12 Ottobre 2025 - Anno C - XXVIII Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 11 ott
- Tempo di lettura: 8 min
2Re 5,14-17; Sal 97/98; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19
Il potere salvifico della fede

“Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: Gesù, maestro, abbi pietà di noi! Appena li vide, Gesù disse loro: Andate a presentarvi ai sacerdoti. E mentre essi andavano, furono purificati” (Lc 17,12-14).
“Naamàn, (comandante dell’esercito del re di Aram) scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato (dalla sua lebbra)” (2Re 5,14).
Sono i versetti, tratti rispettivamente dal Vangelo di Luca e dal secondo libro dei Re, che delineano il tema di questa 28aDomenica del TO, tutta incentrata sulla fede e più specificamente sul potere salvifico di cui essa dispone. Ancora una volta, dunque, torna il tema della fede e ancora una volta la Liturgia ci invita a considerarne il potere redentivo.
I brani, di cui abbiamo appena citato i versetti più significativi, ci offrono un’interessante testimonianza di questo aspetto della fede. Entrambi ci riferiscono di persone guarite dalla lebbra, grazie all’intervento di Gesù ed Eliseo e alla fiducia nella loro parola profetica. Proveremo perciò prima a collocare questi brani nel loro contesto, per poi sviscerarne i significati che assumono per la nostra vita spirituale, specie in un quadro sociale come il nostro, fortemente caratterizzato da forme di lebbra culturale che impediscono una sana visione e un autentico sviluppo della vita umana. Gli episodi ci offrono l’occasione per un breve richiamo sulla lebbra e sulla prassi procedurale prevista da Mosè in questi casi, che per brevità di tempo rimando alla nota a margine[1].
I brani biblici ci descrivono la guarigione di alcuni ebrei, tra i quali due stranieri, di cui uno proveniente dalla Siria[2] e l’altro dalla Samaria. Apparentemente questi episodi sembrano essere solo il racconto di eventi prodigiosi, in realtà essi intendono esaltare da una parte il potere taumaturgico della fede, dall’altra l’utilizzo di questo potere anche a vantaggio di persone considerate nemici d’Israele. Di uno di essi ci viene detto anche il nome e il ruolo che esercitava: Naaman[3] , il quale persuaso da un suo servo decise di immergersi nel Giordano secondo le indicazioni del profeta. Alla settima volta, con sua sorpresa, il suo corpo ridivenne come quello di un ragazzo: totalmente purificato dalla malattia. Attonito, si recò umilmente dal profeta per esprimergli tutta la sua gratitudine e riconoscenza, dicendo: “Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”.
Molto più stringato, invece, è l’episodio evangelico di Luca, il quale narra di dieci lebbrosi che saputa della presenza di Gesù nel loro villaggio, gli si fecero incontro e fermatosi a distanza, gridarono: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi” (Lc 17,13). E Gesù, con estrema discrezione[4], senza compiere alcun gesto, li invitò a presentarsi al sacerdote. Costoro, nel mentre erano in cammino verso il tempio si ritrovarono guariti. Tutti vengono risanati, ma solo uno di loro, un Samaritano, preso atto della sua guarigione, decise di tornare da Gesù, per esprimergli tutta la sua gratitudine. Dinanzi a questo gesto di riconoscenza Gesù disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19). Questa formula si rivela estremamente significativa per capire il rapporto e la differenza che intercorre tra la guarigione fisica e la salvezza spirituale.

Siamo soliti considerare, giustamente, la guarigione come la prova di un evento divino eccezionale. Senza nulla togliere alla grazia con cui lo Spirito opera in queste circostanze, Gesù ci ricorda che il miracolo, oltre ad essere la manifestazione del potere divino, implica una partecipazione personale, che necessita al contempo dell’ausilio della volontà e della preghiera fatta con convinzione. Anche in altre circostanze, come per esempio quella del Fico sterile, Gesù, ribadendo la necessità di questa intima persuasione, diceva ai suoi discepoli: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quando dice avviene, ciò gli avverrà. Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (Mc 11,22-24; Mt 21,21-22). La preghiera fatta con convinzione costituisce, perciò, una condizione fondamentale per la manifestazione del potere della fede. Non basta limitarsi a chiedere a Dio, ma occorre essere profondamente convinti che ciò che si chiede accade. Il potere della fede non dipende solo dalla grazia divina, ma anche dalla persuasione personale, esattamente come evidenzia Gesù in questa formula: “La tua fede ti ha salvato”. Il che significa che è la nostra fiducia estrema e incondizionata in Cristo a mettere Dio nella condizione di operare in noi. In questa prospettiva possiamo ritenere il miracolo come il frutto di una reciproca collaborazione tra Dio e l’uomo, segno di una perfetta unità di intendi. Né Cristo esercita il suo potere per ostentare la sua divinità, né il lebbroso costringe Cristo a compiere un gesto che soddisfi solo la propria guarigione fisica, ma entrambi operano gratuitamente e liberamente in vista della realizzazione del piano redentivo di Dio. Lo scopo della fede non è la guarigione fisica, ma la salvezza spirituale. Pertanto volontà, umiltà, preghiera, gratitudine e libertà sono elementi costitutivi della fede, che necessitano di essere praticati e coordinati armonicamente se s’intende giungere alla salvezza.
Diversamente dall’opinione comune che tende ad associare o addirittura a identificare guarigione e salvezza, l’episodio evidenzia, invece, la loro distinzione. Non sempre, infatti, chi riceve il dono della guarigione è automaticamente orientato a convertirsi. Anzi molte persone, pur constatando una reale guarigione avvenuta, rimangono sostanzialmente indifferenti sul piano morale e spirituale, esattamente come i nove lebbrosi. Per loro la guarigione non costituisce un segno divino, capace di suscitare il cammino di conversione. Al contrario, essi sembrano attribuirla ad altri fattori o alle circostanze occasionali, come accade di solito anche nella nostra prassi religiosa, dove solo raramente riusciamo a risalire alla causa divina delle nostre guarigioni fisiche, psicologiche, morali e spirituali. Paradossalmente questa svolta spirituale viene compiuta da chi è lontano alla prassi religiosa ufficiale, i quali, proprio perché sono liberi dai pregiudizi e dalla pratiche liturgiche formali, si lasciano raggiungere e trasfigurare dallo Spirito.
L’episodio evangelico si presta anche ad una rilettura interpretativa della nostra esistenza e della mentalità culturale che la caratterizza. A una considerazione più attenta, infatti, sembra che alcune idee o visioni della vita che esaltano il nichilismo, il relativismo, l’edonismo, si rivelino nel tempo così contagiose e pericolose da indebolire o, addirittura, deformare la vita spirituale, fino a neutralizzarne il potere. E tuttavia non mancano i casi di guarigione. Ma quanti effettivamente sono in grado di riconoscere l’ausilio della fede in questi percorsi di recupero? Anch’essa infatti, al pari di Cristo, opera nel silenzio, con discrezione e senza enfasi. Eppure non per tutti essa costituisce l’occasione per un autentico cammino di conversione.
Com’è evidente l’episodio evangelico, sia pure in forma diversa, continua ad attualizzarsi nel tempo. E stando al numero esiguo di coloro che interpretano la guarigione come segno di un intervento divino nella loro vita, possiamo dire che la conversione non è mai un fenomeno di massa, ma scaturisce dalla decisione personale, libera e gratuita, di considerare la propria guarigione come l’occasione per rientrare in se stessi e ritornare a Dio, esattamente come il figlio prodigo. Tuttavia mettere mano alla conversione, oggi, potrebbe risultare un’impresa ardua, ma esprimere almeno un senso di gratitudine verso coloro che, in diversi modi e forme si fanno, come Cristo, mediatori di quelle guarigioni psichiche, intellettive, morali o spirituali, sarebbe già un segno di inizio. E chissà che magari proprio questa gratitudine potrebbe diventare l’occasione per sentirsi dire da Cristo: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.
[1] Stando al libro del Levitico 13,45-14,57, la lebbra indicava una vasta gamma di malattie dermatologiche, che andavano dalla muffa sui vestiti e sulle pareti delle case, alla manifestazione di noduli e lesioni di varia grandezza a livello cutaneo e dei nervi periferici, con la relativa alterazione della sensibilità. Essa poteva essere benigna o maligna e a seconda dei casi si procedeva a un diverso trattamento terapeutico e alla relativa stima morale del lebbroso. Coloro che venivano colpiti da questa malattia erano tenuti, in primo luogo, a presentarsi al sacerdote, il quale, una volta attestato il contagio, dettava le disposizioni mosaiche, obbligando il lebbroso a tenersi fuori dall’accampamento. Dopo l’accertamento del sacerdote il lebbroso doveva manifestarlo visibilmente e pubblicamente: indossando vestiti strappati, velarsi il capo fino alle labbra superiore e soprattutto dichiararlo apertamente, gridando: “Impuro! Impuro!” (Lv 13,45). A causa di questo contagio i lebbrosi erano quindi esclusi dalla vita comunitaria e ghettizzati in un luogo a parte, lontano dall’accampamento. Queste disposizioni oltre a evitare la diffusione della lebbra, erano motivate anche da una valutazione morale, in quanto la malattia costituiva un chiaro segno di impurità. Una duplice discriminazione, quindi: fisica per la malattia contagiata e morale per il peccato di cui era segno evidente, alla quale si aggiungeva anche quella socio-culturale che evidentemente, insieme a quella morale, procurava una sofferenza ancora più terribile di quella fisica. In caso di guarigione il lebbroso doveva nuovamente presentarsi al sacerdote, il quale dopo averla attestata, procedeva con la purificazione che consisteva nell’aspersione del suo corpo col sangue degli uccelli offerti in sacrificio. Una volta purificato dai peccati questi doveva lavarsi il corpo, i vestiti, radersi completamente tutti i peli e quindi rientrare nell’accampamento (cf. Lv 14,1-9).
[2] Un territorio nemico, di cui ancora oggi si assiste a drammatici conflitti politici Basti pensare alla guerra dei sei giorni, nel 1967, oppure ai conflitti più recenti come quelli degli anni ‘80, ’90, 2000, 2011.
[3] Naaman era capo dell’esercito arameo, ed era un personaggio molto ragguardevole presso la corte del suo re. La sua autorevolezza, tuttavia, stando al testo, viene attribuita anche alla protezione di Jahvè – di cui probabilmente era un devoto – grazie al quale aveva ottenuto diverse vittorie e conquistata la salvezza del suo popolo. Si capiscono perciò i legami che questi stringeva con gli Ebrei. Egli però era lebbroso e ciò lo costrinse, suo malgrado, a ritirarsi dalla vita di corte, con tutte le relative sofferenze e privazioni che ne scaturivano. Saputa della malattia, una giovinetta israelita che svolgeva servizio presso la moglie di Naaman, lo invitò a recarsi nella propria terra e presentarsi al profeta Eliseo che, a suo giudizio, lo avrebbe certamente guarito. Egli riferì la cosa al suo re Ben-Adad, il quale gli scrisse una lettera di credenziali da recare a Ioram, re d’Israele. Giunto, però, davanti al re questi “si straccio le vesti”, perché ritenne quella lettera una provocazione, un chiaro pretesto per ridicolizzare la sua dignità regale: “Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi ordini di liberare un uomo dalla sua lebbra?” (2Re 5,7). Da qui il rifiuto di compiere un simile gesto. Informato dell’accadimento il profeta Eliseo chiese di visionare il caso, aggiungendo di voler incontrare direttamente il comandante, ma Naaman una volta davanti al profeta, rimase letteralmente offeso a causa della superficialità con cui fu accolto. Egli si sarebbe aspettato i convenevoli, riservati ad un dignitario come lui, ma Eliseo, senza neppure vederlo, mandò il suo segretario a dirgli di andare nel fiume Giordano e bagnarsi sette volte. Sdegnato per un simile trattamento, decise di tornare al suo paese, convinto che avrebbe potuto benissimo compiere nelle acque dei suoi fiumi quanto richiesto da Eliseo, ma ancora una volta fu trattenuto da un suo servo che gli disse: “Padre mio, se il profeta di avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: bagnati e sarai purificato” (2Re 5,13).
[4] Colpisce l’estrema sobrietà con cui Luca descrive questo miracolo. Nulla viene detto di ciò che Gesù compie se non l’invito a presentarsi al sacerdote, che stando alle prescrizioni mosaiche, avrebbe dovuto accertare la guarigione avvenuta. Nessuna enfasi intorno alla figura di Gesù. Nulla che faccia cadere l’attenzione su suoi gesti o sulle sue parole. Al contrario egli opera nascondendosi, lasciando che il tutto accada nel più assoluto riserbo, tanto che gli stessi lebbrosi rimangono insensibili all’evento. La guarigione rimane misteriosa perfino al lettore che non capisce quando e come sia avvenuta. Ne scaturisce uno stile narrativo che lascia trapelare una chiara mentalità evangelica. Autentico esempio di coerenza e sobrietà comunicativa tra messaggio e linguaggio letterario.




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