1 Novembre 2021 - Solennità di Tutti i Santi Anno B
- don luigi
- 31 ott 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Ap 7,2-4.9-14; Sal 23/24; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12
La santità: un’ideale di vita ancora attuale?

La Chiesa ci fa celebrare, oggi, in un unico giorno, la solennità di tutti i Santi, come un autentico momento di comunione, tra coloro che partecipano già della vita gloriosa di Cristo e noi che ci ritroviamo ad essere ancora ‘affaticati pellegrini’, nella difficile realtà del mondo. Non è facile cogliere il senso originario e profondo di questa festa, specie nell’attuale contesto sociale, profondamente intriso di una cultura individualista, materialista ed edonista che, in diversi modi e forme, si insinua e insidia anche la nostra vita di fede, tanto da indurci a considerare la santità come una realtà utopistica o fuori luogo. È opportuno perciò richiamare alla memoria le ragioni che hanno portato la Chiesa ad istituirla, per capire il rapporto che essa ha con la nostra vita spirituale, e le possibili conseguenze su quella culturale e sociale.
La sua origine risale al VI secolo, quando il papa Bonifacio IV, su autorizzazione dell’Imperatore Foca, trasformò il Pantheon – il tempio dedicato a tutti gli dei – in una chiesa consacrata a tutti i Santi e a Maria. Questo episodio divenne nel tempo l’espressione del passaggio dalla religiosità pagana a quella cristiana. L’incidenza del cristianesimo nei vari ambiti della vita sociale andava radicalmente trasformando la visione culturale e religiosa della vita. Questo processo ha continuato, non senza ostacoli, nel corso dei secoli, fino a determinare una vera e propria visione cristiana del mondo, che a livello sociale ha dato origine ad un progetto che va sotto il nome di “cristianità”, in vista del quale si è cercato di organizzare la vita del mondo come un riflesso di quella divina. Ma sia pure suggestivo e nobile nelle intenzioni il progetto ha avuto spesso una traduzione pratica non sempre all’altezza. La logica politica che ne ha accompagnato la realizzazione ha finito, in diverse circostanze, per strumentalizzare persino la stessa fede a fini puramente terreni. L’avvento della laicità, nel tempo moderno, ne ha poi decretato la fine, tanto che, oggi, assistiamo addirittura a fenomeni, come halloween, che sembrano invertire la rotta verso un ritorno al passato pagano. Ed è proprio alla luce di questa rivalsa culturale che si avverte più che mai l’esigenza di mettere a fuoco il senso della santità che scaturisce dalla nostra celebrazione, per capire se essa risponde ancora alle istanze esistenziali dell’uomo contemporaneo; se costituisce realmente uno stile di vita credibile e alternativo a quello immanente della nostra cultura; e quindi in che termini essa può essere tradotta nell’attuale vita relazionale. Si rivela allora fondamentale cogliere lo specifico del suo significato evangelico, senza il quale, tutti gli sforzi personali e sociali rischiano di rivelarsi fallimentari.
Volendo sintetizzare questo discorso in una domanda, potremmo chiederci: è ancora attuale la santità? A giudicare dalle recenti beatificazioni, per altro di giovani tra i giovani, saremmo portati a rispondere di sì, e la cosa si rivela assai gratificante se pensiamo ai numerosi giudizi negativi che si hanno dei giovani, eppure non possiamo esimerci dal constatare la fatica che un simile ideale di vita riscontra nel nostro vissuto quotidiano personale e perfino ecclesiale. Il rischio rimane sempre quello di un ideale di vita suggestivo, ma fatto solo per pochi eletti. Lo scopo di questa festa invece è quello di fare da lievito nel mondo affinché tutta l’umanità sia fermentata dall’amore divino. Naturalmente per farlo è importante cogliere il senso della logica evangelica, per evitare di incorrere nello stesso errore politico della cristianità. Questa logica è quella del chicco di grano (cf. Gv 12, 24s), secondo la quale solo chi muore a se stesso e ai proprio progetti egemonici religiosi, può dare origine alla vita in Cristo.
Più che un ideale umano la santità è una chiamata di Dio, che lui stesso formula in questi termini: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo” (Lv 19, 2). La santità dunque definisce la natura di Dio, come sottolinea anche il profeta Isaia che ne percepisce la presenza, al momento della sua chiamata nel tempio: “Santo, santo, santo … tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6, 3). La santità, pur essendo una qualità propria di Dio, non viene custodita da lui come un tesoro geloso, al contrario la manifesta e la rende partecipe ad ogni creatura. Ma qual è l’essenza della santità di Dio? Cosa la qualifica? L’evangelista Giovanni quando cerca di rispondere a questa domanda dice che: “Dio è amore” (1Gv 4, 8). L’amore dunque è ciò che qualifica la santità di Dio: Dio è santo perché è amore. In questa prospettiva chiunque si accinge a vivere la propria vita nell’ottica dell’amore divino, conforma la propria esistenza alla santità di Dio, divenendo, come già affermato dal libro del Levitico, santo come lui è santo.
Gesù riprende e traduce questa formula in: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Nella visione di Gesù la santità si stempera nella vita come una tensione esistenziale verso la perfezione di Dio. È interessante notare come egli, nonostante disponesse della coscienza della sua divinità, orienti l’attenzione del discepolo non su di sé, ma sul Padre che è nei cieli. Egli non dice alla maniera paolina: “Fatevi miei imitatori” (cf. 1Cor 11, 1), ma imitate la perfezione del Padre, come a considerarla il principio, il senso e il fine della loro santità. Egli si mette, per così dire, da parte, affinché il Padre sia il “Tutto” della vita dei suoi discepoli. È questa tensione estatica verso il Padre alla base della fede, e del cammino di santità, senza la quale nessuno sarebbe in grado di uscire da sé, dal proprio egocentrismo, egotismo e individualismo. Una simile tensione necessita perciò di un esodo continuo verso la vita relazionale del Padre, proposta da Gesù come la condizione più originaria e autentica della vita umana, la cui comunione con lui si dischiude come un cammino d’amore salvifico. La santità si delinea così come un graduale cammino di trasfigurazione della realtà umana – con tutto ciò che essa comporta – e di conformazione a quella divina. In questo senso essa non si riduce ad essere solo un atto di purificazione morale, ma costituisce essenzialmente un movimento verso l’amore di Dio e una sua progressiva assunzione nella propria vita. In altre parole, il discepolo diviene santo non tanto perché si allontana dal peccato, per mezzo delle sue virtù, ma si allontana dal peccato perché, amato da Dio, si lascia impregnare del suo amore salvifico. È l’amore di Dio che purifica e santifica. Il santo non è un eroe nel pieno esercizio delle sue virtù eccezionali, ma una persona pienamente consapevole delle sue fragilità, che sperimenta, nel proprio vissuto quotidiano, la straordinaria forza della Parola di Dio, che gli consente di trasformare i propri limiti personali in occasioni di superamento di sé. In questo senso le virtù non sono dimostrazioni della sua eroicità, ma segni della reale azione dello Spirito in lui. Egli è colui che lascia fermentare l’amore di Dio nel proprio cuore. Santo è chi fa spazio nel proprio io all’io di Cristo. Esattamente come fa Paolo, quando afferma: “non sono più io che vivo, ma Cristo in me” (Gal 2, 20). Egli muore al peccato passando attraverso la grande prova della tribolazione, lavando le vesti della sua identità personale, della sua mentalità, dei suoi affetti, delle sue relazioni, della sua visione culturale e religiosa, rendendole candide col sangue dell’Agnello, come afferma Giovanni nel libro dell’Apocalisse (cf. Ap 7, 13ss). Infatti egli si scopre giustificato non per mezzo delle opere virtuose che compie, ma grazie all’amore che lo Spirito riversa nel suo cuore attraverso la fede in Cristo (cf. Rm 5, 5). La santità non è un evento divino che accade in un preciso momento storico, semmai questo è l’inizio, ma un processo che si distende lungo tutto l’arco della nostra vita, come una vera e propria conversione alla mentalità evangelica di Cristo. Un simile processo non comporta affatto una riduzione o perdita della dimensione umana a favore di quella divina, al contrario ne consente la pienezza e compimento. Si tratta perciò di impregnare l’amore umano di quello divino, secondo le modalità suggerite da Maria alle nozze di Cana (cf. Gv 2, 1-25). Divenire santi significa perciò lasciarsi progressivamente impregnare della Grazia, che Dio effonde su di noi per mezzo dello Spirito, così che ogni ambito della vita personale e relazionale, perfino quello più increscioso del peccato, diventi un riflesso di quella trinitaria.
Si capisce allora perché Gesù considera la povertà, l’afflizione, la mitezza, la fame, la misericordia, la purezza di cuore, il desiderio di pace e di giustizia e perfino la persecuzione che abitualmente detestiamo, non come circostanze limiti, ma paradossalmente, come motivi di beatitudine. In questo senso la povertà lungi dall’essere ridotta a una forma di indigenza umana, costituisce la condizione fondamentale per acquisire l’autentico spirito evangelico, come giustamente fa notare l’aggiunta di Matteo rispetto alla stessa beatitudine descritta da Luca: “Beati i poveri in spirito” (cf. Mt 5, 3; cf. Lc 6, 20). Il povero in spirito non è tanto l’indigente materiale, ma chi si mostra docile all’azione dello Spirito di Dio. E così gli afflitti (cf. Mt 5, 4) non sono tanto coloro che sperimentano sulla propria pelle le conseguenze dell’ingiustizia e della prepotenza umana, quanto coloro che nutrono nel cuore la certezza che Dio costituirà per loro la consolazione più grande. Così anche i miti (cf. Mt 5, 5), non sono coloro che si lasciano coinvolgere dall’avidità del potere, dal piacere del successo o dalla conquista della fama, o nutrono il desiderio di rivalsa personale e sociale, ma coloro che pongono tutta la loro speranza nella logica evangelica del granello di senape, secondo la quale Dio “disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote (cf. Lc 1, 51-53). Il mite è colui che vive secondo il detto di Gesù: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?” (Lc 9, 25). E così anche gli operatori della giustizia e della pace (cf. Mt 5, 6.9.10), più che idealisti che conseguono sogni utopistici, sono coloro che credono fortemente nella logica relazionale del Regno di Dio. E ancora i misericordiosi (cf. Mt 5, 7), non sono affatto i deboli, ma coloro che elargiscono con eccedenza l’amore di Dio che vive in essi. E quindi i puri (cf. Mt 5, 8) che solitamente il mondo considera ingenui, sono coloro che più di tutti sanno scorgere la presenza operante di Dio nelle vicende della vita e della storia.
Il paradosso, tuttavia più evidente, di questa prospettiva evangelica descritta da Gesù, sta nella prova più estrema, alla quale chiede ai suoi discepoli di sottoporsi: la persecuzione: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia e del vangelo” (Mt 5, 11). Questa, ancora più delle altre, costituisce per Gesù motivo di gioia ed esultanza, esattamente come testimoniano Pietro e gli altri apostoli, al termine del processo: “Essi se ne andarono dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (At 5, 41).
Si deduce dunque che il santo descritto da questa pagina evangelica, non è affatto colui che vive avulso dalla realtà sociale e culturale del mondo, al contrario è colui che vive le circostanze dolorose della vita, animato dalla speranza evangelica, per mezzo della quale egli purifica non solo se stesso (cf. 1Gv 3, 3), ma trasfigura, dall’interno, la realtà che lo circonda, rivelando la vera realtà alla quale ogni persona umana è chiamata e che l’apostolo Giovanni sintetizza ed esprime in modo emblematico in questo passo della sua prima lettera: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3, 1-2). Mi piace concludere questa considerazione sul santo con una straordinaria intuizione di C. Lubich, che ne sottolinea la costante attualità nella storia: Il santo è Cristo dispiegato nel tempo.




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