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9 Ottobre 2022 - Anno C - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Aggiornamento: 10 ott 2022


2Re 5,14-17; Sal 97/98; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19


“La tua fede ti ha salvato”

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“Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19); “Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele” (2Re 5,16). Sono i versetti, tratti rispettivamente dal Vangelo di Luca e dal secondo libro dei Re, che delineano il tema di questa 28a Domenica del TO, tutta incentrata sulla fede e più specificamente sul potere redentivo di cui essa dispone. Ancora una volta, dunque, torna il tema della fede. Tuttavia se domenica scorsa abbiamo cercato di cogliere le circostanze, le condizioni e i luoghi che ne garantiscono la crescita; quest’oggi, invece, cercheremo di capire la dinamica con cui essa si manifesta e gli elementi che la caratterizzano.

I brani, di cui abbiamo appena citato i versetti più significativi, ci offrono un’interessante testimonianza di questa dinamica relazionale della fede. Entrambi ci riferiscono di persone guarite dalla lebbra, grazie all’intervento di figure come Gesù ed Eliseo e alla fiducia nella loro parola profetica. Proveremo perciò prima a collocare questi brani nel loro contesto, per poi sviscerarne i significati che assumono per la nostra vita spirituale, specie in un contesto sociale, come il nostro, ancora sconvolto dal drammatico contagio del Covid 19. Partiremo dall’episodio del secondo libro dei Re, perché ci offre l’occasione per un breve richiamo alla considerazione della lebbra nell’Antico Testamento. Stando al libro del Levitico 13,45-14,57, la lebbra indicava una vasta gamma di malattie dermatologiche, che andavano dalla muffa sui vestiti e sulle pareti delle case, alla manifestazione di noduli e lesioni di varia grandezza a livello cutaneo e dei nervi periferici, con la relativa alterazione della sensibilità. Essa poteva essere benigna o maligna e a seconda dei casi si procedeva a un diverso trattamento terapeutico e alla relativa stima morale del lebbroso. Coloro che venivano colpiti da questa malattia erano tenuti, in primo luogo, a presentarsi al sacerdote, il quale, una volta attestato il contagio, dettava le disposizioni mosaiche, obbligando il lebbroso a tenersi fuori dall’accampamento. Dopo l’accertamento del sacerdote il lebbroso doveva manifestarlo visibilmente e pubblicamente: indossando vestiti strappati, velarsi il capo fino alle labbra superiore e soprattutto dichiararlo apertamente, gridando: “Impuro! Impuro!” (Lv 13,45). A causa di questo contagio i lebbrosi erano quindi esclusi dalla vita comunitaria e ghettizzati in un luogo a parte, lontano dall’accampamento. Queste disposizioni oltre a evitare la diffusione della lebbra, erano motivate anche da una valutazione morale, in quanto la malattia costituiva un chiaro segno di impurità. Una duplice discriminazione, quindi: fisica per la malattia contagiata e morale per il peccato di cui era segno evidente, alla quale si aggiungeva anche quella socio-culturale che evidentemente, insieme a quella morale, procurava una sofferenza ancora più terribile di quella fisica. In caso di guarigione il lebbroso doveva nuovamente presentarsi al sacerdote, il quale dopo averla attestata, procedeva con la purificazione che consisteva nell’aspersione del suo corpo col sangue degli uccelli offerti in sacrificio. Una volta purificato dai peccati questi doveva lavarsi il corpo, i vestiti, radersi completamente tutti i peli e quindi rientrare nell’accampamento (cf. Lv 14,1-9).

Il brano del secondo libro dei Re, senza menzionare tutta questa prassi procedurale, tipicamente mosaica, ci descrive la guarigione di uno straniero, e precisamente di un abitante della Siria – territorio a nord di Israele – da parte del profeta Eliseo. Un territorio nemico, di cui ancora oggi si assiste a drammatici conflitti politici[1]. Apparentemente questo episodio sembra solo il racconto di un evento prodigioso, in realtà esso intende esaltare da una parte il potere taumaturgico di un profeta Israelita, dall’altra l’utilizzo di questo potere a vantaggio di un nemico pagano, del quale ci viene detto anche il nome e il ruolo che esercitava: Naaman era infatti capo dell’esercito arameo, ed era un personaggio molto ragguardevole presso la corte del suo re. La sua autorevolezza, tuttavia, stando al testo, viene attribuita anche alla protezione di Jahvè – di cui probabilmente era un devoto – grazie al quale aveva ottenuto diverse vittorie e conquistata la salvezza del suo popolo. Si capiscono perciò i legami che questi stringeva con gli Ebrei. Egli però era lebbroso e ciò lo costrinse, suo malgrado, a ritirarsi dalla vita di corte, con tutte le relative sofferenze e privazioni che ne scaturivano. Saputa della malattia, una giovinetta israelita che svolgeva servizio presso la moglie di Naaman, lo invitò a recarsi nella propria terra e presentarsi al profeta Eliseo che, a suo giudizio, lo avrebbe certamente guarito. Egli riferì la cosa al suo re Ben-Adad, il quale gli scrisse una lettera di credenziali da recare a Ioram, re d’Israele. Giunto, però, davanti al re questi “si straccio le vesti”, perché ritenne quella lettera una provocazione, un chiaro pretesto per ridicolizzare la sua dignità regale: “Sono forse Dio per dare la morte o la vita, perché costui mi ordini di liberare un uomo dalla sua lebbra?” (2Re 5,7). Da qui il rifiuto di compiere un simile gesto. Informato dell’accadimento il profeta Eliseo chiese di visionare il caso, aggiungendo di voler incontrare direttamente il comandante, ma Naaman una volta davanti al profeta, rimase letteralmente offeso a causa della superficialità con cui fu accolto. Egli si sarebbe aspettato i convenevoli, riservati ad un dignitario come lui, ma Eliseo, senza neppure vederlo, mandò il suo segretario a dirgli di andare nel fiume Giordano e bagnarsi sette volte. Sdegnato per un simile trattamento, decise di tornare al suo paese, convinto che avrebbe potuto benissimo compiere nelle acque dei suoi fiumi quanto richiesto da Eliseo, ma ancora una volta fu trattenuto da un suo servo che gli disse: “Padre mio, se il profeta di avesse ordinato una gran cosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: bagnati e sarai purificato” (2Re 5,13). Persuaso da queste parole egli decise di immergersi nel Giordano secondo le indicazioni del profeta. Alla settima volta, con sua sorpresa, il suo corpo ridivenne come quello di un ragazzo: totalmente purificato dalla malattia. Attonito, si recò umilmente dal profeta per esprimergli tutta la sua gratitudine e riconoscenza, dicendo: “Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele”.

Molto più stringato è, invece, l’episodio evangelico di Luca, il quale narra di dieci lebbrosi che saputa della presenza di Gesù nel loro villaggio, gli si fecero incontro e fermatosi a distanza, gridarono: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi” (Lc 17,13). E Gesù, con estrema discrezione, senza compiere alcun gesto, li invitò a presentarsi al sacerdote. Costoro, nel mentre erano in cammino verso il tempio si ritrovarono guariti. Ma solo uno di loro, preso atto della sua guarigione, decise di tornare da Gesù, per esprimergli tutta la sua gratitudine. Dinanzi a questo gesto di riconoscenza Gesù disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,19).

Colpisce l’estrema sobrietà con cui Luca descrive questo miracolo. Nulla viene detto di ciò che Gesù compie se non l’invito a presentarsi al sacerdote, che stando alle prescrizioni mosaiche, avrebbe dovuto accertare la guarigione avvenuta. In realtà è proprio in questo passaggio che essa accade, eppure nulla la rende particolarmente evidente. Nessuna enfasi intorno alla figura di Gesù. Nulla che faccia cadere l’attenzione su suoi gesti o sulle sue parole. Al contrario egli opera nascondendosi, lasciando che il tutto accada in un’assoluta discrezione, tanto che gli stessi lebbrosi rimangono insensibili all’evento. La guarigione rimane misteriosa perfino al lettore che non capisce quando e come sia avvenuta. Ne scaturisce uno stile narrativo che lascia trapelare una chiara mentalità evangelica. Autentico esempio di coerenza comunicativa tra messaggio e linguaggio letterario.

Tra le altre cose sulle quali vorrei brevemente richiamare l’attenzione è la formula salvifica: “la tua fede ti ha salvato”, che Gesù rivolge all’unico lebbroso che torna a lui. Questa formula si rivela estremamente significativa per l’esercizio e la comprensione del senso della nostra fede. Essa infatti ne chiarisce lo scopo redentivo, il cui raggiungimento prevede dei passaggi intermedi che vorrei qui brevemente accennare. Siamo soliti considerare, giustamente, la guarigione come la prova di un evento divino eccezionale. Senza nulla togliere alla grazia con cui lo Spirito opera in queste circostanze, Gesù ci ricorda che il miracolo, oltre ad essere la manifestazione del potere divino, implica una partecipazione personale, compiuta per mezzo di una preghiera fatta con convinzione. Già domenica scorsa abbiamo avuto modo di evidenziare questo aspetto, quando nell’episodio del Fico sterile, Gesù, ribadendo la necessità di questa intima persuasione, diceva ai suoi discepoli: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quando dice avviene, ciò gli avverrà. Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (Mc 11,22-24; Mt 21,21-22). La preghiera fatta con convinzione costituisce, perciò, una condizione principale della fede. Non basta limitarsi a rivolgersi a Dio, ma occorre essere profondamente convinti di ciò che si chiede, per essere esauditi, come evidenzia Gesù in questa formula: “la tua fede ti ha salvato”, il che significa che è la nostra fiducia estrema e incondizionata in Cristo a metterlo nella condizione di operare in noi. In questa prospettiva possiamo ritenere il miracolo il frutto di una reciproca collaborazione tra Dio e l’uomo, segno di una perfetta unità di intendi. Né Cristo esercita il suo potere per ostentare la sua divinità, né il lebbroso costringe Cristo a compiere un gesto che soddisfi solo la propria esigenza fisica, ma entrambi operano gratuitamente e liberamente in vista della realizzazione del piano redentivo di Dio. Lo scopo della fede non è la guarigione fisica, ma la salvezza spirituale. Umiltà, gratitudine e libertà fanno parte, perciò, degli elementi costitutivi della fede, che necessitano di essere praticati se s’intende giungere alla salvezza.

Diversamente dall’opinione comune, dunque, che tende ad associare o addirittura a identificare guarigione e salvezza, l’episodio evidenzia, invece, la loro distinzione. Non sempre, infatti, chi riceve il dono della guarigione è automaticamente orientato a convertirsi. Anzi molte persone, pur constatando una reale guarigione avvenuta, rimangono sostanzialmente impassibili sul piano morale e spirituale, esattamente come i nove lebbrosi. Per loro la guarigione non si tramuta in un segno divino, capace di suscitare il cammino di conversione. Al contrario, essi sembrano attribuirla ad altri fattori o alle circostanze occasionali, come accade di solito anche nella nostra prassi religiosa, dove solo raramente riusciamo a risalire alla causa divina delle nostre guarigioni fisiche, psicologiche, morali e spirituali. Paradossalmente questa svolta spirituale viene compiuta da chi è estraneo, come il samaritano, il quale, proprio perché libero dai pregiudizi religiosi comuni, si lascia raggiungere e trasfigurare dallo Spirito.

L’episodio evangelico si presta ad una rilettura teologica della nostra attuale situazione pandemica che nonostante le diverse terapie vaccinali, messe in atto dalla scienza, continua ancora ad essere attiva attraverso le sue mutazioni. Anche noi, perciò vogliamo lasciarci interpellare da esso sollevando alcuni interrogativi. Quanti di noi, vittime del contagio, dopo la guarigione, hanno interpretato l’evento anche alla luce della fede? Quanti, oltre all’ausilio della medicina, hanno riconosciuto la loro guarigione grazie all’intervento di quella discreta, umile e nascosta opera di Cristo in loro e nel personale sanitario? Per quanti essa ha costituito un’occasione per risignificare la propria vita alla luce di una rinnovata relazione di fede con Dio? Quanti, come i nove lebbrosi, si accontentano solo della guarigione fisica, ignari che essa è solo un segno di quell’opera salvifica che Cristo intende compiere in loro? Quanti, malgrado l’inaspettato recupero della sensibilità religiosa, sperimentata durante il contagio, l’hanno poi abbandonata per ritornare a vivere esattamente come prima? L’episodio evangelico ci fa capire che la conversione, a cui potremmo mettere mano in queste circostanze, non è mai un fenomeno di massa, ma l’iniziativa di quei singoli che nella gratitudine decidono liberamente di ritornare a Dio, per riassaporare il gusto della salvezza. Probabilmente, condizionati come siamo da una mentalità scientista, riteniamo queste cose superflue o sorpassate, eppure nessuno può negare l’immensa gioia che si prova quando, come il Samaritano, ritroviamo il coraggio di tornare a Dio proprio grazie a queste circostanze. Probabilmente al termine di questa vicenda non riusciremo a mettere mano alla conversione, ma almeno come il Samaritano sforziamoci di manifestare la gratitudine a Dio, per la guarigione nostra e di tanti nostri cari. E forse proprio questa gratitudine può diventare l’occasione per sentirci dire da Cristo: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.



[1] Basti pensare alla guerra dei sei giorni, nel 1967, oppure ai conflitti più recenti come quelli degli anni ‘80, ’90, 2000, 2011.

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