06 Febbraio 2022 - Anno C - V Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 5 feb 2022
- Tempo di lettura: 8 min
Is 6,1-2a.3-8; Sal 137/138; 1Cor 15,1-11; Lc 5,1-11
Sulla tua parola:
la fede come fiducia

“Eccomi, manda me!” (Is 6,8) è la scelta che il profeta Isaia decide di compiere dopo aver fatto esperienza della “santità” di Dio nel tempio, alla cui luce prende coscienza della sua vocazione profetica. Rileggendo questa decisione dopo aver descritto, per due domeniche di seguito, l’amara e cocente delusione che Gesù sperimenta nella sinagoga di Nazaret, possiamo immaginare che non sarà stato facile per lui rinnovare il sì alla sua missione profetica. Rimettersi ad evangelizzare dopo un rifiuto così evidente è segno di una straordinaria fortezza e temperanza[1]. Solo chi come Isaia rimane impregnato dell’amore di Dio, può continuare ad amare l’uomo, malgrado la chiara ostilità[2]. Gli evangelisti non si soffermano a descrivere, sotto il profilo psicologico, esperienze di crisi, come quella vissuta da Gesù, ma a giudicare dalla conclusione del brano di Luca[3] (cf. Lc 4,30) e dal suo repentino ritorno a Cafarnao, dove riprende regolarmente a predicare e a insegnare nella sinagoga (cf. Lc 4,31-36); e soprattutto dal successivo racconto della chiamata dei primi discepoli (cf. Lc 5,1-11), si coglie la straordinaria capacità di Gesù nel superare le prove, come quella fallimentare di Nazaret[4]. Ed è appunto quest’ultimo episodio a darci l’idea della diversa recezione del messaggio evangelico di Cristo. Di contro, dunque, all’ostilità dei nazaretani, troviamo ora la generosa disponibilità all’ascolto dei primi discepoli.
Il contesto della pesca miracolosa entro cui Luca inserisce l’episodio della chiamata, presenta molte affinità con quello narrato da Giovanni dopo la Risurrezione di Cristo (cf. Gv 21,1-13). Anche in quel caso si assiste ad un nuovo inizio e ad una nuova chiamata, alla quale allude Giovanni con la vita nuova inaugurata dal Risorto. Non sappiamo quanto sia realmente accaduto il miracolo della pesca miracolosa, se prima o dopo la Risurrezione di Gesù, sta di fatto che Luca lo colloca nel contesto della chiamata dei primi discepoli, come a volerci offrire la chiave di lettura dell’esperienza di fede alla quale egli ci invita. Cecheremo di commentare questo episodio, comparandolo con quello della vocazione profetica di Isaia.
Isaia ci dice che la sua vocazione accade all’interno del tempio (cf. Is 6,1), praticamente in un contesto liturgico-sacrale, e la descrive con un linguaggio teofanico (manifestazione, visione di Dio), teso a evidenziare la trascendenza di Dio, attraverso la descrizione dei serafini che ne proclamano la “santità” (cf. Is 6,3). La presenza di Dio non solo colma il tempio, ma trasborda dalle mura, per riempire anche la terra della sua gloria. Gli elementi del “fumo” e della “voce” sottolineano il carattere misterioso e rivelativo della manifestazione divina. A partire da quella visione Isaia – come abbiamo già accennato – prende coscienza della sua chiamata profetica. Egli capisce di essere la bocca stessa di Dio, attraverso la quale questi comunica la sua volontà. Da qui la responsabilità e l’esigenza di purificarla. Un atto che viene compiuto per mezzo di un carbone ardente, posto direttamente da un serafino sulle sue labbra. Questa annotazione di Isaia assume qui una valenza simbolica e ci consente di capire lo specifico della vocazione profetica: egli è per definizione colui che parla (phēmi) a favore (pro), o a nome, di Dio, come si evince dal significato del termine “profeta”. Da questo episodio si capisce la particolare rivelazione biblica: prima ancora che rivelare il suo volto Dio rivela la sua parola. Prima ancora che “visiva” la rivelazione biblica è “uditiva”. Lo specifico di Jhavéh è quello di manifestarsi parlando. Egli non fa vedere il suo volto – come aveva chiesto Mosè (cf. Es 33,17-19) – ma si rivela attraverso la sua Parola, con la quale esplicita la sua volontà[5].
Ma qual è la volontà che Dio manifesta attraverso la parola dei profeti? Come si fa a conoscerla? Come parla a ciascuno di noi? E soprattutto come ci fa capire la nostra vocazione? Sono le domande alle quali la stragrande maggioranza dei cristiani trova difficile dare una risposta. Eppure la Bibbia è costellata di brani che ne chiariscono il contenuto. Basta predisporsi a coglierla creando quel clima relazionale con Dio, all’interno del quale egli ci comunica la sua intimità più profonda, esattamente come accade per ciascuno di noi, quando ci apriamo solo a chi condivide con noi un rapporto di fiducia reciproca e profonda. Isaia per esempio ci fa capire che la volontà di Dio su di lui consiste in primo luogo nel partecipare alla vita d’amore di Dio, che lui traduce in termini di “santità”. È nella luce di questa esperienza d’amore che Isaia, alla domanda di Dio: “Chi manderò e chi andrà per noi?, risponde: “Eccomi, manda me” (Is 6, 8), come a sottolineare la totale disponibilità e generosità a divulgare e a realizzare nel mondo il piano salvifico di Dio. Pertanto, fare la volontà di Dio non significa eseguire il comando di un tiranno, la cui intenzione è quella di assoggettare gli uomini a sé o ridurli solo ad esecutori dei propri piani; ma significa provare, come Isaia, quel desiderio intimo e profondo di Dio, che porta a condividere con gli altri la sua personale esperienza d’amore. Il senso della vocazione è tutto qui. Esattamente come Dio fa attraverso Gesù, il quale ci dice che la prima volontà di Dio è quella vederci persone libere[6], ovvero redente dal suo amore (cf. Gv 6,37-40).
Nell’episodio evangelico descritto da Luca assistiamo, invece, a un radicale rinnovamento della chiamata di Dio. Se quella di Isaia era collocata nello spazio liturgico del tempio, ora essa accade lungo la riva del lago di Genesaret, praticamente nel contesto della vita quotidiana. E mentre quella di Isaia avviene per mezzo di una “teofania”, ora essa accade per mezzo di Gesù. È attraverso di lui che Dio chiama e rende partecipe gli uomini della sua volontà. Con Gesù Dio non si lascia solo ascoltare, come nel caso di Isaia, ma si fa addirittura vedere, sia pure attraverso le sembianze umane[7].
Ma proviamo a vedere da vicino la particolare esperienza di fede che Gesù fa fare a Pietro. Gesù sta predicando lungo la riva del lago di Genesaret. La gente piano piano comincia a circondarlo, attratta com’era dalla sua parola. Ognuno, nel tentativo di ascoltarlo meglio, si accosta a lui, e lo fa come accade in queste circostanze: spingendo e facendosi largo con le braccia. Scoppia così una ressa che Gesù cerca di sedare come può, finché vede due barche ormeggiate alla riva e chiede di salire su una di esse, così da farsi vedere e udire da tutti. Questa barca era di Pietro che, rientrato da poco dalla pesca, era ancora intendo, insieme ai suoi soci, a lavare e riassettare le reti. Nonostante tutta la fatica e la delusione di una pesca fallimentare, Pietro si rende disponibile alla richiesta di Gesù. Anzi la cosa comincia a entusiasmarlo. Mai si sarebbe aspettato che un maestro come Gesù gli avesse chiesto addirittura di salire sulla sua barca. Questa inaspettata richiesta gli cambia improvvisamente l’umore. All’improvviso lo sconforto e la stanchezza di una notte passata infruttuosa sembrano svanire. Alla tristezza subentra l’entusiasmo. In questo rinnovato ed inaspettato momento Pietro comincia pure lui, senza volerlo, ad ascoltare la voce di Gesù. La cosa si rivela intrigante. Ma quando tutto sembra andare per il meglio, Gesù gli rivolge un’ulteriore richiesta che interrompe improvvisamente il suo ritrovato entusiasmo: “Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca” (Lc 5,4). Un’istanza inattesa e apparentemente assurda che si rivela particolarmente imbarazzante. Anzi lo espone addirittura al ridicolo. Nessun pescatore getta le reti di giorno. Cosa fare? Ci si guarda l’un l’altro, rimanendo indecisi. Pietro cerca di rompere quel pesante silenzio generato dalla richiesta di Gesù e avanza una giustificazione: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5). Ma intuisce che non può sottrarsi alla provocazione di Gesù. Una serie di rapidi sentimenti si susseguono e si accavallano dentro di lui. Ma alla fine decide di lasciarsi mettere in gioco da quella parola: “Getta le reti”. Per lui quella parola di Gesù risuona come una voce che gli dice: getta le tue fatiche, lancia in Dio le tue preoccupazioni e fidati. Ne scaturisce un’esperienza di fede che Luca sintetizza e formula in questi termini: “Sulla tua parola getterò le reti”. Una formula che è un capolavoro di letteratura spirituale, che rivela tutta la disponibilità e la generosità di Pietro, assai simile a quella manifestata da Isaia: “Eccomi, manda me!”.
Questa esperienza segna la vita di Pietro e dà una sterzata alla sua esistenza. Gesù gli prospetta una nuova vita, risignificando in modo radicale il suo lavoro: “D’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5,10). Proviamo a soffermarci su questo particolare. Cosa fa Gesù? Prima di chiedergli di lasciare tutto per lui, gli fa fare un’esperienza dell’amore di Dio, che si manifesta nella forma della pesca miracolosa, alla cui luce Pietro prende coscienza del suo peccato: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. È in questo rinnovato orizzonte d’amore divino che Gesù gli trasfigura l’esistenza, senza stravolgerla: Pietro continua a essere pescatore, ma pescatore di uomini. Ecco il senso autentico della metanoia, ovvero della conversione: cambiare modo di pensare senza smettere di pensare. Pietro, pur conservando la mentalità di pescatore, comincia a pensare in modo nuovo, ad avere una nuova visione della vita. Quell’abbondanza di pesce gli fa intuire l’infinito amore che Dio prova per lui. Egli, che fino ad allora aveva proiettato tutto il suo futuro nella pesca, ora capisce che è Cristo il “tutto” della sua vita. Gesù diventa l’assoluto a cui dedicarsi totalmente. Cristo diventa la pienezza e il compimento della sua esistenza.
Senza questa eccedenza d’amore diventa difficile rimanere fedele alla chiamata di Dio. Chiediamo perciò, con san Paolo, la grazia di riversarla anche nei nostri cuori (cf. Rm 5,5).
[1]Rimanere saldi e fedeli alla propria chiamata (cf. 1Cor 15,1), specie nei momenti più bui delle crisi, è indice di maturità spirituale. Fedeltà e solidità nella fede e ciò a cui anche noi, come Gesù, siamo chiamati in questo particolare momento di prova ecclesiale che stiamo attraversando. [2]I Vangeli non ci raccontano episodi precisi della chiamata di Gesù, alla maniera di quella di Isaia (cf.Is 6,1-8), Geremia (cf. Ger 1,4-10.17-19), Ezechiele (cf. Ez 1,1-28), ma ci parlano di un’intensa relazione d’amore che egli vive quotidianamente col Padre, da essere con lui una sola cosa (cf. Gv 10,30). Questa unità d’amore è ciò che giustifica l’infinita compassione e solidarietà che lui nutre per la gente (cf. Mt 5,7; 9,35-36; 14,13-14; 15,32). [3] “Gesù passando in mezzo a loro se ne andò” (Lc 4,30). [4] Egli, a differenza nostra, è, per così dire, così concentrato a tenere lo sguardo fisso su Dio (cf. Eb 12,2) da non avere tempo per l’io. [5] Si capisce allora la ragione per cui Cristo viene definito “Verbo”: mentre il profeta parla a nome di Dio, Cristo è la “Parola” stessa di Dio. [6] Quando la volontà di Dio viene percepita come costrizione una costrizione è indice che non si è ancora fatto un’autentica esperienza d’amore divino. Tradotto in un linguaggio figurato, significa che non è ancora uscito dall’Egitto (schiavitù del peccato), non ha ancora attraversato il Mar Rosso (morto a se stesso, al proprio egocentrismo), e non è ancora entrato nella terra promessa (comunione con Dio). [7] L’autore della lettera agli Ebrei ci parla di un crescente rivelativo di Dio che da Abramo, attraverso Mosè e i profeti, si è definitivamente compiuto in Cristo (cf. Eb 1,1-4), il quale rende pienamente manifesta la volontà di Dio, ovvero il piano salvifico col quale ha inteso redimere gli uomini.




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