Il tempo d’un respiro
- don luigi
- 3 lug 2024
- Tempo di lettura: 4 min
Cenacolo poetico

Il tempo d’un respiro
Un battito,
un vagito,
poi appena
il tempo d’un respiro
e, di colpo,
il buio freddo
della morte.
Perché mai così breve
fu per lui il tempo della luce
se di norma la vita appare
prodiga di anni?
È questa forse dei nativi
l’istanza più arcana del mistero
che non di rado
ci assilenzia nell’ascolto,
a vedere dall’Alto
l’essenza della vita.
E lì, dove solo il cuore giunge
ad ascoltare la voce,
repentino affiora
il bisbiglio dell’alito divino.
Non senti?
È il suo respiro!
È il respiro del Verbo!
Che sussurrando
prelude all’orizzonte
il moto silente dell’aurora.
Oh, che mai sarà
quest’impeto di mistica preghiera?
E chi d’essa mi chiede
di proferir parole
di certo io non so
che rimaner silente.
Forse, è vero,
nella piaga rimango ancora,
ma da Dio
posso vedere quest’ora.
Luigi Razzano
Iconologia poetica
Il tempo d’un respiro è il titolo di una poesia nella quale l’autore fa memoria di un doloroso evento di morte di un bambino, nato prematuro, e vissuto solo per quindici minuti. Un’esperienza shockante per chi è abituato a contare l’età in anni e improvvisamente si ritrova a contarla in minuti. “Un battito, / un vagito, / poi appena / il tempo d’un respiro / e, di colpo, il buio / freddo della morte”. La notizia giunse al termine di una difficile e travagliata gravidanza, durante la quale, alla mamma, fu consigliato ripetutamente di abortire a causa di alcune malformazioni fetali. Ma costei, amante della vita, volle lasciare al decorso naturale la decisione del caso. Forse, oggi, molte mamme, in simili circostanze, opterebbero per l’aborto, senza lasciarsi minimamente condizionare dalle conseguenze che questa decisione comporta a livello morale e psichico. L’autore non entra in merito alla questione morale, si sofferma invece sulle istanze che essa genera a livello esistenziale: “Perché mai così breve / fu per lui il tempo della luce / se di norma la vita appare / prodiga di anni?”. “È questa forse dei nativi / l’istanza più arcana del mistero / che non di rado / ci assilenzia nell’ascolto / a vedere dall’Alto / l’essenza della vita”. Consapevole di inoltrarsi in una questione più grande di lui, l’autore non si arrende alla difficoltà che incontra nel dare senso a una simile domanda. Ci sono circostanze in cui la vita si rivela davvero misteriosa, davanti alla quale si fa fatica a trovare una risposta che sia in coerenza con la fede e, perché no, con la vita stessa. Cos’è che impedisce a una creatura di vivere appieno la propria vita? Quale significato ha la vita di un bambino che non ha avuto neppure la possibilità di cominciare ad assaporarla? Come cogliere la presenza di Dio nel decorso di una malattia così spietata? Come perseverare nella fede in un Dio che sembra rimanere sordo in simili circostanze? Come interpretare la natura quando non offre più alcun luogo manifestativo dell’azione provvidente di Dio? Che rapporto sussiste tra la malattia e un innocente? Le domane, com’è evidente, aprono una questione esistenziale antica quanto l’uomo, per la quale non esiste una risposta razionale, neppure a voler scrutare e passare in rassegna tutta la dottrina della fede. Questo tipo di domande rimangono spesso senza risposta, esattamente come quella di Gesù sulla croce quando, a seguito di quell’assurda violenza che l’aveva condotto a morire da infame, si rivolse a Dio citando il Salmo 22,21: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mc 15,34). Egli non ottenne alcuna risposta verbale dal Padre, eppure non scivolò nell’ateismo, nel nichilismo, o nel relativismo, o ancora nell’indifferentismo, o peggio ancora nell’edonismo, come accade per tanti di noi. Semplicemente si consegno a lui, convinto che il Padre sarebbe in qualche modo intervenuto: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Pur percependo l’abbandono del Padre, morì abbandonandosi a lui. Questo di Gesù è forse l’atteggiamento che più di ogni altro, senza eludere la drammatica e atavica misteriosità della vita, ci predispone al silenzio e ad accogliere quell’evento di dolore come fosse fatto apposta per me. E questo, nella misura in cui lo si accetta, si rivela capace di mitigare l’angoscia, lasciando delineare quel sottile barlume di speranza che si accende all’orizzonte buio della nostra esistenza, quando smettiamo di indagare la vita con la sola ragione analitica e si comincia a vederla dall’Alto, ovvero dal Verbo di Dio, il solo capace di farci intercettare e discernere nel “bisbiglio dell’alito divino” che sussurra nel cuore dell’uomo, il respiro dello Spirito. Un respiro di cui il poeta ha piena consapevolezza e intende condividerla col suo lettore, il quale viene interpellato con un interrogativo: “Non senti? / È il suo respiro! / È il respiro del Verbo! / Che sussurrando / prelude all’orizzonte / il moto silente dell’aurora”. La sua risurrezione lascia perciò intravedere un nuovo senso. Certo si tratta di un significato che ha la delicatezza e la fragilità del respiro, ma che apre il lettore alla speranza di una nuova forma di vita. Ed è a questo livello che il suo moto lieve assume la forma di una “mistica preghiera”, dinanzi alla quale il poeta non sa che “rimaner silente” a chi gli chiede di dare ragione della stessa. Il silenzio, specie quello di Dio, non ci esonera dalla piaga, “ma dall’Alto” aiuta a “vedere quest’ora” di dolore.




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