13 Luglio 2025 - Anno C - XV Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 12 lug
- Tempo di lettura: 6 min
Dt 30,10-14; Sal 18/19; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
La via dell’eternità

“In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi? Costui rispose: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso. Gli disse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai” (Lc 10,25-28).
La lettura progressiva del Vangelo di Luca ci dà modo di cogliere la continuità tra il “mandato missionario”, sul quale abbiamo meditato domenica scorsa, e la realtà della vita eterna, sulla quale ci invita a meditare l’attuale brano evangelico. Il rapporto che sussiste tra l’annuncio del regno di Dio e la vita eterna che esso promette, ci offre la possibilità di riflettere su un aspetto che, oggi invece, viene posto in discussione: esiste veramente la vita eterna? E se esiste in cosa consiste? Non è forse una promessa illusoria per i poveri di questo mondo? Qualora ci fosse la possibilità di accertarne l’esistenza quali sono le condizioni per accedervi? Che prove abbiamo che l’adesione alla vita del regno annunciato da Gesù e dai suoi discepoli garantisca la partecipazione alla vita eterna? Le domande, com’è evidente, scaturiscono da una serie di dubbi suscitati dall’attuale mentalità culturale, essenzialmente materialista, che riduce la vita esclusivamente a quella terrena, considerata come l’unica forma di vita. Ma le cose stanno veramente così?
Proviamo allora a considerare attentamente il brano evangelico, sforzandoci di soffermare l’attenzione su quegli aspetti che più di tutti si prestano a offrirci una diversa interpretazione dell’esistenza e a verificare, poi, se essa comprende i presupposti plausibili per una sua credibilità e quindi di una nostra adesione. La nostra riflessione prende il via dalla domanda che il dottore della legge pone a Gesù: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Praticamente la stessa domanda, a parte qualche variazione narrativa, che troviamo anche sulla bocca di quel tale descritto dai Sinottici (cf. Mt 19,16-22; Mc 10,17-22; Lc 18,23). Con la differenza, però, che mentre quest’ultimo sembra essere sinceramente interessato alla vita eterna – anche se poi vi rinuncia per via dei suoi beni – il dottore pone la domanda col solo scopo di mettere alla prova Gesù, come annota Luca all’inizio del brano (cf. Lc 10,25). Questa interessante osservazione ci consente di evidenziare anche la metodologia evangelizzatrice di Gesù, come vedremo nel corso del nostro commento.
Notiamo subito che tanto quel “tale” descritto dai sinottici, quanto il nostro “dottore” pongono l’accento sul fare: “che cosa devo fare?”. Entrambi si mostrano profondamente condizionati da una mentalità religiosa essenzialmente votata al fare, ovvero ad eseguire fedelmente quelle norme morali e a compiere quei precetti religiosi che, a loro dire, garantivano l’accesso immediato alla vita eterna, considerata come la dovuta ricompensa, per una vita vissuta all’insegna dell’onestà morale e spirituale. Gesù scardina questa mentalità invitandoli a considerare la vita eterna non come il risultato inevitabile di una condotta di vita, sia pure integerrima, ma come un dono gratuito che Dio, indipendentemente dalla condotta morale o dalla professione religiosa, elargisce a coloro che si mostrano sensibili ai bisogni del prossimo. Da qui il senso della parabola, conosciuta come Del buon samaritano, con la quale Gesù sostiene che se c’è un criterio che garantisce la vita eterna, questo non è la fedeltà alla legge, come prescrive Mosè, ma l’attenzione al prossimo. Già, “ma chi è il mio prossimo?” domanda il dottore a Gesù. Anche in questo caso Gesù sovverte la tradizionale mentalità ebraica che presentava una visione piuttosto ristretta del concetto di prossimo. Stando alle indicazioni mosaiche, infatti, per prossimo s’intendeva solo chi faceva parte della propria parentela o del proprio clan sociale. Solo più tardi esso viene esteso anche agli stranieri che vivevano all’interno del territorio israeliano, a condizione però che essi vivessero già da tempo in quella terra e che condividessero le loro usanze e soprattutto che aderissero alla loro religione. Difficilmente, dunque, un Samaritano che presentava tutte le prerogative di un pagano, poteva essere considerato tale. Nessuno più di lui costituiva una minaccia per la fede ebraica e quindi un nemico. Per comprendere questo pregiudizio così radicato nei confronti dei Samaritani è opportuno un breve excursus storico, che ci fa cogliere anche la ragione per cui Gesù si riferisce proprio a loro nella sua parabola. In realtà i Samaritani provenivano dalla stessa stirpe ebraica. La Samaria infatti era parte integrante del territorio d’Israele, ma che per motivi politici e religiosi, a seguito della morte di Salomone, si erano staccati dal regno del sud, costituendosi come regno del nord. Si vennero così a formare due regni: uno a sud, con capitale Gerusalemme e l’altro a nord, con capitale Samaria. Col tempo però i Samaritani si erano aperti alle esperienze religiose dei popoli confinanti, acquisendo così la fisionomia di una religione di tipo sincretista, che aveva letteralmente alterato l’esperienza originaria della fede in Yahvè, motivo per cui i Samaritani erano considerati veri e propri traditori della fede mosaica. Da qui le ragioni conflittuali con i Giudei, rimasti invece fedeli a Yahvè. Malgrado questa considerazione così negativa Gesù, con la sua parabola, giunge ad estendere il concetto di prossimo perfino ai Samaritani, compiendo così una vera e propria rivoluzione semantica del termine “prossimo”. E come se ciò non bastasse riconosceva al Samaritano della parabola quella particolare l’attenzione verso il prossimo, che invece era ritenuta un motivo di vanto dei Giudei. Pertanto mentre il dottore si sforzava di capire chi potesse essere il suo prossimo, Gesù lo invita a farsi prossimo del Samaritano, ovvero di colui che egli riteneva suo nemico.
A conferma di questa rinnovata mentalità religiosa, osserviamo ora come si comporta Gesù col dottore che interloquisce con lui senza nessuna intenzione pacifica, anzi col solo scopo di “metterlo alla prova”. L’episodio si presta perciò a verificare l’atteggiamento di Gesù verso i suoi nemici. Nonostante l’evidente atteggiamento di sfida, Gesù sta al gioco: alla domanda, chiaramente retorica del dottore, Gesù risponde con una contro domanda: “Che cosa sta scritto nella Legge? Cosa vi leggi? Costui rispose: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso. Gli disse: Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ordunque – sembra chiedere Gesù –: se tu sai che la via maestra per ereditare la vita eterna è l’amore verso Dio e verso il prossimo, perché me lo domandi? Perché vuoi verificare se anch’io sono giunto al tuo stesso livello di sintesi della legge? Che necessità hai di fare della tua conoscenza un criterio di giudizio nei miei confronti? Da dove nasce il tuo desiderio di sfidarmi?
Non contento di essere stato sgamato, il dottore riparte all’attacco, nel tentativo di trovare almeno un motivo di cui accusarlo. Ed è interessante notare che pure dinanzi a questa ulteriore pressione psicologica Gesù mantiene un atteggiamento di accoglienza e di apertura nei suoi confronti. Egli non lo contrattacca polemizzando, rischiando così di irrigidire l’animo del suo interlocutore, ma lo induce alla ragionevolezza. Capisce che quella circostanza limite è una situazione di cui approfittare per esercitare l’amore verso una persona che si stava letteralmente comportando come un nemico, ma che offriva tutte le prerogative per essere un prossimo da amare. Così già nel mentre dialoga con lui si fa suo prossimo. E lo fa con la delicatezza che gli è propria: raccontando una parabola, senza cioè rimproverarlo apertamente, ma lasciando alla sua intelligenza la libertà di cogliere i suoi limiti morali. Ecco il senso del linguaggio parabolico. Egli espone la parabola non come un argomento apologetico che serve a contrastare chi intende confutare il proprio pensiero, ma come un racconto che lascia il cuore e l’intelligenza liberi di aderire o meno al suo contenuto. In altre parole, Gesù non fa pressione su di lui con un argomentazione razionale, stringente e persuasiva, ma predispone il suo cuore all’accoglienza della verità, suscitando in lui il coraggio di mettersi in discussione. Con la sua parabola Gesù non gli fa capire solo chi è il suo prossimo, ma come farsi prossimo di un nemico, anzi di un Samaritano. Come a dirgli: non basta studiare e conoscere la legge, né sapere che Dio e il prossimo meritano di essere amati, occorre che l’amore venga vissuto e praticato, poiché è a queste condizioni che si può ereditare la vita eterna. Pertanto il dottore che pensava di colmare la sua sete di vita eterna con lo studio e la conoscenza esegetica della legge, gli viene detto che solo amando concretamente Dio nel prossimo può sperimentarne la pienezza. È amando che può partecipare della vita eterna, da lui tanto anelata. Se c’è dunque una condizione che contribuisce ad appagare quella incolmabile sete d’eternità che alberga nel cuore dell’uomo questa va individuata nell’amore del prossimo.
In conclusione, possiamo dire che malgrado le attuali interpretazioni culturali che riducono l’esistenza esclusivamente alla vita terrena, l’anelito verso l’eternità continua a persistere nell’uomo. Questo desiderio diventa perciò cifra di un bisogno che non può essere appagato col solo benessere materiale e neppure con l’esercizio delle virtù morali, ma necessita di essere colmato con l’amore. Si rivela perciò estremamente interessante l’intuizione dell’evangelista Giovanni, quando dice che “Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). Questa è la vita eterna: vivere nell’amore (cf. Gv 17,3). “Va’ e anche tu fa’ così”.




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