente che si può offrire al prossimo, comunque sia la sua entità: amico, parente, forestiero o migrante. La vera ospitalità consiste allora nell’accogliere l’altro da sé e creare con lui un rapporto di comunione d’amore tale da ospitare quella divina. Diversamente il rischio a cui ci si espone è quello manifestato da Marta che, nonostante la sua generosa attenzione e cordialità, vive il servizio non come dono gratuito, ma come termine di confronto e forma di giudizio nei confronti di Maria, un po’ alla stessa stregua del fariseo nel tempio, il quale pur osservando la legge, considera le proprie qualità come forma di disprezzo verso il pubblicano (cf. Lc 18,9,14). Anche Marta, infatti, sembra cedere a questi sentimenti negativi, motivati certamente dal suo attivismo, che le impediscono di cogliere la “parte migliore”, ovvero la comunione personale con Dio in Cristo. Il suo rischio, come quello di tanti come lei, è quello di praticare l’ospitalità come un dovere morale, oppure come un servizio finalizzato a se stesso, o solo all’altro, come quello di tipo filantropico per intenderci, che non sempre aiuta a mettersi in ascolto della voce di Dio nell’altro. Maria, invece, col suo atteggiamento, capisce che non può limitarsi ad accogliere Gesù, ma sa di doversi mettere in ascolto del Signore che parla in lui. Essa perciò va dritta all’essenziale, passando da un’ospitalità intesa come servizio, ad un’ospitalità intesa come ascolto. È qui che Gesù si sente pienamente accolto e ristorato. Maria ci fa capire che il segreto dell’ospitalità consiste nello: stare con Gesù, in ascolto della sua Parola. È questa accoglienza intima e profonda che consente a Gesù di rivelarsi in tutta la sua pienezza, come afferma nel suo detto: “A chi mi ama mi manifesterò” (cf. Gv 14, 21).

La diversa accoglienza di Marta e Maria viene solitamente interpretate alla luce di un binomio che ha creato e crea non poche difficoltà nella tradizione della vita spirituale, dove Marta viene associata a un tipo di ospitalità “attiva” e Maria a quella “contemplativa”. Un binomio di cui spesso vengono evidenziate le differenze più che la loro complementare integrazione, finendo così col ritenere la “vita contemplativa” superiore a quella “attiva”. In verità più che di “contemplazione”[3] la tradizione biblica ed evangelica parla di “preghiera”, quando questa viene intesa come condizione che consente di pervenire alla “conoscenza spirituale di Dio”. La questione perciò non è considerare questi due aspetti come due forme di vita alternativa, ma comprenderli nella loro complementarietà. Si tratta cioè di essere contemplativi nell’azione e attivi nella contemplazione, come lo stesso Gesù, il quale non si è dedicato esclusivamente alla contemplazione o alla sola predicazione, ma ha saputo vivere la “preghiera” come luogo di comunione con Dio, dal quale irraggiare “gesti” d’amore verso il prossimo. Egli vive la “preghiera” e la “predicazione” come due aspetti dell’unica vita evangelica. Essi pur distinti vengono integrati l’uno nell’altro. In altri termini egli pregava agendo e agiva pregando. Per lui la contemplazione costituiva la modalità con cui cogliere la presenza di Dio nel quotidiano e la predicazione la prassi con cui manifestare il suo amore nel vissuto. Per Gesù, dunque, il vertice di tutta la vita evangelica non è nella contemplazione, come avviene in molte religioni orientali, ma nella “carità”, intesa nella sua duplice manifestazione: divina e umana, ovvero verso Dio e verso il prossimo. Così intesa, la vita mistica, comune a tante esperienze religiose, non sta nell’alienazione dalla realtà del mondo, ma nella sua integrazione con la vita di comunione con Dio. È a partire da questa comunione che lo Spirito dà origine a quel principio trasfigurativo del mondo che è la redenzione di Cristo. Farsi prossimo a Dio negli altri, diventa allora la via maestra dell’ospitalità evangelica.

[1]Mamre nella storia religiosa ebraica non è solo un luogo geografico, ma un luogo teologico, dove sono avvenute molti episodi di interventi divini a favore di Abramo. Qui Dio promette solennemente ad Abramo la discendenza attraverso un figlio nato da lui (cf. Gn 15,4); conferma la sua promessa con l’alleanza (Cf. 15,18); cambia il nome di Abramo (da Abram ad Abraham, padre di una moltitudine) e di Sara (da Sarai a Sara che significa ‘principessa’, madre di re). Inoltre ordina la circoncisione ad Abramo e a tutti i membri maschi della famiglia come segno dell’alleanza e rinnova la promessa fatta a Lot (cf. Gn 17,1-16); visita Abramo e Sara, annunziando loro la nascita di Isacco entro l’anno (cf. Gn 18,1-14); infine “visitò Sara, come aveva detto, e fece a Sara come aveva promesso” (Gn 21,1). [2] Il testo biblico così come si presenta nell’attuale forma redazionale presuppone uno sviluppo storico, sia sotto l’aspetto della tradizione orale, sia sotto quello della tradizione scritturistica. Tale sviluppo ha portato gli studiosi alla formulazione di alcune ipotesi interpretative, circa la formazione delle fonti. Tra queste fonti si distinguono quella Javista, Eloista, Deuteronomista e Sacerdotale, considerate come le principali fonti dalle quali prende corpo il Pentateuco, ovvero i primi 5 libri della Bibbia. Le fonti Javista ed Eloista prendono il nome dal termine Yahwe ed Elohim, con il quali vengono indicati i nomi di Dio. Quella Deuteronomista è così chiamata perché costituisce la principale fonte del libro del Deuteronomio. Quella Sacerdotale, infine, riguarda invece tutte le norme liturgiche e rituali predominanti nel libro del Levitico. Tali ipotesi sono tutt’ora oggetto di discussione nell’attuale ricerca esegetica. [3] Contrariamente a quello che ritine l’opinione pubblica il termine contemplazione non ha un’origine biblica, dove risulta praticamente assente, ma filosofica, dove indica un tipo di conoscenza divina che suscita un atteggiamento di meraviglia, di ammirazione, di stupore. Non si esclude che la tradizione patristica, nel tentativo di inculturare la sapienza filosofica, ha assimilato questo termine, ritenendolo un atteggiamento col quale aderire, con la mente e il cuore, alla conoscenza di Dio. Influenzati da una certa visione platonica, tale termine è stato considerato, in certi ambienti monacali, come il vertice dell’attività spirituale. In realtà, secondo la tradizione cristiana, la contemplazione più che il vertice della vita mistica è solo un atteggiamento che consente di pervenire alla conoscenza di Dio. Il vertice infatti è costituito dalla “carità”, alla quale vanno subordinati tutti gli altri carismi. Lo stesso Paolo che pure parla di “conoscenza spirituale”, non usa mai il termine contemplazione, bensì preghiera. I due termini infatti, per quanto simili, sono caratterizzati da una sostanziale differenza: mentre la contemplazione è animata da una riflessione e una partecipazione di tipo intellettivo alla verità, la preghiera sottolinea invece l’intima e profonda partecipazione personale alla vita divina di Dio e la piena adesione alla sua volontà. Contemplare Cristo, allora, come fa Maria, significa ospitalo dentro di sé, fino a creare un rapporto di comunione d’amore con lui.

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