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Senza parole

Aggiornamento: 10 set

Cenacolo poetico


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Senza parole

 

All’imbrunir del giorno

mi ritrovo così:

senza parole,

tra le dune inaridite

del mio cuore.

E anche questo

è fare poesia:

quando, nel silenzio,

trovo l’essenza mia

nel mondo.

 

 Luigi Razzano


Iconologia poetica


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Senza parole è una poesia che fa luce su una provvisoria condizione di inaridimento lessicale dell’autore. Un autentico paradosso per chi, come il poeta, chiamato all’arte della parola, si ritrova improvvisamente afasico, privo cioè della capacità di comunicare con le parole. Questa situazione, tuttavia, lungi dal procurargli sconforto e abbattimento morale, si rivela un filone fecondo nel suo percorso poetico che lo apre a una vera e propria avventura mistica. Come non mai il silenzio diventa per lui il luogo e il linguaggio più eloquente per fare poesia.  

In realtà “Senza parole” è una formula che abbiamo già incontrato nel repertorio dell’autore e precisamente in un componimento che dà il titolo all’omonima poesia, nella quale l’autore, facendosi interprete di chi viene sedotto dall’amata, si scopre “senza parole” per esprimere l’amore che prova per lei. In questo caso invece la formula assume un significato ben diverso e più profondo: simile per dramma a quello del profeta, che chiamato a parlare in nome di Dio, scopre di non disporre delle parole adatte a comunicare la Parola divina. La ragione per cui egli rimane “senza parole”, non dipende più dall’indicibilità dell’amore per l’amata, ma dall’ineffabilità del silenzio di cui si ritrova a fare esperienza. In entrambi i casi egli rimane attonito, muto dinanzi all’evento inatteso che lo coinvolge personalmente. Una sorta di trasposizione in ambito letterario di quella che a livello teologico viene definita kenosi [1] del Verbo, secondo la quale egli “pur essendo di natura divina … svuotò se stesso per farsi parola umana” (cf. Fil 2,6-7), il che tradotto a livello poetico significa spogliarsi di tutte le prerogative letterarie per dire la dimensione del silenzio divino. Coinvolto in una simile situazione il poeta scopre il limite della sua arte poetica, e intuisce che non ha altro modo di adoperare la parola se non quello di farsi egli stesso poesia.

Una condizione la sua paragonabile alla kenosi artistica, dove l’immagine cede il passo alla forma informe, la luce all’oscurità e il colore al cromatismo acromatico, come attestano, per esempio, l’arte astratta di Vasilij Vasil’evič Kandinskij e la Rothko Chapel, dell’omonimo artista newyorkese. Parola e immagine si fanno, per così dire, da parte, per lasciare emergere la dimensione ineffabile e invisibile del Mistero, attuando in questo modo quella dinamica comunicativa di Dio che viene solitamente definita “rivelazione mistica”. Alla luce di queste premesse ci si aspetterebbe una poesia silenziosa, afasica e afona, perché – come l’autore afferma in altri contesti – “il silenzio si dice in silenzio”, (cf. Silenzio), e invece, egli ci sorprende con la sua intuizione creativa: “E anche questo / è fare poesia”. Lungi dall’essere un luogo privo di suoni il silenzio gli favorisce le condizioni per entrare in relazione col suo spazio interiore e mettersi in ascolto della sua anima, fino a renderlo partecipe della dimensione divina che alberga dentro di lui. Si tratta di un silenzio fecondo, nel quale egli scopre il senso della sua esistenza “nel mondo”. Ne deriva comunque una poesia breve, sobria come lo sono quelle che scaturiscono dalla sua poetica, dove il silenzio costituisce un tema ricorrente. E in effetti tali dovrebbero le poesie che si accingono a dire il silenzio

Anche in questo caso l’autore non manca di condividere la sua personale condizione esistenziale, come quella che egli si ritrova a sperimentare in prossimità del porto di Trani, a ridosso della costa frastagliata della Villa-Giardino, dove il poeta si reca quotidianamente per passeggiare durante le vacanze. Una sera di agosto, s’accorge di faticare a trovare le parole per esprimere in versi quello che stava accadendo in lui, e malgrado i numerosi tentativi, s’accorge che quelle che gli vengono alla memoria si rivelano parole sterili, sbiadite, vuote, inespressive, come prive di senso. Il silenzio che lo avvolge pare privarlo della sua creatività e manifestargli tutta la sua fragilità, letteraria, espressiva e comunicativa. Ed era lì lì in procinto di arrendersi, finché – accettando questa paradossale condizione poetica – capì che era giunto il momento di lasciarsi andare e cedere al silenzio la possibilità di dirsi.

 

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[1] Kenosis è un termine greco che significa “svuotamento”. Di solito in abito teologico viene usato per esprimere la dimensione mistica della fede cristiana.

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