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15 Giugno 2025 - Anno C - Santissima Trinità


Prov 8,22-31; Sal 8; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15


Nel dinamismo della vita trinitaria


Santissima Trinità (XI sec.), Santuario della Santissima Trinità, Vallepietra Roma
Santissima Trinità (XI sec.), Santuario della Santissima Trinità, Vallepietra Roma

“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio” (Gv 16,12-15).

È significativo che la Chiesa ci faccia celebrare il mistero della Trinità subito dopo la solennità della Pentecoste, come a volere dire che solo chi dispone del dono dello Spirito di Dio ed è testimone della Risurrezione di Cristo, può scrutare e indagare il mistero della vita divina. “Nessuno infatti può dire che Gesù è Signore se non è sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3b) e nessuno può avere accesso alla pienezza della verità della comunione trinitaria, se non partecipa della vita relazionale di Cristo col Padre. Vita che è stata riversata nei nostri cuori dallo Spirito di Cristo (cf. Rm 5,2).

Tuttavia il brano evangelico che la Chiesa ci propone per la circostanza non fa minimamente accenno a questo mistero. In realtà non esiste in tutta la Bibbia un solo versetto che faccia riferimento esplicito a questa verità di fede, tanto meno Gesù ne parla espressamente in qualche passo. Da dove allora questa dottrina? E in che termini è possibile considerare questo brano giovanneo introduttivo al mistero trinitario? Per sgomberare il campo da ogni possibile equivoco è opportuno dire che quella trinitaria è una verità alla quale la Chiesa accede gradualmente, nella misura in cui sviluppa al suo interno un’intelligenza illuminata dallo Spirito, solitamente definita Teologia, dal greco theos “Dio” e logos“parola”, letteralmente “discorso o indagine su Dio”. Si tratta però di un’indagine che senza escludere l’intelligenza umana, è imprescindibile dalla rivelazione di Dio, come lascia intendere Gesù a Pietro, appena dopo aver intuito la sua identità messianica: “Beato te Simone … perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Pertanto, è partecipando di questa dinamica rivelativa che diviene possibile intuire una simile verità. Cristo stesso lungi dall’argomentarla l’ha lasciata intendere attraverso la sua stessa testimonianza di vita relazionale col Padre nello Spirito. Si tratta quindi di sviluppare una metodologia di indagine che rifletta quella relazionale di Gesù. In questo senso solo chi intesse con Cristo una relazione d’amore ha la possibilità di accedere a una simile conoscenza. Il che ci fa capire che la Trinità prima ancora di essere un mistero teologico è uno stile di vita; un principio vitale che spiega non solo la tipologia delle relazioni divine, ma che dà senso e compimento anche a quelle umane[1].

Lungi dal pretendere di esaurire una simile verità, vorrei quindi offrire solo i presupposti che consentono di accostarci ad essa in punta di piedi, esattamente come Dio chiede di fare a Mosè quando si rivelò a lui nel roveto ardete. “Togliti i sandali dai piedi, poiché il luogo sul quale stai è una terra santa” (Es 3,5). Occorre allora spogliarsi di tutte le pretese razionali, per accostarsi a un mistero così grande, poiché “Dio nasconde queste cose sapienti e ai dotti, ma le rivela ai semplici” (Mt 11,25)[2].

Cominciamo quindi col commentare il nostro brano con qualche domanda introduttiva: a cosa si riferisce Gesù quando, rivolgendosi ai suoi apostoli, dice: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”? Di quale verità parla, da risultare così profonda, misteriosa e incomprensibile all’intelligenza dei discepoli? Cosa impediva a lui di parlarne più chiaramente e agli apostoli di comprenderla più facilmente? Non è facile rispondere a queste domande e il rischio di un’interpretazione evasiva è molto alto, tuttavia se la Chiesa ci propone un simile brano, allora significa che ci autorizza a pensare che tra le cose di cui i discepoli non potevano ancora comprendere il senso ci sia anche la relazione trinitaria tra Gesù e il Padre, una relazione così unica e speciale che necessitava del particolare intervento dello Spirito per essere compresa[3].

Intanto è interessante notare come Gesù, a differenza di tanti fondatori religiosi, non si preoccupi di essere esaustivo nel definire i contenuti della sua dottrina, ma delega allo Spirito il mandato di far comprendere il senso del suo insegnamento, come a voler testimoniare che la sua non è una rivelazione che nasce e si esaurisce con lui, ma che ha origine nel Padre, si incarna nel Figlio, si pianifica con lo Spirito e si completa con la testimonianza dei discepoli, ai quali viene affidato la responsabilità di portare a compimento il suo disegno, fino alla fine dei tempi (cf. Mt 10,5-8; 28,19-20). Ne scaturisce una testimonianza di vita che ci dà modo di intuire la dimensione relazionale della salvezza. Il Figlio, pur essendo l’artefice della salvezza è perfettamente consapevole che essa è un’iniziativa del Padre e si attualizza per mezzo della grazia dello Spirito. Ne scaturisce un’opera che attesta la dimensione trinitaria della salvezza. Questa è contemporaneamente opera del Padre, del Figlio e dello Spirito.

D’altra parte è anche interessante notare come lo Spirito, animato dalla stessa logica rivelativa, pur disponendo della sapienza salvifica del Figlio non tiene gelosamente con sé questa conoscenza, ma la condivide con l’intelligenza degli apostoli e di quanti dopo di loro si sforzano di indagare e partecipare dello stesso mistero salvifico del Padre. Si capisce così quello che Gesù dice dello Spirito: “non parlerà da se stesso”, nel senso che non formulerà una verità diversa da quella insegnata da Cristo, ma “dirà tutto ciò che avrà udito (da lui) e annuncerà le cose future”. In altre parole, come Cristo consegna allo Spirito la comprensione del proprio insegnamento, così lo Spirito consegna all’intelligenza dei discepoli e della Chiesa la realizzazione e il compimento della verità di Cristo nel mondo. Una consegna quella vissuta da Cristo e dallo Spirito che rivelano un atto di estrema fiducia dell’uno nell’altro. È in questa reciproca consegna di sé all’altro che possiamo cogliere il dinamismo trinitario della vita divina rivelata da Cristo. Si assiste così ad una sorta di reciproco nascondimento-rivelativo tra le persone della Trinità, che è all’origine anche della vita relazionale nella Chiesa: il Padre si nasconde dietro la missione salvifica del Figlio; il Figlio si nasconde dietro l’azione redentiva dello Spirito; lo Spirito si nasconde dietro la missione santificativa della Chiesa nel mondo. Ciascuno si nasconde lasciandosi rivelare dall’altro. Non è forse questa la logica trinitaria che dovrebbe caratterizzare anche le nostre relazioni ecclesiali? [4]

È chiaro allora che la Trinità non si riduce ad un concetto astratto, ma è una verità viva, costituita da un dinamismo relazionale di persone vere e concrete. Il che significa che per indagare, argomentare e spiegare la sua verità occorre disporre di una mente trinitaria, capace cioè di pensare in modo relazionale non solo con l’altro, ma anche nell’altro, dando origine così ad un’argomentazione pericoretica che scaturisce dalla consegna della propria conoscenza all’altro, convinto di ritrovarla arricchita nel gioco della reciprocità.

Questo modo di accostarci alla verità della vita trinitaria di Dio è quello che possiamo qualificare in termini di Sapienza, che nelle modalità con cui viene proposta dalla Bibbia non si riduce ad una conoscenza di tipo intellettivo o teorico, ma implica una vita esperienziale, capace di tradurre i suoi contenuti in un vissuto relazionale. Si capisce allora il senso della prima lettura tratta dal libro dei Proverbi 8,22-31 e del Salmo 8 che fanno luce sui presupposti esperienziali e spirituale di un simile approccio. Per questa ragione i testi biblici che descrivono l’essenza della Sapienza sono impregnati di saggezza, ovvero di quella conoscenza che scaturisce dall’esperienza pratica della vita, dalla quale chiunque, indipendentemente dal grado culturale e livello intellettivo, può attingere, per dare senso e compimento alla propria vita e alla vita di fede.

In conclusione, la Trinità, malgrado i nostri sforzi razionali, è e rimane un mistero e forse mai come in questo caso la sua comprensione è strettamente legata all’intelligenza che scaturisce dalla nostra testimonianza di vita evangelica nel mondo. Vale quindi per essa ciò che Gesù dice dei suoi discepoli: da come vi amerete l’un l’altro il mondo conoscerà la verità dalla quale provengo (cf. Gv 13,35). Se “Dio è amore” (1Gv 4,8) trinitario la sua verità diviene comprensibile solo all’interno di un contesto ecclesiale d’amore relazionale. Nulla come l’amore reciproco rende ragione del mistero trinitario di Dio. Nulla lo rende visibile e attraente ancora oggi nel mondo.

 

 

 


[1] In effetti a livello esegetico non mancano i passi biblici veterotestamentaria che lasciano intravedere questo mistero, chiaramente solo se vengono riletti in questa luce retrospettiva. Basti considerare alcune figure o categorie mediatrici come quella del logos, della sapienza, dello spirito che pur non presentando immediatamente un carattere personale dispongono comunque di una tensione personificante, che li distingue dal Dio che è uno, ma non unico. Significativi a questo riguardo sono i passi di Gen 1,1-2; 41,38; Es 31.3; 1Sam 10,10; Is 61,1; Sal 110,1. Nell’At per esempio Nel Nuovo Testamento invece i passi dove più esplicitamente si fa riferimento a questo mistero sono la formula battesimale di Mt 28,19: “Battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello spirito Santo”; e la benedizione con cui Paolo conclude la sua seconda lettera ai Corinti 13,14: La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”. senza contare che vi sono anche altri passi neotestamentari che riferiscono la divinità di Gesù e dello Spirito Santo, come At 5,3-4; Gv 1,1-2.

[2] Tra gli atteggiamenti previ che sembrano emergere da questi due passi biblici, di Esodo e di Matteo, vi sono senza dubbio quello dell’umiltà, della semplicità e della purezza di cuore, che prima ancora di avere una connotazione morale e spirituale, dicono l’atteggiamento intellettivo con cui ciascuno è chiamato ad accostarsi ad un simile mistero. L’umiltà è la prerogativa con la quale l’uomo riconosce i propri limiti e prende le distanze da ogni forma di orgoglio, superbia, presunzione, superiorità o sopraffazione nei confronti degli altri e del creato. Quando viene esercitata a livello religioso allora diventa “timore di Dio” che, lungi dall’essere confuso con la paura, è l’atteggiamento col quale l’uomo prende coscienza della smisurata e inconfrontabile grandezza di Dio e per questa ragione è degno di rispetto. L’umiltà è forse l’atteggiamento che più di ogni altro va necessariamente recuperato, specie nel nostro occidente, dove la formazione culturale ci abitua ad aggredire scientificamente tutto ciò che entra nell’orizzonte della nostra conoscenza razionale e a svalutare o minimizzare, invece, tutto ciò che sfugge ai nostri parametri intellettivi. “Il timore di Dio è il principio della sapienza” dice il libro dei Proverbi 9,10. Grazie ad esso Dio rende partecipe l’uomo di quel misterioso piano d’amore che va sotto il nome di Sapienza, ovvero di quella forma di conoscenza divina con la quale egli ha dato origine ed esistenza ad ogni cosa, impregnandone tutto il creato. A questo proposito vi invito a meditare la luminosa pagina che sant’Ilario vescovo scrive sul “timore di Dio”, che la Chiesa ci propone nell’Ufficio delle letture di giovedì della seconda settimana di Quaresima. La semplicità è invece quell’atteggiamento che nasce dalla franchezza evangelica e consente di pensare, parlare, agire, relazionarsi con gli altri nella carità evangelica, consapevole che la propria testimonianza di vita, per quanto contrasti con la logica del mondo, costituisce un’occasione benefica di correzione salutare. La purezza di cuore infine è quello sguardo spirituale che consente di vedere Dio nelle persone, nelle circostanze della vita, specie quando sono caratterizzate da situazioni moralmente incresciose. È a questo sguardo che fa riferimento Gesù nel Discorso della montagna, quando lo definisce perfino una beatitudine: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8).

[3] È proprio grazie a questo intervento che Giovanni, rispetto agli altri evangelisti, si spinge ad indagare con la sua intelligenza spirituale e illuminata dallo Spirito, il mistero della vita relazionale di Cristo col Padre. Ne sono testimoni i suoi discorsi come quello di Addio, che stiamo leggendo in queste domeniche, dove giunge a scrutare le profondità abissali di questo mistero, con dei dialoghi che solo chi è ispirato dallo Spirito di Dio, può descrivere in quei termini. Mi piace immaginare che tra i contenuti della sapienza di cui lo stesso Paolo fu fatto oggetto della rivelazione di Cristo (cf 1Cor 2) ci fosse anche il mistero trinitario. Certo neppure lui ne parla in modo così chiaro, ma diverse formule di fede, come quella adottata dalla Chiesa per il saluto introduttivo alle celebrazioni liturgiche: “La grazia del Signore Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13), ci lasciano intendere che lui l’avesse in qualche modo intuito. La vita trinitaria di Dio è perciò tra quelle verità che è rimasta nascosta ai sapienti di questo mondo, poiché la loro logica conoscitiva è del tutto diversa da quella rivelativa di Cristo, tant’è che la sua sapienza messianica, manifestata attraverso la croce, è risultata assurda e incomprensibile al punto da crocifiggerlo. Tuttavia “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano” (1Cor 2,9; Is 64,3, Ger 3,16; Sal 19,4; Sir 1,8), egli infatti le rivela a quanti, come gli apostoli, si mostrano docili all’azione dello Spirito, quello Spirito che scruta le profondità di Dio. “Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali” (1Cor 2,13).

[4] Non è un caso allora che veniamo introdotti in questo mistero solo dopo aver contemplato i tre grandi eventi della vita di Cristo: la Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste. Tre eventi che dischiudono gradualmente e progressivamente il mistero della sua identità divina. La Pasqua ci dice la vita, l’Ascensione ci indica la via, la Pentecoste ci rivela la verità dell’amore trinitario. Tutto è caratterizzato da un dinamismo relazionale fatto di nascondimento e manifestazione, di consegna e ritrovamento. Nessuno dei tre si afferma da sé, ma ciascuno è manifestato dall’altro e nell’altro. Una vita divina quella di Cristo che inaugura una nuova forma relazionale tra le persone nel mondo.

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