1 Gennaio 2023 - Anno A - Maria Santissima, Madre di Dio
- don luigi
- 30 dic 2022
- Tempo di lettura: 7 min
Nm 6, 22-27; Sal 66; Gl 4, 4-7; Lc 2, 16-21
La più benedetta fra le donne
“Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” (Lc 1,42), forse nessun’altra formula, come questa, sintetizza i temi di questa prima domenica del tempo natalizio, nella quale la Chiesa ci invita a celebrare la Maternità di Maria (cf. Lc 2,21) e il dono della filialità divina (cf. Gal 4,6), all’insegna del solenne gesto della Benedizionedi Dio (cf. Nm 6,24-26; Sal 66). Maternità di Maria, filialità divina e Benedizione di Dio costituiscono allora i temi che caratterizzano i brani biblici di questa liturgia della Parola. Noi cercheremo di considerarli nel tentativo di sviscerare ulteriormente il mistero dell’Incarnazione di Dio, appena celebrato.
Un breve percorso biblico può aiutarci a comprendere meglio il gesto e il significato della benedizione divina[1]. Nell’uso comune la benedizione è un’invocazione con la quale si chiede a Dio di rivestire una persona dei benefici divini. Essa perciò, come dice il termine, è dire-bene di qualcuno o di qualcosa, affinché sia resa partecipe dell’abbondanza dei doni divini. La testimonianza biblica ci fa capire che originariamente essa è un gesto proprio di Dio e che lui pratica sulle creature per condividere i suoi doni; e quando viene pronunciata compie ciò che dice. Così viene intesa la benedizione che viene impartita da Dio sulla prima coppia, subito dopo averla creata (cf. Gen 1,27-28). Così anche quelle dei Patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe sui rispettivi figli. Di generazione in generazione tutte le benedizioni sono tese a moltiplicare la discendenza affinché questa compia il piano di salvezza contenuto nella promessa divina. Questo modo di benedire, nella scia della promessa divina, ci fa capire l’uso favorevole della parola benedizione. In questo senso la parola viene intesa non solo come uno strumento comunicativo, teso ad esprimere il proprio bene, ma anche come un dono divino che dispone di un potere straordinario, che può essere volto tanto al bene quanto al male. La benedizione perciò è esattamente il contrario della maledizione, che prevede invece l’uso negativo della parola, pronunciata per provocare effetti funesti, diventando così causa di maleficio. La parola ha il potere di compiere il bene o il male. L’una o l’altra possibilità viene compiuta per mezzo della benedizione o della maledizione. Se con la prima viene invocata la potenza benevola di Dio, con la seconda viene evocata la potenza terribile del male. Nell’uso che ne fa Dio la parola è sempre volta la bene; quando invece è egli stesso a pronunciare la maledizione (cf. Gen 3,14-15) è per contrastare le conseguenze del maligno sull’uomo e sul creato.
Pertanto la parola di Dio è sempre volta al bene. In lui infatti la parola esplicita il suo amore per mezzo del potere creativo, mediante il quale dà origine alle cose. Grazie alla sua parola ogni cosa viene tratta dal nulla e posta in esistenza. Nel libro della Genesi l’autore esplicita questo potere divino con la seguente formula: “Dio disse: Sia la luce! E la luce fu” (Gen 1,3). L’evangelista Giovanni definisce la parola di Dio in termini di “Verbo”, quando dice che: “tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (cf. Gv 1,3.10). Dello stesso avviso è anche san Paolo: “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16; 1Cor 8,6). L’identico discorso vale anche per l’autore della lettera agli Ebrei 1,2.
La parola è all’origine anche del potere taumaturgico di Gesù: ogni guarigione che egli opera è accompagnata dalla parola, come attesta l’episodio del lebbroso che chiede a Gesù: “Signore, se vuoi, tu puoi sanarmi” e Gesù stese la mano e lo toccò dicendo: Lo voglio, sii sanato” (Mt 2-3). Nel Nuovo Testamento non troviamo mai la parola maledizione sulla bocca di Gesù. Egli è solo motivo di benedizione di Dio per l’uomo e per il mondo. Anche nei casi in cui Gesù pronuncia le minacce su persone, città o comunità, lo fa per salvaguardarli dal male e per aiutarli a prendere coscienza delle conseguenze a cui si esponevano con le loro scelte negative, come nel caso dei ricchi (cf. Lc 6,24-26); delle città (cf. Mt 11,21); degli scribi e farisei (cf. Mt 23,13-31); su Israele (cf. Mt 23,33-36); su Giuda (cf. Mt 26,24). L’unico riferimento evangelico in cui Gesù fa uso della parola maledizione è Mt 25,41: “Lungi da me, maledetti”. Per Paolo Gesù addirittura si fa maledizione, per riscattare coloro che erano sotto il potere della maledizione della Legge (cf. Gal 3,13). Gesù diventa così motivo di benedizione da parte di Dio per tutta l’umanità: col suo amore egli trasfigura le forze negative del peccato, insite nell’uomo e nel mondo. In lui e con lui si compie la promessa di Dio ad Abramo, quella di essere cioè segno di benedizione per tutti i popoli (cf. Gen 12,1-3).
La Bibbia dunque è costellata di gesti di benedizioni, accompagnate sempre da parole che ne esplicitano il contenuto. La sua formula più nota la troviamo nel libro dei Numeri, che la Chiesa ci propone per la circostanza. Si tratta di un gesto che Dio stesso impartisce sul popolo, attraverso il sacerdote Aronne: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6, 24-26). Una formula che echeggia anche nel Salmo 66: “Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la sua via, la sua salvezza fra tutte le genti”. “Ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”.
Contenuto della benedizione dunque è: “lunga vita”, “protezione”, “benevolenza”, “prosperità”, “pace”. Chi gode di queste cose è benedetto da Dio; è ben voluto da lui. Benedicendo, Dio impregna il creato, l’uomo e la storia del suo bene, orientandoli alla salvezza. Tutta la storia della salvezza è una storia di benedizione.
Collocata all’inizio dell’anno la formula di benedizione, così come viene espressa dal libro dei Numeri, diventa segno di speranza, aiutandoci a guardare le dure, amare e dolorose vicende della vita, alla luce della benedizione di Dio. In questo senso, come afferma san Paolo, “tutto concorre al bene per coloro che amano Dio” Rm 8,8). La benedizione costituisce allora una protezione divina, con la quale Dio intende difenderci e ripararci dal male, col suo amore tenero di Padre.
È in questa luce che vogliamo immaginare anche Maria: la più “benedetta fra le donne”, per la pienezza di grazia di cui è stato colmato il suo seno (cf. Lc 1, 42). Con lei la benedizione divina non è più volta solo ai beni materiali, come accadeva nella visione veterotestamentaria, ma soprattutto a quelli spirituali. Si tratta di venir rivestiti e colmati della sovrabbondante ricchezza dell’amore divino. In questo senso la formula: “Il Signore è con te” (Lc 1,28) che l’Angelo rivolge a Maria, al momento dell’Annunciazione, non è solo un saluto, e neppure solo un auspicio, ma la constatazione di una realtà. È l’accadimento di un evento, ovvero della presenza reale di Dio in una persona. A partire da lei la “pienezza di grazia” viene estesa anche a tutti coloro che condividono con lei la stessa fede nella Parola di Dio. Il che significa che anche noi, nella misura in cui crediamo alla Parola di Dio su di noi, diveniamo madre o padre spirituali, capaci cioè di generare Cristo nel grembo della Chiesa. È di questa grazia che siamo chiamati a colmare tutti gli ambiti della nostra vita sociale, riscattando la nostra umanità schiava del peccato, e a farlo fino alla pienezza dei tempi, quando Dio sarà tutto in tutti. Maria ci insegna dunque il segreto di ogni autentica maternità e paternità spirituale: custodire e meditare ogni Parola che Dio ci comunica per rendere feconde le nostre relazioni, affinché la sua presenza diventi visibile in mezzo a noi. Ecco allora il contenuto, specificamente cristiano, della benedizione di Dio: in Cristo “Dio ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale” (Ef 1,3), per portare ad ognuno la sua salvezza ed in lui partecipare della santità, della verità, della bontà, della bellezza tutta intera di Dio. A diventare in Lui causa di salvezza per l’altro. Esattamente come il significato del nome Gesù: “Dio salva”.
È importante perciò imparare a custodire (cf. Lc 2, 19) la sua Parola, quale germe della grazia che Dio pone nel nostro seno spirituale. Meditare la sua Parola significa allora cogliere il suo senso profondo e svilupparlo fino a farlo diventare origine e fonte di vita evangelica, quella che trasfigura ogni nostra relazione, rendendola riflesso della relazione trinitaria di Dio tra gli uomini.
Pertanto anche noi con lei vogliamo imparare a custodire la pienezza della grazia che già abita dentro di noi con l’eredità filiale lasciataci da Cristo. Grazie a Maria Dio ci ha fatto dono della filialità divina del suo Figlio, come mette bene in evidenza san Paolo nella sua lettera ai Galati: “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!”. Pertanto non siamo più schiavi, ma figli: “se poi figli, siamo anche eredi per volontà di Dio” (Gal 4,6-7).
Benedizione e filialità divina costituiscono allora i doni che Maria ci consegna e ci invita a custodire e a serbare nel segreto del nostro cuore, come i beni più preziosi della nostra fede e come il segreto della nostra gioia, per guardare con speranza al futuro della nostra vita.
[1] Il contenuto della benedizione viene comunemente espresso anche col termine augurio o auspicio. In realtà tra di essi vi è una sostanziale differenza: mentre la benedizione è un atto che Dio condivide con l’uomo, l’augurio è l’arte praticata dall’àugure, che era un sacerdote dell’antica Roma che aveva il compito di interpretare la volontà degli dei, attraverso l’osservazione dei segni con cui si manifestava. Inizialmente il segno era quello del volo degli uccelli: dalla loro tipologia, direzione, solitario o di gruppo e dai versi che emettevano. Più che predire la cosa da fare egli diceva se la scelta decisa riscontrava o meno l’approvazione degli dei. Successivamente l’àugure si dedicò anche all’interpretazione di altri segni, come: fulmini, lampi, tuoni, movimento dei quadrupedi e rettili, il modo di beccare dei polli. L’àugure praticava quest’arte tenendo in mano un bastone ricurvo a forma di punto interrogativo, detto lituo (dal latino litàre che significa offrire sacrifici agli dei, per ottenere auspici favorevoli). Esso veniva usato per segnare uno spazio nel cielo, così da creare un templum. Dal modo con cui gli uccelli passavano attraverso questo spazio si capiva se una determinata azione o decisione era gradita agli dei. La forma del lituo è molto simile a quella del pastorale dei vescovi.





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