10 Luglio 2022 - Anno C - XV Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 9 lug 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Dt 30,10-14; Sal 18/19; Col 1,15-20; Lc 10,25-37
Quando l’istanza della vita eterna
fa capolino dentro di noi

La lettura progressiva del Vangelo di Luca ci dà modo di cogliere la continuità tra il “mandato missionario”, sul quale abbiamo meditato domenica scorsa, e l’attuale liturgia della Parola. Basterebbe, infatti, mettersi nei panni di un missionario o di chiunque si ritrova a parlare di Vangelo in un qualsiasi ambito della vita quotidiana, per capire che la questione sollevata dal dottore della legge sulla vita eterna e sull’identità del prossimo (cf. Lc 10,29), oppure l’obiezione manifestata dal popolo d’Israele sulla reale possibilità di osservare fedelmente tutti i comandi del Signore (cf. Dt 30,10-14), non siano tra quelle questioni sulle quali prima o poi si viene interpellati. In realtà esse non di rado fanno capolino anche dentro di noi. Anche noi infatti ci poniamo continuamente domande sulla reale esistenza della vita eterna; e anche noi troviamo a volte piuttosto impegnativi e gravosi i comandi che il Signore ci chiede di attuare per accedervi. Terremo dunque sullo sfondo questi interrogativi durante il nostro commento, per capire in che modo rispondere a quanti, nell’oggi della nostra fede, ci chiedono di dare ragione di queste istanze così profonde e impegnative.
Ci lasceremo introdurre nell’argomento dalla stessa domanda avanzata dal dottore della legge: “Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc 10,29). Praticamente la stessa domanda, a parte l’aggettivo “buono”, che troviamo anche sulla bocca di quel tale descritto nel vangelo di Marco 10,17. La domanda apparentemente sincera, viene fatta, in realtà, per metterlo alla prova, come rileva lo stesso Luca: “Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova” (Lc 10,25). Questa annotazione lucana ci incuriosisce e ci fa porre alcune domande: perché questo dottore intende mettere alla prova Gesù su una questione così scottante? Quale sentimento muove la sua domanda? La circostanza tuttavia si presta anche a porci alcune domande su Gesù che ci interessano più da vicino: come si comporta Gesù in simili situazioni? In che modo si relaziona agli altri che manifestano la chiara intenzione di sfidarlo? Queste domande ci offrono l’occasione per capire innanzitutto se e in che misura anche noi siamo animati dal desiderio della vita eterna? Ma soprattutto a evidenziare la metodologia evangelica di Gesù nel quotidiano del suo vissuto relazionale.
Osserviamo dunque Gesù nel suo modo di rapportarsi col dottore. Malgrado l’atteggiamento di sfida, egli sta al gioco e anziché irrigidirsi risponde con una contro domanda, che potremmo riformulare in questi termini: tu domandi a me qual è la via per entrare nel Regno di Dio. Ma può un dottore come te non conoscere queste cose? Il dottore, sentitosi sgamato nella sua reale intenzione provocatoria, dà prova della sua conoscenza e risponde: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore … e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,27). Dalla risposta si capisce che quella del dottore era una domanda retorica e che il suo era solo un modo per ostentare quella conoscenza alla quale era pervenuto grazie alla sua acuta riflessione personale. Egli tuttavia voleva verificare se anche Gesù fosse pervenuto alla sua stessa conclusione. E dalle risposte di Gesù prende atto di trovarsi dinanzi ad un esegeta più fine di lui. È facile a questo punto immaginare una contro risposta di Gesù, con la quale sembra ribadire al dottore: Visto che tu conosci queste cose, perché me le domandi? Se tu sai che la via maestra per entrare nel Regno dei cieli è l’amore verso Dio e verso il prossimo, perché non lo metti in pratica?
Dinanzi a questi argute osservazioni di Gesù, il dottore, non soddisfatto dei risultati raggiunti, riparte all’attacco, come a voler trovare almeno un lato debole di Gesù. Perciò fa ancora una domanda: “E chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29). La domanda offre a Gesù l’occasione per esprimere la sua visione di prossimo, che vorrei qui brevemente richiamare alla memoria. La parabola che segue costituisce perciò un vertice al quale Gesù perviene ripercorrendo il solco della tradizione ebraica. Originariamente, infatti, il termine “prossimo” riguardava solo i “parenti” o al massimo quelli che appartenevano allo stesso clan familiare. Per questa ragione viene spesso associato al termine “fratello”, anche se non va confuso con esso. Il prossimo, infatti, rispetto al fratello non appartiene alla casa paterna, anzi egli è un estraneo, un diverso, letteralmente un “altro da sé”. Questa diversità non esclude la possibilità di poter interagire con lui, tuttavia la relazione poteva essere intessuta solo con quei diversi o “stranieri” che dimoravano in territorio israelita, più specificamente a quelli che aderivano alla fede mosaica, accettando il rito della circoncisione. In questa visione religiosa il significato di prossimo non va oltre il popolo d’Israele (cf. Lv 17,3). Il comando di “amare il prossimo come se stessi” è esteso quindi al massimo agli stranieri residenti (cf. Lv 17,8.10.13; 19,34). Dopo l’esilio babilonese si sviluppano due diversi tipi di riflessioni: una che insiste solo nell’amore verso l’Israelita e al proselito circonciso; l’altra estesa anche a coloro che non appartengono al popolo d’Israele. Qualsiasi uomo, dunque, indipendentemente dalla relazione di parentela o dal legame religioso, può essere considerato prossimo da amare. Con l’avvento di Cristo la nozione di prossimo viene definitivamente trasformata ed estesa a tutti coloro che, in diversi modi e forme, manifestano una difficoltà o un bisogno, anche se si dovesse trattare di una persona verso la quale si nutrono sentimenti inimicali, come quelli nei confronti dei Samaritani, da lungo tempo considerati traditori e rinnegatori della fede mosaica, per essersi concessi al culto di altri dei[1]. La parabola del Buon samaritano costituisce allora un’applicazione pratica di questo tipo di amore.
Al di là di questo sviluppo storico e di quello che Gesù intendesse per prossimo, ciò che mi preme sottoporre alla vostra attenzione è la metodologia evangelica che Gesù manifesta nei confronti del dottore. Malgrado l’atteggiamento ostile, Gesù non cede alla provocazione. Egli non contrattacca polemizzando, rischiando di irrigidire l’animo del suo interlocutore, ma mantiene un atteggiamento sostanzialmente pacifico e aperto nei suoi confronti. Capisce che quel dottore, benché sia condizionato da sentimenti di invidia e animato da uno spirito polemico, è un prossimo da amare. Così, nel mentre racconta la parabola, egli l’attua amando il suo interlocutore, ovvero, facendosi prossimo del dottore. Ecco la metodologia evangelica di Gesù che noi siamo chiamati a praticare specie in quelle situazioni in cui ci sentiamo sfidati dalle situazioni e dalle persone.
Si capisce allora che la parabola non è un argomento apologetico di cui Gesù si serve per contrastare chi intende confutare il suo pensiero, ma un racconto che lascia il cuore e l’intelligenza dell’altro liberi di aderire al suo messaggio. Essa non fa violenza con un’argomentazione aggressiva e razionale, stringente e persuasiva, ma predispone il cuore all’intelligenza spirituale, all’accoglienza della verità e al coraggio di lasciarsi interpellare. In altre parole la parabola diventa essa stessa l’espressione del suo metodo evangelico. Con essa, infatti, Gesù non dice solo chi sia il prossimo, ma come farsi prossimo e soprattutto chiarisce quale sia la cosada fare per ereditare la vita eterna. Nel caso specifico del dottore egli sembra stanare la tentazione più insidiosa alla quale è esposto chi è chiamato a riflettere a livello intellettivo sulla Parola di Dio, come i teologi, per intenderci. Non basta dunque studiare la Parola per salvarsi, ma occorre metterla in pratica: “Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Ecco l’unica cosa da fare realmente: la volontà di Dio, per la quale non basta limitarsi a conoscere la verità e neppure ridursi ad osservare alcuni precetti morali o eseguire alcune pratiche liturgiche, ma occorre piegare la propria volontà, ovvero quella logica di vita che governa e orienta le nostre scelte esistenziali e quotidiane, alle esigenze evangeliche di Cristo. Il dottore pensava di appagare la sua sete di vita eterna con lo studio e la conoscenza intellettiva, Gesù invece gli fa capire che solo la pratica dell’amore consente di raggiungere la pienezza della vita.
Un’ideale troppo utopistico il suo? Non sono pochi i cristiani a ritenerlo tale. A noi basta conoscere la risposta di Dio, che prendiamo a prestito dal libro del Deuteronomio: “Questo comando che oggi ti do non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prenderlo e farcelo udire … Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Dt 30,11,14). Nulla di più ingannevole, quindi, quando anche noi consideriamo troppo arduo vivere il vangelo. Nulla è difficile per chi consegna a Cristo la propria vita e pone in lui la speranza del proprio futuro. Ecco la povertà e la libertà che Gesù chiede a chiunque decide di annunciare la sua Parola.
Quando, dunque, il desiderio della vita eterna affiora nel nostro cuore o in quello del nostro prossimo, non occorre industriarsi a dire o fare chissà quale cosa o compiere chissà quale opera missionaria, ma mettersi in ascolto di questa domanda e interpretarla come uno dei bisogni più autentici e originari dell’uomo, per cogliere in essa la voce di Dio che ci invita ad appagarla con la comunione d’amore con lui nel prossimo. Questa è la verità che “rinfranca l’anima”, “rende saggio il semplice”, “fa gioire il cuore”, illumina gli occhi”. Essa “rimane per sempre” poiché è “più preziosa dell’oro”, “più dolce del miele e di un favo stillante” (Sal 18/19). Qui è la pienezza della vita eterna.




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