26 Giugno 2022 - Anno C - XIII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 24 giu 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 9 lug 2022
Re 19,16.19-21; Sal 15/16; Gal 5,1.13-18; Lc 9,51-62
L’ansia evangelica di Cristo

Dopo le solennità della Santissima Trinità e del Corpus Domini, che ci hanno aiutato a scrutare ulteriormente il senso dell’Evento Pasquale, riprendiamo il cammino liturgico del Tempo Ordinario, con brani biblici che ci introducono nel tema della sequela. In particolare quello evangelico ci dà modo di considerare questo tema nell’orizzonte del piano salvifico di Dio operato da Cristo.
Alcuni esegeti nel commentare questo brano di Luca, considerano distintamente la prima parte, dove Gesù viene colto nel quadro della sua salita verso Gerusalemme, dalla seconda, dove invece vengono descritti alcuni episodi relativi alla sua sequela. Giustamente la Chiesa ce lo fa meditare nella sua unità, come a voler suggerirci il contesto teologico, all’interno del quale ogni chiamata trova il suo specifico senso. Gerusalemme, e in particolare la salita di Gesù verso questa città, costituisce, allora, la chiave interpretativa non solo della liturgia della Parola di quest’oggi, ma di tutto il Vangelo di Luca. Rileggendolo per intero, infatti, notiamo che dopo i capitoli dedicati all’infanzia di Gesù e alla predicazione del battesimo del Battista (cf. Lc 1-4,12), vengono distinte due sezioni, di cui la prima è dedicata al ministero di Gesù in Galileia, col relativo annuncio del Regno di Dio (cf. Lc 4-9,50); la seconda, invece, è dedicata al viaggiodi Gesù verso Gerusalemme, come fosse l’unico della sua vita. Nella prospettiva teologica lucana, allora, tutta la missione di Gesù converge verso questa città, considerata come il luogo nel quale trova compimento la sua missione salvifica.
L’episodio da noi preso in considerazione viene collocato proprio all’inizio di questa seconda sezione evangelica. Esso ci riferisce della scarsa accoglienza, o meglio, del rifiuto che gli abitanti di un villaggio della Samaria manifestano nei confronti di Gesù e del suo annuncio evangelico. Luca non si sofferma a descrivere la ragione di questa ostilità, anche se non è difficile immaginarla[1], ma annota un dettaglio che ci introduce immediatamente nel cuore del nostro argomento. Si tratta di un appunto che ci lascia intendere il carattere particolarmente “determinato” di Gesù, al contempo fa luce su quello che anche noi dovremmo sviluppare, quando ci ritroviamo in situazioni che mettono a dura prova la nostra sequela di Cristo. “Mentre stava compiendosi il tempo in cui doveva essere tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme” (Lc 9,51). Dinanzi all’evidente ostilità del villaggio samaritano, Gesù non si tira indietro, al contrario, prende la ferma decisione di rimanere fedele al suo impegno missionario, pur consapevole dei contrasti che una simile decisione avrebbe comportato. Col suo atteggiamento egli sembra, allora, suggerirci che non c’è altro modo per superare questo genere di prove, se non quello di confidare in Dio solo, secondo il passo di Geremia: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e pone solo in lui la sua fiducia” (Ger 17,7).
L’ostilità dei Samaritani provoca, nei discepoli Giacomo e Giovanni, un incontrollato sentimento di sdegno, i quali reagiscono prontamente dicendo: “Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54). L’atteggiamento piuttosto focoso e impetuoso dei due fratelli, non a caso soprannominati da Gesù “Boanerghes”, che significa “figli del tuono” (cf. Mc 13,17), lascia intravedere la difficoltà di chi fa fatica ad entrare nella mentalità messianica di Gesù e a convertirsi alla sua logica evangelica. Infatti, mentre per Gesù l’ostilità dei samaritani si rivela come l’occasione per maturare ulteriormente la decisione di portare a termine la sua missione, per i due fratelli diventa il pretesto per manifestare un giudizio e una condanna nei loro confronti. L’atteggiamento di Giacomo e Giovanni è quello tipico di chi concepisce l’appartenenza a Cristo come una sorta di discriminante sociale, caratterizzata da una presunta superiorità morale e spirituale, da elevarsi a giustizieri nei confronti degli altri. In questa ottica il Vangelo viene pensato come una forma di potere religioso, politico e culturale, da imporre a chiunque osa contrastarlo, piuttosto che come un’azione di grazia che rivela l’amore misericordioso, gratuito e paziente di Dio, volto alla salvezza delle persone. La reazione dei due discepoli, oltre che essere sonoramente apostrofata da Gesù, diventa per noi l’occasione per riflettere su quel genere di pregiudizi culturali che persistono tenacemente nella nostra mentalità, malgrado la nostra prolungata professione di fede. In molte persone essi sono così radicati da alterare o compromettere perfino l’esatta interpretazione del Vangelo, senza considerare gli impedimenti che essi creano nella sua pratica e diffusione.
In questo quadro esegetico vengono inseriti gli altri episodi descritti nel brano evangelico. Si tratta di tre scene che fanno luce sulla dinamica della chiamata, già descritta da Luca nei primi capitoli del suo Vangelo. Proviamo a considerarli singolarmente, sforzandoci di individuare gli elementi caratteristici di ciascuno, per poi giungere ad una considerazione conclusiva. “Mentre camminavano lungo la strada un tale gli disse: ti seguirò dovunque tu vada” (Lc 9,57). Non è facile capire la ragione che spinge questo tale a decidersi, con tanta determinazione, alla sequela di Cristo. Dalla risposta di Gesù si deduce che egli non abbia assistito alle ostilità dei samaritani e ciò sembra spiegare l’entusiasmo della sua richiesta. Gesù non si lascia coinvolgere dall’idea di un nuovo discepolo, al contrario sa che questo genere di richieste necessitano di essere verificate con una prova che prefiguri loro i rischi e le conseguenze di una simile decisione: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9,58). Gesù sembra dirgli che la sua sequela non è affatto idilliaca e non basta una personale disposizione per renderla plausibile, al contrario la vita evangelica si rivela talvolta così esigente e radicale da sottoporre le persone a continui spostamenti e cambiamenti di vedute. In simili circostanze solo colui che sposa la causa di Cristo può perseverare nella chiamata. Non sappiamo cosa abbia deciso di fare quel tale dinanzi alla risposta di Gesù, sappiamo invece cosa facciamo noi quando ci ritroviamo a decidere e a gestire il futuro della nostra vita dinanzi ai cambiamenti che la vocazione richiede.
A questo episodio ne fa seguito un altro, nel quale è Cristo, questa volta, a prendere l’iniziativa della chiamata, come nel caso dei primi discepoli: “Ad un altro disse: Seguimi. E costui rispose: permettimi prima di andare a seppellire mio padre” (Lc 9,59). Si coglie subito la differenza comportamentale tra costui e i primi discepoli: mentre questi ultimi si distinguono per la loro immediata e radicale decisione (cf. Mc 1,16-20), costui ritiene lecito risolvere prima alcuni doveri di figlio, come quelli moralmente e religiosamente inderogabili dell’ultimo saluto al padre prima della sua sepoltura. Nessuno di noi oserebbe anteporre esigenze evangeliche, come quelle avanzate da Gesù, in simili circostanze, neppure Elia si mostra così esigente col suo discepolo Eliseo (cf. 1re 19,20), in un analogo episodio biblico, e invece Gesù si mostra radicale, perfino dinanzi a casi limiti. Come interpretare questa sua particolare esigenza evangelica? Come spiegarla a quei giovani che pur decidendo di mettersi alla sequela di Cristo nella vita consacrata, trovano necessario realizzare prima i propri agi e comodità e poi eventualmente prendere in considerazione la chiamata, senza tuttavia mai mettere in discussione il benessere del proprio stile di vita? La risposta di Gesù ci sconcerta: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,60). È chiaro che Gesù fa leva sul doppio senso della parola morto e quello al quale lui sembra riferirsi non è certamente quello della morte “fisica”, ma quella “spirituale”. Una persona spiritualmente morta, che ha spento, cioè, ogni forma di relazione personale con Dio, oppure che non anela ad un vissuto evangelico, anche se è moralmente attiva nell’osservanza dei precetti religiosi, non è adatta alla sequela di Cristo. Viene da chiedersi: quante di queste persone sono presenti nella nostra realtà ecclesiale? Quante di esse ritengono di praticare a loro modo la fede cristiana? Cosa direbbe Gesù a costoro?
Questi interrogativi ci introducono direttamente nel terzio episodio che, per certi versi, è simile al secondo. Anche in questo caso, infatti, ci troviamo dinanzi a un tale che viene chiamato precedentemente da Cristo, come lascia intendere il racconto, il quale però alla richiesta di Gesù avanza un’esigenza: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia” (Lc 9,61). Una richiesta apparentemente legittima, ma che non viene corrisposta da Gesù, anzi, coglie l’occasione per manifestare, ancora più chiaramente, la sua particolare ansia evangelica: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62). Il congedo che Gesù sembra negare a questo tale non è il saluto dei cari, ma il consenso o l’approvazione che questi chiede a loro per avere la conferma della propria vocazione. Pensare di risolvere tutte le tensioni o i contrasti familiari che possono sorgere a causa del Vangelo e della chiamata, ed avere la loro autorizzazione prima di mettersi alla sequela di Cristo, è indice di un’indecisione e insicurezza di fondo che contrasta apertamente con la mentalità di Cristo, il quale non ammette incertezze o esitazioni una volta maturata la chiamata. Questo tale sembra descrivere la tipologia di quelle persone a cui non sembra mai bastare il periodo di discernimento, ma necessitano sempre di un ulteriore approfondimento che dia loro la presunta sicurezza definitiva. In realtà essi trovano difficile mettersi alla sequela, semplicemente perché non sono mai entrati nella dinamica della fede, che impedisce loro di fidarsi dell’altro e quindi anche di Dio. Costoro, più che di riflessione, hanno bisogno di una buona dose di coraggio, per tuffarsi nella divina avventura di Cristo, come quella manifestata da Pietro al momento della sua chiamata, quando dinanzi alla provocazione di Gesù, dice: “Sulla tua parola getterò le reti” (Lc 5,5). Un atto di fiducia estremo che evidentemente lo stesso Pietro evoca nella sua prima lettera quando dice: “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio … gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi” (1Pt 5,6-7).
Questi tre episodi ci conducono ad una considerazione conclusiva. I freni, le verifiche, le esigenze e la radicalità manifestate da Gesù dinanzi a questi casi vocazionali diventano comprensibili solo a chi decide di entrare nella dinamica della sua chiamata. Diversamente rischiano di essere considerate assurde e impraticabili. Ci sono persone, infatti, che sull’onda dell’entusiasmo giovanile si lasciano facilmente suggestionare da alcuni ideali evangelici. Essi – come spiega Gesù nella parabola del seminatore – accolgono la parola di Dio “subito con gioia, ma non hanno radici in se stessi, sono incostanti e quindi al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si abbattono” (Mc 4,16-17). D’altra parte ve ne sono altri che anche dopo un lungo discernimento vocazionale che consente loro di acquisire anche una discreta conoscenza della dinamica spirituale, difficilmente si lanciano in un’autentica vita evangelica. Magari si prestano pure a servizi ecclesiali, ma attanagliati come sono dai dubbi e incertezze, fanno fatica a donarsi definitivamente a Cristo. Ogni vocazione ecclesiale necessita certamente di un tempo di maturazione e di discernimento, senza il quale esse rischiano di sbocciare prematuramente, abortire o addirittura morire in seno al proprio io, tuttavia nessuna di esse può veramente realizzarsi se non è animata dallo stesso amore e dalla stessa ansia evangelica di Gesù. Occorre aver sperimentato, sia pure per un solo attimo, la libertà che scaturisce dalla salvezza di Cristo (cf. Gal 5,1) per lanciarsi in questo genere di vita. Non ci si può mettere alla sequela di Cristo se non si fa esperienza della sua salvezza e della sua libertà. È a queste condizioni che ci si avventura nella “vita secondo lo Spirito”, di cui parla Paolo nella lettera ai Galati (cf. Gal 5,16). Qui è nucleo vitale che è all’origine di ogni vocazione ecclesiale.
[1]Una breve ricostruzione storica, infatti, ci può aiutare a fare luce sulle origini di queste tensioni ataviche. A seguito della morte di Salomone (933-31 a.C.) il regno d’Israele, per arginare il forte rischio di sincretismo religioso al quale diedero adito le sue scelte politiche e religiose, fu diviso in due parti: il regno del nord, con capitale Samaria e il regno del sud, con capitale Gerusalemme. Mentre il regno del sud rimase compatto e fedele ai precetti della fede mosaica, quello del nord si aprì ad altre esperienze religiose, dando luogo ad un sincretismo che finì con l’alterare radicalmente la fede in Javhé. Da qui la forte tensione che si venne a ingenerare tra i due regni. I Gerosolimitani consideravano i Samaritani gente che avevano rinnegato le proprie radici religiose, i Samaritani invece ritenevano i Gerosolimitani gente che avevano statalizzato e monopolizzato la fede ebraica. Queste diverse interpretazioni religiose tra Giudei e Samaritani diedero luogo a quelle forti ostilità culturali che vengono qui e lì tratteggiate da alcuni brani biblici ed evangelici, tra i quali anche qualche parabola di Gesù, come: 2Re 17,29; Mt 10,5; Lc 9,52; 10,33; 17,16; Gv 4,9; 8,48.




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