10 Agosto 2025 - Anno C - XIX Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 9 ago
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Sap 18,3.6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48
La fede come attesa della promessa

“Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12,35-38).
“Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio … Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano … Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza” (Eb 11,1.13.17-19).
Dopo aver compreso la necessità di vendere tutto e “darlo in elemosina” (cf. Lc 12,33-34), per avere un cuore libero da qualsiasi forma di attaccamento alle “vanità” della vita, la Liturgia della Parola di quest’oggi ci propone la fedecome “fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb 11,1). Ecco il vero tesoro di cui arricchirsi durante la vita terrena, per chi decide di vivere la fede come atteggiamento di attesa e di fedeltà alla promessa del “padrone che torna dalle nozze” (Lc 12,36).
Una proposta a dire il vero decisamente controcorrente e impegnativa, per non dire provocante, quella che emerge da questa Liturgia, in totale dissonanza col clima vacanziero che caratterizza l’atteggiamento di tanti di noi in questo periodo estivo: nel mentre siamo proiettati ad uscire fuori dalle nostre case, dalle nostre città e dalle nostre nazioni, verso una meta che si auspica riposante, la Parola di Dio ci propone di uscire da noi stessi, verso una meta che ci viene promessa come condizione di “ristoro delle nostre anime” (Mt 11,29). Un esodo tutt’altro che evasivo, perciò, quello a cui veniamo invitati. Se quello vacanziero, infatti, è spesso vissuto, per così dire, come occasione di “sballo”, quello spirituale è volto, invece, al recupero del centro di sé e di Dio che ne costituisce il fondamento e la pienezza.
Ma in cosa consiste questo tesoro? E quali sono le condizioni per crescere e progredire in esso? In un clima sociale come il nostro, prevalentemente caratterizzato da un lassismo morale, culturale ed esistenziale, la fede – così come scaturisce da questi brani biblici – sembra costituire quella condizione che contribuisce a darci una visione sapienziale della vita, grazie alla quale ciascuno di noi ha modo di cogliere il senso della propria esistenza. Cos’è infatti quel monito che Gesù rivolge ai suoi ad essere sempre “pronti con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese” (Lc 12,35), se non una metafora per dire l’importanza, anzi la necessità, di avere costantemente uno sguardo verso il suo ritorno escatologico, e soprattutto di poter acquisire i criteri che consentono di riconoscerlo nel buio della notte, ovvero nei momenti di crisi esistenziale e spirituale? Saper sviluppare questa attenzione e capacità discernitiva, custodendola gelosamente nei momenti di difficoltà, senza lasciarsi travolgere dai dubbi e dalla confusione che spesso accompagnano questi momenti, significa creare le condizioni per “accumulare” il deposito della fede. La fede diventa così la lampada che illumina e orienta la nostra esistenza. È alla sua luce che diveniamo capaci di riconoscere il volto di Cristo, quando, inaspettatamente, sopraggiunge nel pieno della nostra notte spirituale. Egli in modo molto discreto bussa alla porta del nostro cuore, attraverso circostanze e avvenimenti apparentemente assurdi e insignificanti. E se ne sta fuori, senza forzare la porta, come rappresenta, in modo emblematico, il pittore inglese Pre-raffaellita Holman Hunt (1827-1910) quando, nel dipingere la sua opera Cristo luce del mondo, si ispira proprio a questo brano evangelico di Luca. L’artista rappresenta Gesù in piedi davanti ad una porta, intorno alla quale sono cresciute spine ed erbacce. A qualcuno che fece notare al pittore che la porta era priva di una maniglia esterna, il pittore, sempre preciso in ogni dettaglio, rispose che questo genere di porta prevede solo una maniglia interna, quella cioè destinata al proprietario della casa. Solo lui può aprire l’ospite che chiede di essere accolto.
Ma chi sono i destinatari ai quali Gesù rivolge questa sua esortazione evangelica? È la stessa domanda che Pietro pone a Gesù: “Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?” (Lc 12,41). Dalla risposta di Gesù emerge chiaramente che ognuno, volendo, può acquisire, o anche recuperare, il senso della fede. Il che significa tradurre la fede in uno stile di vita esistenziale: “Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così” (Lc 12,43). Ciascuno, dunque, adottando questo stile di vita, può divenire quell’amministratore fedele e saggio che “estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).
L’acquisizione di questo atteggiamento di attesa comporta, però, alcune condizioni che possiamo capire commentando gli elementi narrativi della parabola di Gesù. “La veste stretta ai fianchi”, per esempio, evoca l’atteggiamento tipico di chi è deciso a intraprendere un cammino di fede, ma al contempo si dispone anche a viverla come “servizio”. È interessante notare che questo atteggiamento di servizio definisce perfino quello del padrone nei confronti dei quei servi che trova ancora svegli al suo ritorno: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (cf. Lc 12,37). Stringere la cintura ai fianchi significa conformare la vita alla fede, fino a farla diventare un abitus, ovvero uno stile di vita. Un’immagine decisamente controcorrente per quei cristiani – preti compresi – che pur decidendo di seguire Gesù, vestono sempre all’ultima moda, griffati, agiati e sempre in attesa di essere serviti.
Gli sforzi personali, tuttavia, per quanto ammirevoli, da soli non bastano se non sono animati dallo Spirito di Dio e alimentati dalla sua Parola. Il che significa che senza la chiamata divina il nostro cammino di fede rischia di ridursi in un itinerario intellettivo, teso solo alla conoscenza culturale di Dio. Non è possibile perciò progredire nel cammino di fede senza questo dato biblico fondamentale della chiamata, che rimane imprescindibile. Diversamente si corre il rischio di ridurre la fede, a una conoscenza di tipo culturale, che può avere uno sfondo umanistico e filantropico, ma non intessere una relazione di tipo mistico personale con Dio. L’itinerario della fede biblico-cristiano invece è tutt’altro. Esso ci propone di interagire con Dio, fino a renderlo il diretto interlocutore della nostra vita spirituale. È in lui che ritroviamo pienamente noi stessi. In altre parole Dio viene compreso come il centro, il fondamento e la pienezza del nostro io, che si rivela profondamente strutturato da una relazione di tipo trinitario.
Anche questa scoperta comporta però ulteriori condizioni. Essa si dischiude in noi nella misura in cui siamo disposti a lasciarci plasmare da Dio attraverso le prove della fede. Si comprende così il senso del brano biblico dell’epistola agli Ebrei, dove l’autore passa in rassegna tutti i testimoni della fede: da Abele ad Abramo, da Isacco a Mosè e così via fino a Cristo, ognuno dei quali è stato sottoposto alla prova della fede: “Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza”. Si tratta di una prova che coinvolge tutta la nostra esistenza e in primo luogo la nostra intelligenza, il cui crogiolo più rovente rimane: l’obbedienza a Dio. Non c’è infatti prova più grande per l’uomo che piegare la propria intelligenza a Dio; e riconoscere che tutto ciò che comporta il cammino di fede viene e dipende da lui. Ad ogni modo per questa straordinaria testimonianza di fede, Abramo viene insignito come modello di fede per ogni credente. Grazie alla prova, egli ebbe modo di acquisire uno sguardo capace di intravedere nel futuro le realtà promesse da Dio e di attenderle fermamente, sebbene il loro possesso rimase solo oggetto di speranza, come attesta la lettera: “tutti costoro morirono senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri sulla terra” (Eb 11,13)[1].
La fede dunque ci viene presentata come uno sguardo che permette di vedere il senso profondo della realtà, oltre la contingenza della nostra quotidianità. Perciò non può mai essere avulsa dalla speranza. Non si tratta solo di uno sguardo intuitivo, frutto della nostra capacità percettiva e intellettiva, ma di una verità che viene dall’alto e si dischiude alla nostra intelligenza come fondamento e fine della nostra esistenza. Il che significa che anche la nostra fede, per quanto fondata su Cristo – riconosciuto come “origine e compimento della fede” (cf. Eb 12,2), rimane una speranza che trova la sua conferma nella promessa della sua risurrezione. È la fede nella sua parola e l’esperienza del suo amore reciproco a garantirci la partecipazione alla comunione definitiva con Dio.
[1] Lo stesso concetto di “patria” al quale loro fanno riferimento, attesta questo graduale progresso della fede: inizialmente identificata con la terra promessa, solo gradualmente acquista la fisionomia di una patria celeste.




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