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Mistica sera

Cenacolo poetico



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Mistica sera

 

Sovente la sera,

quando l’aria s’imbrunisce,

e il cuore mio s’accasa,

me ne sto, silente,

ad osservare il cielo,

mentre, sommesso,

declina i suoi colori.

E lì, in quell’orizzonte

vasto e sconfinato,

dove l’anima s’indora,

di Lui mi ritrovo

ad ascoltar la voce

che sale in me spirando.

Che mai sarà

questo moto mistico d’amore

che, non di rado, mi sovviene

a quest’ora della sera?

E qui, in questa voce arcana

mia del cuore

mi pare di sentire

la sua Parola

che sussurrando

ancora una volta

nell’oggi mi ripete: “Vieni!”.

E repentino

l’io mio s’indìa

nell’io suo di Verbo.

 

 Luigi Razzano

 


Iconologia poetica

 

Ritorna in questa poesia il tema della sera, ma ancora più che ne L’ora dell’ascolto essa si rivela in questo caso, luogo di un’esperienza mistica, da cui il titolo: Mistica sera, dove il poeta pare raggiungere una tale profondità e unità col Divino, da veder combaciare il suo io con quello di Dio, fino ad assistere ad una vera e propria identificazione spirituale, espressa con un termine alquanto nuovo e ardito: “Indiare”[1] che evidenzia una licenza mistica oltre che poetica: “l’io mio s’Indìa / nell’io suo di Verbo”. Indiare è lo stesso che dire divinizzare, processo trasfigurativo che il poeta ritiene possibile grazie all’Evento Incarnativo del Verbo, il quale facendosi uomo ha permesso a ciascuno di partecipare della sua natura divina (cf. 2Pt 1,4). Un’identificazione quella tratteggiata dal poeta nella quale echeggia quella di Paolo quando, grazie all’unità raggiunta attraverso la partecipazione alla sofferenza di Cristo, giunge a dire: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).  

Si tratta, ancora una volta, di un’esperienza dove la natura – nello specifico spettacolo cromatico del tramonto - viene percepita come luogo evocativo del Divino, della cui presenza l’anima del poeta assimila i suoi colori: “E lì, in quell’orizzonte / vasto e sconfinato, / dove l’anima s’indora”, dove, cioè, l’anima si lascia attraversare dallo stesso processo purificativo al quale viene sottoposto l’oro nel crogiolo, fino a lasciarne emergere l’essenza. Così purificata, essa diventa capace di vedere Dio, come dice Gesù nel Discorso delle Beatitudini: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Assimilato lo sguardo di Dio il poeta scorgere in quella “voce arcana” che “sale spirando” dalle profondità “del cuore”, la presenza della “Parola” di Dio “che sussurrando / ancora una volta / nell’oggi” gli “ripete: “Vieni!”, come a voler renderlo partecipe di quella dimora divina che Gesù esprime nella sua preghiera: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23) e che il poeta esprime in termini di “moto mistico d’amore” che “sovente” ha modo di sperimentare nella sua comunione con la natura, e in particolare “la sera, / quando l’aria s’imbrunisce / e il cuore” suo “s’accasa”, predisponendosi, in questo modo, all’ascolto, mentre “silente” se ne sta “ad osservare il cielo”.

 


[1] Il termine si riferisce a quello usato da C. Lubich, che il poeta ha avuto modo di sentire durante uno dei commenti alle sue esperienze mistiche.

 

 
 
 

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