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Lettera ad Artefila“ Della materia spirituale dell’arte”

Una rilettura critica della mostra temporanea al Maxxi di Roma

17 ottobre 2019 – 8 marzo 2020


di Luigi Razzano

Cara Artefila,

voglio condividere con te ciò che la mostra ha suscitato in me. Spero di riuscire ad esprimere con ordine i sentimenti profondi e contrastanti che ho provato durante la visita e che si sono susseguiti anche successivamente, ora come una provocazione, ora come una sfida, ora come uno stimolo. E colgo questo sforzo come un impegno affine a quello espresso dagli artisti: perciò consentimi di esternarti il modo con cui anche io mi sforzo di comunicare e tradurre in arte la mia esperienza spirituale. Mi piace condividere con te queste considerazioni, perciò accogliele come meglio puoi.

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Intanto ti sono grato per l’invito che mi hai rivolto a visitare insieme a te questa mostra e nel farlo ti esterno anche la stima per avermi dato la possibilità di comunicare su aspetti così profondi e impegnativi, come quelli affrontati prima e durante la visita. Ho sperimentato gioia per la comunione, coscienza critica e coraggio che ciascuno di noi ha mostrato nel rimanere autenticamente se stessi, anche quando si è trattato di dover dire all’altro punti di vista diversi e di averli esposti con ragione e senza mezzi termini. Insomma è stata una bella esperienza di unità intellettuale e spirituale.

Per ciò che riguarda la mostra ti ribadisco quello che ci siamo detti già leggendo la didascalia introduttiva, in merito al doveroso apprezzamento del curatore per aver avuto il coraggio di affrontare il tema Della materia spirituale nell’arte, e più specificamente del sacro, dopo secoli di eclissi ed esilio culturale. Una riconsiderazione che riflette, a mio avviso, un rinnovato e più maturo approccio ad una dimensione che si riteneva superata ed estinta, dopo l’avvento della stagione razionale inaugurata dall’Illuminismo. Dio non è affatto morto! Ancor meno la dimensione spirituale dell’arte. A ripensarci l’arte ha una dimensione spirituale intrinseca, anche quando non si manifesta direttamente in termini, forme, linguaggi e temi sacri. Questa mostra significa più di quanto essa mostra, se non altro per il particolare momento culturale e artistico nel quale è stata realizzata. E registra segnali di speranza che malgrado tutto si vanno tessendo nel mondo ed emergono con forza dalle opere degli artisti. Certo si tratta di messaggi che necessitano di essere interpretati e perciò lasciano aperta una domanda: perché è stata fatta una simile mostra? La risposta giustifica la ragione di questa mia conversazione con te.

Non posso perciò esimermi dal ribadirti alcune mie considerazioni. Il percorso che il visitatore viene invitato a seguire è tracciato da una visione dello spirituale dove risuonano, in modo abbastanza evidenti, echi di kandiskjiana memoria. Sorprende, come ti dicevo, che si torni a parlare di spirituale, ma di quale spirituale? Eh già, questa è la domanda principale che suscita in un visitatore come me, una simile mostra. Quali punti di convergenza con lo spirituale della nostra tradizione artistica e culturale? Poiché di fatto essa è stata realizzata in una realtà sociale e culturale - come Roma - dove, al di là di alcune dubbie espressioni, s’intersecano ancora vive le falde dello spirituale cristiano. Che impatto ha con esso? Risulta subito evidente, infatti, che quello della mostra è uno spirituale ancora molto arcaico, fortemente legato alle esperienze ancestrali, originarie e primitive dell’uomo, mentre quello cristiano è totalmente lasciato in ombra, se non in alcuni indizi sporadici. Come mai questa evidente emarginazione? Che forse non rientra nell’ambito dello spirito umano? Eppure nessuno può mettere in dubbio la forte incidenza che esso ha avuto nel percorso artistico italiano, europeo e mondiale, in questi due millenni di storia e di storia dell’arte. Di cosa è cifra questo tacito tentativo che fa dello spirituale cristiano una sorta di tabù? È forse un modo per manifestare la crisi di rigetto che si manifesta più estesamente a livello culturale e sociale? O non piuttosto un tentativo di liberarsi di quelle sovrastrutture spiritualistiche e culturali che l’hanno incrostato e ingessato in questi secoli? Se cosi fosse allora che ben vengano tutte le forme di purificazioni che la misteriosa regia di Dio mette in atto nella storia, anche attraverso le scelte apparentemente lontane degli artisti. Si tratta dunque di un tentativo di ritorno all’origine come di solito accade ogni qualvolta l’arte si ritrova ad un giro di boa? Ma questa volta, com’è evidente non si tratta solo di una virata, bensì di una vera e propria sterzata esistenziale, o come si suole dire oggi, di svolta epocale. In questo senso ritengo importante lo sforzo, attualmente messo in atto nell’arte, di volgere lo sguardo alle radici dell’esperienza spirituale in genere e di quella artistica in particolare, per capire bene il senso da cui siamo partiti e quello verso il quale intendiamo volgerci. Mi auguro che la mostra sia un modo per fare il punto in questo senso. Almeno spero. Mi auguro che non sia una semplice foto che ritrae gli sviluppi rizomatici dello spirituale nel panorama culturale contemporaneo.

A ben guardare ogni qualvolta che siamo chiamati a compiere delle scelte determinanti a livello esistenziali, veniamo sempre ricondotti all’origine della nostra esistenza, come a voler fare una sorta di ricognizione storica, da parte della nostra memoria, delle nostre esperienze esistenziali originarie, fondamentali. È in questo fare memoria del nostro passato originario ed arcaico che cominciamo a cogliere il senso di tante esperienze spirituale attuali che sia pure sotto forme e linguaggi diversi, persistono e catturano la nostra attenzione nell’oggi culturale. È evidente che non si tratta solo di fare memoria, ma anche di cogliere il significato che esse conferiscono alla nostra vita. Da qui anche il dovere di una coscienza critica che ci consente di valutare e discernere cosa di esse è opportuno liberarsi e cosa invece occorre custodire, meditare, interpretare e riformulare per l’oggi artistico e per il vissuto esistenziale.

Nel procedere verso questo tentativo credo sia importante stimare nei confronti dello spirituale, trascendente e del sacro in particolare, quell’atteggiamento di timore e rispetto – evidenziati da R. Otto ne Il sacro – che ha da sempre caratterizzato l’uomo in rapporto al Divino. Questo tentativo l’ho percepito nella parte iniziale della mostra, almeno come intenzione da parte del curatore, che ha cercato di creare quel clima originario dello spirituale anche sotto l’aspetto sonoro, luminoso e grammaticale. Ritengo che questo clima, corredato dai relativi sentimenti siano fondamentali se s’intende cogliere la dimensione autentica del sacro. Sentimenti che non sempre è facile riscontrare nella nostra mentalità, sempre tesa alla padronanza e alla riduzione dell’Altro a sé. Anche i riti che pure potrebbero essere intesi come luoghi e modi per esorcizzare, propiziarsi e partecipare della benevolenza di Dio, non possono mai giungere alla padronanza del divino. Ancora meno questo è possibile con la ragione, con la quale l’uomo di tutti i tempi e ancor più quello moderno, ha cercato e cerca di possedere il mistero di Dio, per sfuggire al suo ‘dominio’ ed influsso. A dire il vero, a tratti ho come avuto la sensazione che la ragione dominasse anche nella regia di questa mostra, determinando una sorta di sincretismo, per altro tipico della cultura attuale, con la quale, senza volerlo (?) di fatto si cerca di unificare, rischiando di svuotarle dal di dentro, le diverse esperienze spirituali.

Ne scaturisce un concetto di spirituale pulito, puro – come tu dici – ma a mio avviso troppo astratto e disincarnato, troppo avulso dalla realtà; capace anche di raggiungere vette altissime e forme di limpido misticismo – come anche nel caso dei tagli di Fontana o le campiture di Rothco – ma incapace di umanizzare; se vogliamo capace perfino di trascendere l’uomo, ma non di redimerlo. Un concetto perciò più filosofico che teologico, più spiritualista che spirituale. In altre parole ne scaturisce la visione di uno spirituale rizomatico che riflette molto da vicino la ricerca esistenziale dell’uomo contemporaneo. Uno spirituale che appiana le diversità dell’essere in ogni uomo e in ogni artista; che mette sì tutti d’accordo con un savoir faire attento, sottile e diplomatico da stile New Age, perciò sincretista: più umano che divino.

Dopo la visita alla mostra mi si è aperto un interrogativo a cui solo col tempo possiamo rispondere: lo spirituale di cui le opere esposte si fanno interprete è solo un tema come gli altri proposto ad uso e consumo della vorace cultura contemporanea che divora in modo avido qualsiasi cosa entra nel suo raggio di conoscenza o un ambito inesplorato dell’essere umano che l’arte ha il coraggio di portare alla luce e tradurre in una cultura capace di alimentare l’esistenza degli uomini?

E qui non posso fare a meno di pormi e porti alcune domande: perché l’uomo considera Dio come un suo nemico e fa di tutto per combatterlo o nel migliore dei casi sottrarsi per rimanere indifferente a lui? E’ realmente un nemico o non piuttosto una visione distorta che si ha di lui? Perché fa così paura Dio? E perché pensarsi soli dal momento che la solitudine genera tanta inquietudine esistenziale? Perché sfidarlo costantemente e non aprirsi una volta e per sempre a cogliere il senso della sua essenza? Perché è così difficile considerarlo all’origine dell’esistenza? Perché non aprirsi e confrontarsi con l’Immagine di Dio e di Uomo che Gesù ha manifestato con la sua esistenza? Perché non vivere da figli, in quella esistenza relazionale propostaci da Cristo? Perché non aprirsi alla sua visione di vita? Che forse la sua visione di Dio è troppo distante da quella dell’uomo, o non piuttosto quella che lo fa autenticamente uomo? Ritieni che siano domande troppo specifiche sotto il piano spirituale o troppo ardite per gli artisti contemporanei? Io oso farle e quanto vorrei porle anche a loro se ne avessi la possibilità. Perché non indagare con l’arte la vita nuova che Cristo ci ha dischiuso con la sua risurrezione? L’arte ha indagato lo spirito dell’uomo, la sua psiche, la sua follia e perfino il banale, perché non indagare la vita divina e relazionale di Cristo?

Ma voglio osare di più. Osservando le varie opere esposte alla mostra ad un certo punto ho cominciato a chiedermi: perché lo spirituale cristiano è così poco considerato o in quei rari casi in cui viene pensato, espresso e rappresentato appare così scialbo? Che forse l’esperienza spirituale ed umanistica proposta da Cristo non è più così attuale, da poter essere riproposta con la necessaria forza persuasiva che la caratterizza? E perché non essere cristiani contemporanei nell’arte? Questa domanda che parafrasa quella posta a suo tempo da un filosofo come Benedetto Croce, si è riposta in me, interpellando fortemente la mia coscienza artistica. Già, cosa impedisce di esserlo? Lo so, sono domande molto imbarazzanti quelle che ti sto ponendo e anche molto ardite, specie se consideriamo il clima culturale e perché no anche quello ecclesiale attuale. Ma voglio pensare a voce alta: che forse Cristo non è venuto anche per gli artisti e gli artisti contemporanei? Cosa impedisce di estendere anche a loro il messaggio di salvezza? Forse sono troppo avanguardisti o troppo periferici per un messaggio evangelico? E perché Cristo è diventato un tabù per la cultura? Forse non ci sono artisti all’altezza per tradurre in arte una simile visione di vita? Queste e tante altre domande che sanno apparentemente di predica moralistica, in realtà nascono dal grido di un artista che ha avuto il coraggio di lasciarsi interpellare dall’Uomo Gesù e ha sentito il bisogno di tradurre in arte la sua Umanità e la sua Divinità e di fare della propria arte un ministero ecclesiale, con cui promuovere e diffondere nella cultura il messaggio evangelico di salvezza. Suppongo che ti sarai accorta che la mostra sia stata un pretesto che ha fatto scattare in me queste istanze così profonde, ma che sento come il dovere di rendertele partecipe. Forse starai pensando che io sia entrato troppo nel personale, magari è così, ma voglio cogliere questa occasione per oggettivare quello che accade in me. Chissà che non sia questa un’occasione per dire dai tetti quello che lo Spirito mi suggerisce nel silenzio e negli abissi oscuri della coscienza? Io credo che sia giunto per gli artisti il tempo di testimoniare con l’arte non solo l’Umanità e neppure solo la Divinità, ma l’Umano-divinità di Cristo e di farlo con un ministero specifico nella Chiesa e nel mondo. Un ministero artistico, per l’appunto. Ecco la forma di servizio di cui necessita anche la Chiesa nel suo ministero di evangelizzazione della cultura. È a questo livello che il Vangelo grida di essere incarnato nella cultura e più specificamente nell’arte e dagli artisti. È a queste condizioni che la visione cristiana chiede di essere tradotta a livello artistico così da irrorare e trasfigurare la vita culturale contemporanea. Ma tutto ciò necessita più che mai di artisti capaci di lasciarsi liberare da Cristo. E’ a queste condizioni che essi potranno tradurre in arte la loro esperienza di libertà. È di questa libertà che gli artisti devono farsi promotori e fautori se vogliono veramente essere artefici testimoni di un messaggio di speranza per gli uomini e donne del nostro tempo. Questa realtà è troppo dura e cruda per essere amata e perciò necessita di bellezza per essere stimata – hanno detto i Padri Conciliari. E chi mai può compiere questa operazione se non gli artisti? È in questa missione che può profilarsi il futuro della loro missione profetica ed artistica. È evidente che non si tratta di inquadrare la questione nell’ambito della libertà espressiva e neppure di ridurla ad una mera questione linguistica o formale, bensì di inserirla nell’orizzonte della libertà ontologica. È a questo livello che gli artisti devono avere il coraggio di giungere ed è di questa libertà che essi devono farsi profeti e promotori, se si vuole veramente offrire un progresso esistenziale ed umanistico alle persone e all’umanità di oggi. E tale progresso, a mio avviso, non può avvenire senza Dio. “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” dice Paolo a Galati che per certi versi stavano tentando un’operazione sincretista simile alla nostra, tra il vangelo di Cristo e la Legge mosaica. Perciò sono convinto che la questione della libertà non è solo artistica, ma anche religiosa. Certo i linguaggi, le forme e le opere con cui si cerca di tradurre questa istanza di libertà spirituale non si rivelano ancora idonei a tradurla in chiave artistica. Ma non è in questo versante che deve orientarsi la ricerca autentica dell’arte contemporanea? E credo che sia proprio su questa dimensione che gli artisti siano chiamati a confrontarsi non solo a livello artistico, ma soprattutto a livello esistenziale e spirituale. Anche per quanto mi riguarda ritengo che sia proprio qui il punto più delicato e provocatorio che maggiormente stimola la mia artisticità e mi sfida ad investire le mie energie nella ricerca artistica per trovare un linguaggio capace di esprimere un’esperienza religiosa e spirituale così profonda, quale è appunto la libertà operata da Cristo.

Richiamando la mostra a me è sembrato che a suo modo anch’essa compia una simile operazione. E lo faccia lasciando interagire tra loro la duplice prospettiva spirituale: quella degli artisti e quella del curatore. In questo mi pare di cogliere un velato e coraggioso annuncio spirituale alla cultura contemporanea. Una forma anche inconsueta e nuova di dire lo spirituale oggi. Se così è, allora occorre lasciarsi seriamente interpellare dalla risonanza e dalla ricaduta che essa ha sulla gente e nei moderni areopaghi dei social. Ed è a questo livello che la mostra si è rivelata per me un incoraggiante stimolo e una provocante sfida per il mio ministero sacerdotale ed artistico, a cercare cioè un linguaggio con cui dire Dio e più specificamente l’opera di Cristo, nell’oggi dell’arte. Non un’arte intesa solo come forma di espressione di ciò che lo Spirito compie negli artisti, ma soprattutto un luogo di comunione tra gli artisti. Un’arte capace di rendere visibile la presenza mistica di Cristo tra gli artisti, secondo il suo detto: “Dove due o più sono riuniti nel suo nome, ivi è presente in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Non è forse questa l’Immagine che l’arte è chiamata a rendere visibile? Non è forse questa l’Immagine che gli artisti sono chiamati ad incarnare nella propria artisticità? Io stesso non desidero altro che dire Dio con i soli due modi propri dell’uomo: l’immagine e la parola, quali manifestazione dell’Immagine e della Parola di Dio.

Un’arte vissuta ed esercitata come luogo di comunione trinitaria tra gli artisti. Un ministero questo che al contempo mi attrae e mi spaventa. Mi attrae perché si tratta di un modo nuovo all’interno della Chiesa e nel mondo, con cui farsi promotore dell’annuncio evangelico di Cristo nella cultura contemporanea; mi spaventa perché necessita di una testimonianza di vita evangelica e relazionale tra gli artisti di cui dispongo solo un’intuizione e riconosco di essere solo all’abc. Ma può l’arte essere una forma e un luogo di evangelizzazione? Può l’arte essere una forma e un luogo di libertà e di redenzione cristiana? Sono domande folli che fanno tremare i polsi e i cardini esistenziali di chi conosce i risvolti pratici per una sua concreta incarnazione nell’oggi della cultura. Si tratta di compiere nell’arte la stessa operazione che gli evangelisti hanno compiuto a livello letterario. Il Vangelo infatti è al contempo un’esperienza d’amore di Cristo vivo, vero ed operante, e un testo letterario. Un testo tuttavia che non si limita a narrare dei fatti, ma è la traduzione verbale della Parola di Cristo. In altri termini esso è scritto in modo da veicolare con la parola umana, la stessa potenza redentiva della Parola di Dio. Il Vangelo è Cristo, la Parola, il Verbo di Dio tradotto in parole umane. Mi domando se è possibile compiere una simile operazione anche a livello artistico. Tradurre cioè in immagini artistiche l’Immagine di Cristo, quale Immagine di Dio nell’uomo. Naturalmente ciò richiede un’esperienza di discepolato e di comunione partecipativa della stessa vita evangelica di Cristo, esattamente come è avvenuto per gli evangelisti. Formulare una simile visione d’arte appare sì come un’utopia, ma anche come un ideale che dà senso e speranza e si rivela foriera per il futuro artistico. Si tratta di una speranza che nasce dalla comunione con Cristo. Ed è a questo livello che diventano chiare e comprensibili le condizioni per un simile ministero artistico. Solo chi muore a se stesso e al suo io artistico può veramente dirsi liberato da Cristo. Solo chi è libero da sé può veramente farsi promotore di un’autentica esperienza di libertà libera e liberante. Più che mai si capisce che la questione della libertà artistica ed espressiva non è che una questione prettamente spirituale e più specificamente cristiana. E’ a questo livello che l’artista può trascendere la propria esperienza di inquietudine e angoscia esistenziale e trovare in Cristo il suo senso pieno. Avrai notato che la questione relativa al linguaggio e alla forma da trovare per dire questa opera di Cristo è carica di una dimensione che va ben al di là della mera questione linguistica, formale e tecnica, sulla quale molto spesso oggi si ferma l’attenzione e si concentrano le energie artistiche.

“Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi” (Gal 5, 1). È questa libertà che mi sento chiamato a trasfondere nell’arte così che essa diventi luogo di libertà per l’uomo. Personalmente sono convinto che se la libertà è una questione spirituale, solo lo Spirito di Cristo può condurre l’artista ad un’autentica condizione di libertà umana. Solo liberando gli artisti da se stessi essi possono creare luoghi artistici capaci di liberare. È di questo contenuto che occorre caricare la propria artisticità. È giunto il momento in cui l’arte intraprenda il vero esodo culturale verso l’arte promessa. E lo Spirito che vive in ciascun artista è il vero profeta che traccia il cammino pasquale verso la libertà redentiva. Ogni artista deve operare in modo tale che Cristo operi in lui come liberatore degli artisti. L’arte diventa così una vera e propria liturgia, ma oso di più un vero e proprio sacramento liberante. Essa diventa via e luogo di questa libertà. È qui il senso del loro ministero artistico. È questa la missione che mi sento chiamato a svolgere nel mondo e nella Chiesa. Fuori di essa non ho motivo di essere né sacerdote né artista. In Cristo io vengo per fare la volontà del Padre (cf. Eb 10, 5-7). Ecco il testo che mi ha sempre accompagnato nel mio cammino spirituale. Ecco la missione alla quale mi sento chiamato. Qui trovo il filo d’oro della mia esistenza sacerdotale ed artistica. Per me è impossibile scindere la missione artistica da quella sacerdotale, la libertà spirituale da quella artistica. L’una è espressione dell’altra e l’altra e fondamento dell’una. La mia liturgia è artistica e sacerdotale al contempo, ed è per gli artisti e per gli uomini. Ed essa è tanto più vera e autentica quanto più è capace di rendere viva ed operante la presenza di Cristo in mezzo agli artisti per mezzo del comandamento dell’amore. Perché dove c’è Cristo c’è la Chiesa, dove c’è la Chiesa c’è l’amore redentivo e santificante dello Spirito, dove c’è lo Spirito c’è l’azione trasfigurante dell’arte che ‘transustanzia’ le immagini artistiche in Immagine di Dio. Ecco lo specifico del ministero artistico nell’uomo e nel mondo. Ed è questa opera trasfigurante che fa la Chiesa degli artisti.

Un titolo stimolante dunque quello della mostra che tradotto nella particolare situazione umanistica in cui verte la cultura contemporanea, suscita una domanda provocante: qual è la materia dell’uomo che l’arte può trasfigurare così da favorirne lo sviluppo spirituale ed umano? La risposta sapranno darla quegli artisti che avranno il coraggio di indagare e scrutare con spirito di abnegazione quegli ambiti dell’animo umano e darne una coraggiosa testimonianza con i documenti delle loro opere.

Voglio concludere con questa preghiera con la quale ti rendo partecipe della mia anima:

Oh Spirito di Dio, tu che guidi gli artisti a indagare gli imperscrutabili meandri dello spirito umano e a rendere manifesta, con le loro opere, l’ineffabile e inesplorabile bellezza trinitaria di Dio, guida anche me a fare e a vivere un’arte che sia luogo e forma della comunione trinitaria. Un’arte che sia al contempo casa umana dove ospitare Dio e dimora divina dove accogliere gli uomini. Una dimora umano-divina: dove ciascun artista può imparare ad essere come Cristo: Uomo-Dio. Dammi perciò il coraggio di lasciarmi liberare da tutto ciò che m’impedisce di essere artista secondo l’Immagine di Dio, tale da vivere in pienezza la mia artisticità, autenticamente, con tutta la mia umanità e pienamente in tutta la tua divinità. Dammi di essere Cristo in mezzo agli artisti, nell’oggi dell’arte.

 
 
 

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