Hê truvato ’a pace
- don luigi
- 5 giu 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Cenacolo poetico

Hê truvato ’a pace
Spisso, quanno cala ’o juorno,
e a ll’ora do’ tramonto
me metto a vedé ’o mare,
nasce dint’a mme
nu sentemiento ’e nustalgia:
- Che sarrà –
me song’ addimannato
- ’stu sintemiento ’e luntananza
che m’arrevot’ ’o core
a chest’ora d’ ’a jurnata? –
E quanti vvote
m’è rimasta sulo ’sta dimanna.
Però, che strano chistu fatto,
ca sempe me succede
quanno accummencia
a sta’ ncujeto:
quanno penzo a Ddio
’o core mio s’appaga.
E allora, chiurenne ll’uocchie,
sento, chianu chianu,
che na voce fina fina
me saglje ’a dinto’ô cor,
e llà m’addono
ch’essa vene sulo
pe’ dicere a mme stess:
“… Hê truvato ’a pace”.
Luigi Razzano
Iconologia poetica
“Hê truvat ’a pace” (Hai trovato la pace) è la percezione che sempre più raramente riusciamo a sperimentare nel ritmo frenetico dei “tempi moderni”. Sembra un paradosso, eppure il benessere che sovente ci viene propinato come condizione di felicità, risolutiva dei disagi esistenziali dovuti alle varie forme di indigenza della vita, si rivela invece come uno dei principali motivi di ansia. E a giudicare dall’agonismo che esercitiamo nel conquistarlo, il benessere pare destinato a diventare sempre più la causa del nostro malessere psichico e spirituale. Cosa fare? I percorsi terapeutici che vengono proposti in queste circostanze non si contano. E ciascuno, a seconda dei disagi, sembra offrire risposte risolutive quanto più originali e innovative. Con tutto quello che ne consegue a livello economico. Ma è proprio vero che bisogna ricorrere sempre a degli esperti in queste circostanze? Non sarebbe più opportuno lasciare affiorare da noi quelle soluzioni, per così dire, naturali? La poesia sembra muoversi proprio in questa direzione, lasciando emergere una proposta molto semplice e spontanea: recuperare il rapporto con la natura. “Spisso, quanno cala ’o juorn, / e all’ora do’ tramonto / me metto a vedé ’o mar” (Spesso, quando cala il giorno, / … all’ora del tramonto / mi metto a vedere il mare). Guardare e lasciarsi guardare dal mare, o più in generale dalla natura, si rivela molto più terapeutico di ogni intervento farmacologico (tranne, ovviamente, che nei casi patologici). Il che significa riconoscersi parte integrante della natura, per riscoprire le proprie origini. Già, perché la nostra umanità, per quanto goda di una speciale evoluzione, rispetto a tutte le altre creature, rimane pur sempre legata alla natura. Molte delle leggi che ordinano il nostro sviluppo fisico, sono le stesse che governano la natura. Si tratta perciò di spogliarci di quelle sovrastrutture culturali, spesso ereditate da un certo sapere scientista che, senza accorgercene, ha come reciso la nostra empatia con la Madre Terra, dalla quale proveniamo e verso la quale andiamo, se consideriamo il destino della morte che accomuna tutte le creature. “Polvere tu sei e in polvere ritornerai”, ci ricorda a mo’ di monito l’autore del libro della Genesi 3,19.
Un simile recupero comporta, però, il coraggio di lasciarsi provocare dalla natura, specie quando la contemplazione dei suoi paesaggi, come quello del “tramonto”, al quale si riferisce il poeta, suscita nasce dentro di noi “nasce dint’ a mme nu’ sentemiento ’e nustalgia” (un sentimento di nostalgia), ovvero quella sensazione di mesta malinconia che ci induce a fare memoria non solo delle origini fisiche e biologiche, ma anche di quelle più profonde ed esistenziali, come quelle spirituali, dalle quali, oggi più che mai, ci sentiamo spaventosamente “lontani”. Il tramonto segna, allora, non solo l’ora in cui la giornata volge al termine, ma diventa anche la metafora della fine della vita, dove ancora più che in altri momenti, avvertiamo l’esigenza di un raccoglimento interiore, attraversati come siamo, in queste circostanze, da alcune domande esistenziali, come quella del poeta: “Che sarrà / … / ’stu sintimentu ’e luntananza / che m’arrevot ’o core / a chest’ora d’ ’a jurnata?” (Che sarà / … / questo sentimento di lontananza / che mi sconquassa il cuoare / a quest’ora della giornata?). Si tratta di domande esistenziali, profonde, autentiche, sincere, oneste e per questo capaci di generare in noi quella sana inquietudine, che sorge tutte le volte che abbiamo il coraggio di confrontarci con la verità di noi stessi, ovvero con quel nucleo identitario originario e creativo che qualifichiamo come Dio, dinanzi al quale, se siamo veramente onesti e sinceri, non possiamo mentire. Certo, le domande: da dove veniamo e dove andiamo? Non sempre sono destinate a trovare una risposta, come accade allo stesso poeta: “E quanti vvote / m’è rimasta sulo ’sta dimanna” (e quante volte m’è rimasta solo questa domanda), la cui risposta spesso si riduce solo a un’intuizione, per altro non sempre di facile decifrazione. Tuttavia si tratta di un’intuizione folgorante che in diversi casi può rivelarsi decisiva per la nostra ricerca esistenziale. E infatti quella che può apparire una difficoltà si rivela invece un fatto sorprendente, che il poeta non può fare a meno di constatare: “che strano chistu fatto, / ca sempe me succede / quanno accummencia / a sta’ ncujeto” (che strano questo fatto, / che sempre mi accade / quando comincio / a stare inquieto): “quanno penzo a Ddio / ’o core mio s’appaga” (Quando penso a Dio / il cuore mio s’appaga). Per quanto questa intuizione possa “ncujetare” “inquietare” la nostra esistenza, essa non fa che predisporci a recuperare il nostro rapporto con Dio. Come non evocare, a questo punto, la nota intuizione di Agostino, quando dice: “Il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te” (Confessioni 1,1.5). Chi è allora questo Dio che a volte sembra darci l’idea di un intruso, che viene solo per rompere le uova nel paniere della nostra già sofferta e fragile tranquillità esistenziale? Prima ancora che il diretto interlocutore della sua vita spirituale, morale e intellettiva, il poeta non esita a riconoscerlo come il luogo, o meglio, come il grembo originario della vita nel quale “viviamo, esistiamo e ci muoviamo” (At 17,28); e nel quale, come bambini, interagiamo con lui attraverso quel misterioso cordone ombelicale che è lo Spirito, percepito come una voce che “chianu chianu” (piano piano) e “fina fina” (sottile, sottile), “ … saglje ’a dinto’ô cor” (… sale dal cuore). L’ascolto di questa voce induce il poeta a prendere coscienza (e llà m’addono) “ch’essa vene sulo / pe’ dicere a me stess: / … hê truvat ’a pace” (che essa viene solo / per dire a me stesso: / … hai trovato la pace). La pace alla quale si riferisce il poeta non è solo quella esistenziale, intuita e formulata da Agostino nella citazione di cui sopra, ma più specificamente, quella donata da Cristo agli apostoli all’indomani della sua risurrezione, quando risalendo dagli inferi, disse: “Pace a voi” (Gv 20,20) rendendoli partecipi di quella definitiva riconciliazione con Dio, che lui aveva raggiunto con la sua Pasqua.




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