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La prima volta

Cenacolo poetico



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La prima volta

 

La guardavo

da lontano,

sebbene di lei

mi sfiorasse

solo un vago ricordo,

sbiadito, del volto.

 

Ma quella sera,

quella sera no:

l’amore fu tale

che mi parve reale.

Finché lei si voltò e,

quasi sapendo, mi cercò.

 

M’alzai di soppiatto,

come furtivo nell’ombra;

e quella volta,

più delle altre,

mi decisi a

farmi trovare.

 

Lei mi guardò

ed io, sorpreso,

rimasi per poco silente,

a lasciarmi guardare,

come rapito

da quello sguardo suo nel mio.

 

Non ressi quegli occhi,

perciò mi girai –

forse per poco – col volto

chinato nel vuoto;

ma quel poco mi parve d’eterno,

che del suo sguardo vivo tutt’ora.

 

Di lei mi bastò

il colore degli occhi:

neri come i miei;

e le mani, quelle mani

che a fatica sbirciavo da tempo

per sapere chi fosse.

 

E che dire dei passi:

leggeri come di danza,

sì, di quella mistica

danza d’amore

che nasce come

d’incanto dal cuore.

 

Era stata in città,

pensavo per caso,

o forse per sorte,

quando repentina sparì,

così: sfuggente, com’era venuta,

in quello scorcio di sera.

 

Mi decisi a cercarla,

ma di lei solo le note

di quel piano struggente

che quella sera,

più delle altre,

fu chiamata a suonare.

 

Poche note

m’echeggiano ancora,

quelle poche che

bastano al cuore

in quelle notti

d’interminabile attesa,

 

quando di lei

m’assale il ricordo

della sua nostalgica voce

che mi pare, sovente

di sentire ancora nel tempo,

da questa cella segreta del cuore.

 

E intanto fuori piove,

ed io, solingo, mi ritrovo, sovente,

a rammentare i ricordi dell’amore perduto,

mentre i pensieri s’infrangono

sui vetri dei miei desideri.

 

 Luigi Razzano

 


Iconologia poetica

 

La prima volta è il titolo di una lirica insolita per lunghezza e contenuto, rispetto al repertorio che offro ai miei lettori. Essa nasce “da lontano”, quando nel 2007, un mio amico scrittore: Stefano Radaelli, mi invitò a leggere un romanzo breve, al termine del quale trassi un prima bozza poetica, lasciata poi per tutto questo tempo nel cassetto; quando qualche giorno fa mi sono deciso a riprenderla e a rielaborarla interamente. Si tratta perciò di una traduzione, in forma poetica, del racconto di una breve e intensa storia d’amore, che vede protagonista un giovane che nutre una struggente passione per la sua amata, “sebbene di lei” conservasse “solo un vago ricordo, / sbiadito, del volto”. Egli vorrebbe voluto tradurre questo amore in un vissuto concreto, e in parte sembra riuscirgli, visto il realismo con cui descrive i particolari dei suoi aspetti fisici, come l’intensità del suo sguardo; il colore dei suoi “occhi”: “neri come i miei”; il calore della sua “nostalgica voce”; la forma delle sue “mani”; il dinamismo dei suoi “passi”, “leggeri come di danza”; il suo lavoro di pianista, la città dove l’ha incontrata e perfino le timide reazioni emotive che egli prova quando lei sembra dichiararsi apertamente. Ma al termine di ogni scena il lettore si ritrova a prendere atto dell’estrema evanescenza di questi episodi. Si viene così a delineare il profilo di un protagonista che vive di immaginazione, confondendo la fiction – nella quale coltiva e alimenta, sempre più intensamente, il suo ardente desiderio d’amore – con la realtà che invece si snoda in tutt’altro modo davanti a lui. Tutta la poesia appare, perciò, come strutturata da un susseguirsi rapido e sfuggenti di episodi che risultano, al tempo stesso, reali e immaginari, veri e illusori. La trama che l’intesse risulta così intrecciata che il lettore stesso fatica a distinguerne i confini. Potrebbe essere la descrizione di una personalità schizofrenica, che vive avulsa dalla realtà, e forse in parte lo è, a giudicare dalla strofa conclusiva, nella quale il protagonista, sollecitato dal ticchettio della “pioggia”, sembra improvvisamente svegliarsi dal sonno della sua immaginazione e fare la triste e amara esperienza di chi vede definitivamente infrangersi contro i “vetri” della realtà i propri desideri. Ma paradossalmente anche questi “vetri” si rivelano miraggi, allusivi come sono a quei filtri culturali con cui sovente osserviamo la realtà. Essi sono tanto necessari per conoscerla, quanto limitati per coglierne l’essenza. Sono trasparenti, ma pur sempre filtri che ci impediscono un contatto diretto con la vita e più specificamente con la vita d’amore, vera essenza d’ogni cosa.

Ne scaturisce una considerazione dal sapore antropologico, che invita il lettore a riflettere sul rapporto che ciascuno di noi ha con la realtà e più specificamente con la realtà dell’amore. Apparentemente l’amore sembra esserci familiare, impregnata come è la vita delle sue molteplici declinazioni. In effetti è un sentimento naturale, eppure quando sboccia non sembra dischiudersi in modo così naturale. Al contrario, ci appare come una realtà complessa, difficile da decodificare, interpretare e ancora più da vivere. In certi casi, poi, esso irrompe dentro di noi con una forza impetuosa: “più forte della morte è l’amore”, recita il Cantico dei Cantici, “e i suoi ardori sono ardori di fuoco” (Ct 8,6), che possono sconvolgere interamente la nostra vita. Può sembrare strano, ma ad alcuni l’amore fa perfino paura. Come la libertà. Specie quando esse ci coinvolgono personalmente ed esigono la nostra responsabilità. Conoscerle però è un dovere, perché amare è indice di libertà. Sì, chi ama è libero. Pertanto i luoghi comuni che siamo soliti sentire intorno ad essi, come le loro alterazioni semantiche, sono spesso causa di illusioni e pregiudizi difficili da estirpare. La conoscenza, tuttavia, richiede discernimento e la loro attuazione un’arte. Una simile acquisizione diviene ancora più impellente in un contesto culturale come il nostro, dove l’approccio alla realtà e alla realtà dell’amore, è divenuto pericolosamente virtuale.

In questa ottica, quella dura e amara esperienza che facciamo quando per la prima volta troviamo il coraggio di confrontarci con l’amore, lungi dall’essere considerata negativa o da schivare per evitare ulteriori sofferenze, si rivela, invece, decisiva e determinate per lo sviluppo della nostra personalità. Non c’è altro modo per vivere in pienezza la nostra vita se non amando. Solo così possiamo di evitare quel circolo vizioso, dettato dal soggettivismo affettivo ed egoico, così diffuso e radicato dentro e fuori di noi e nel quale rischiamo di rimanere ingabbiati per tutta la vita. La prima volta”, dunque, lungi dal riferirsi alla prima esperienza d’amore, come potrebbe dare adito a pensare una lettura superficiale della poesia, allude, invece, alla prima volta in cui si ha il coraggio di confrontarsi con la sua realtà. La poesia diventa così un viaggio nelle declinazioni virtuali dell’amore e dei rischi o possibilità a cui una simile avventura espone nel corso della vita.

 

 
 
 

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