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8 Settembre 2024 - Anno B - XXIII Domenica del Tempo Ordinario









Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,3-5; Mc 7,31-37


Effatà: Apriti!”

Uscire da sé


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“Effatà, cioè: Apriti”, è la parola che Gesù rivolge al sordomuto che alcuni abitanti di Sidóne gli condussero mentre stava percorrendo il territorio della Decapoli. Si tratta di un miracolo che l’evangelista Marco inserisce all’interno di una sezione che comprende anche la Guarigione della figlia della donna Siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30) e la Seconda moltiplicazione dei pani (cf. Mc 8,1-10). Tutti prodigi che egli compie in territorio pagano dove, paradossalmente, ha modo di riscontrare una fede che neppure i suoi compaesani ebbero modo di manifestargli in occasione del suo ritorno a Nazaret, dove – come annota Marco - non poté compiere alcun miracolo a causa della loro incredulità (cf. Mc 6,5).

Dopo la denuncia dell’ipocrisia farisaica (cf. Mc 7,1-13) e la discussione sul puro e sull’impuro (cf. Mc 7,14-23), Marco ci riporta nel solco del nostro cammino di conversione, nel quale siamo stati introdotti all’inizio della lettura del suo Vangelo, e lo fa con un miracolo che ha tutto il sapore di un evento esodale, modulato cioè sulla logica del camminobattesimale. Il miracolo del sordomuto esprime, infatti,simbolicamente la durezza del cuore a quindi l’incapacità di ascoltare e proclamare la parola di Dio che, alla luce della fede biblica, è la massima espressione di peccato, per questo motivo necessita di un intervento liberatorio di Dio, simile a quello raccontato nel libro dell’Esodo. In questo senso esso traccia il cammino del nuovo esodo, a cui è chiamato ciascuno di noi e come viene prefigurato dal popolo d’Israele, deportato in Babilonia, così come ci racconta Isaia nella prima lettura (cf. Is 35,4-7). Quest’ultima pertanto ci fornisce la chiave di lettura per comprendere il senso del brano evangelico.

Riletto in chiave esodale vediamo, infatti, che Gesù in questo episodio si comporta col sordomuto esattamente come Dio nei confronti del suo popolo, durante l’uscita dall’Egitto verso la terra promessa. Anche in questo caso ci troviamo in pieno territorio pagano quando a Gesù viene presentato un sordomuto. In realtà più che “sordomuto”, Marco usa un termine “moghilalo”, che indica un uomo che farfuglia, che parla poco e male. Alla radice di questa difficoltà espressiva c’è chiaramente la sordità fisica, che a livello simbolico allude alla mancanza di ascolto della parola di Dio. Il parlare male e la sordità sono alla base di qualsiasi difficoltà relazionale di una persona col mondo esterno. Ciascuno comunica con la realtà oggettiva ascoltando e parlando. Un bambino impara a parlare imitando il suono delle parole di quanti lo circondano, attraverso le quali apprende anche i loro contenuti. Questa caratteristica, tipicamente umana, è alla base anche della relazione dell’uomo con Dio. Solo ascoltando e comunicando con la sua Parola noi impariamo a conoscerlo e a vivere con lui.

Questo sordomuto non conosce la parola di Cristo, semplicemente perché non l’ha mai ascoltata, perciò per accostarsi a lui ha bisogno di essere condotto dagli altri (cf. Mc 7,32), i quali intercedono per lui e per la sua salvezza. È bello vedere in questa semplice operazione di accompagnamento quella di tante persone che ci hanno guidato alla fede e insegnato a capire e a conoscere Dio, durante l’infanzia. Forse è già a questi livelli che comincia la preghiera di intercessione. Attraverso il loro operato e le loro preghiere noi veniamo continuamente portati e consegnati a Dio. Solo Dio conosce l’efficacia delle preghiere di tanti che in silenzio e nel nascondimento pregano incessantemente per noi.

Anche Gesù, come Dio col suo popolo nell’Esodo, prende questo uomo “in disparte” (Mc 7,33), lontano dalla folla, loro due soli. Egli lo “separa” dall’abituale contesto ordinario e quotidiano, non tanto per dividerlo dai suoi, quanto per congiungerlo a sé. L’atto del “separare” è tipico di chi entra nella dimensione sacra o religiosa della vita. Il chiamato si separa dal mondo per meglio predisporsi all’ascolto della voce di Dio. È questa anche la dinamica del cammino battesimale. Il distacco dal mondo non è solo un motivo morale, ma una condizione pedagogica. Dio, per prepararci alla sua vita, ha bisogno di relazionarsi personalmente con ciascuno di noi e ciò può avvenire solo se anche noi prendiamo le distanze dalla logica della vita del mondo. 

La salvezza impegna Gesù anche sotto l’aspetto fisico: il suo operato richiama l’atto originario e creativo di Dio, al momento della creazione. Quando Dio crea lo fa con la potenza della sua parola e del suo braccio, intendendo con quest’ultimo l’opera con cui traduce nella realtà ciò che dice con la parola: “Sia la luce, e la luce fu” (Gen 1,3). Parola e opera costituiscono perciò le caratteristiche principali dell’atto creativo di Dio e quindi anche di Gesù. Ciò diviene particolarmente evidente negli elementi che caratterizzano questo miracolo, contrassegnati anch’essi da un simbolismo battesimale: il “tocco delle dita” attraverso le quali egli veicola la sua energia creativa e vitale (cf. Mc 7,33); la “saliva” che è una sorta di condensa del respiro divino (cf. Mc 7,33), per mezzo della quale Gesù rende partecipe l’uomo dello stesso alito divino e quindi della sua vita trinitaria, quella vita originata dalla sua relazione d’amore. Anche il rituale che Gesù segue è ricco di simbolismo teologico: prima di procedere col miracolo, egli “guarda verso il cielo”, emettendo un profondo respiro, come a voler attingere dal Padre la sua energia trasfigurativa, attraverso l’alito. È dopo aver ristabilito questo contatto originario e vitale, che egli pronuncia la parola “Effatà!”, cioè “Apriti!” (Mc 7,34). Marco avverte l’esigenza di riportare questa parola direttamente in aramaico, la lingua parlata da Gesù, come a voler trasmetterci anche il suono della potenza creativa. La sua parola diventa così luogo in cui converge tutta l’energia creativa di Dio e al contempo mezzo espressivo che ne attualizza l’opera. La parola di Gesù, perciò, non è, come per noi, solo un mezzo di comunicazione, ma la condizione creativa con cui riattualizza, nell’oggi della sua fede, l’opera creativa di Dio. Essa ha il potere di ricondurre il sordomuto al suo principio creativo, al momento primordiale della sua esistenza, ristabilendo le condizioni originarie della sua vita: infatti “subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente” (Mc 7,35). Per la prima volta nella sua vita questo uomo ha modo di sperimentare le straordinarie possibilità espressive della sua persona. Esse erano rimaste tacite e inespresse e trovano, ora, a contatto con Gesù, la possibilità di essere esplicitate in tutta la loro potenza comunicativa.  

Parlare correttamente significa parlare con senso, tale da farsi capire. Farfugliare, invece, significa emettere solo dei suoni, privi di senso. Questo limite non era dovuto a un difetto di pronuncia, come può essere la dislessia, ma ad un mancato ascolto della parola stessa. Lui non sapeva parlare perché non aveva mai sentito parlare. Gesù apre il suo udito all’ascolto e sblocca la sua capacità espressiva. In senso spirituale parlare correttamente significa saper dire Dio e comunicare la vita divina che si condivide con lui.

Sotto l’aspetto antropologico e teologico Gesù aiuta questo uomo ad uscire dalla sua chiusa individualità e lo pone nella condizione di aprirsi agli altri. In altre parole gli fa compiere il cammino proprio del chiamato: lo fa uscire da sé – come Abramo – lo educa a relazionarsi con gli altri e lo aiuta a prendere parte del suo popolo – proprio come aveva fatto Dio con Israele quando, grazie a Mosè, lo costituì popolo di Dio –. Nel cammino cristiano tutto ciò significa diventare parte integrante della Chiesa. L’uscita da sé, dalla propria individualità e più specificamente dal peccato è certamente l’esodo più difficile da attuare nella nostra vita. In questo senso il nostro vero esodo è il cammino verso l’essere persona, che consiste essenzialmente nell’acquisire una progressiva relazione trinitaria ed ecclesiale. È questa la vera conversione alla quale è chiamato ogni discepolo di Cristo. La vita ecclesiale, ovvero la vita vissuta all’insegna dell’amore trinitario, costituisce in questo senso il culmine del cammino esodale. Essa è la terra che Dio ci ha promesso e alla quale egli continuamente ci chiama. La Chiesa è il luogo in cui ci si sforza di vivere questa tipologia relazionale. E questo è un cammino che trascende tutta la nostra esistenza. Noi non finiremo mai di essere persona, perché la relazione trinitaria è il moto perenne dell’amore. Il suo compimento sarà infinito ed eterno, esattamente come quello di Dio, “poiché di lui stirpe noi siamo” (At 18,28).  

Il commento evangelico potrebbe terminare qui, ma Marco ci offre ancora un’annotazione che ci fa cogliere più da vicino la metodologia salvifica di Gesù. Egli la traduce con la forma di un imperativo: “E comandò loro di non dirlo a nessuno” (Mc 7,36). Il nascondimento di Gesù è tipico della dinamica rivelativa di Dio. Egli si nasconde per esaltare l’opera del Padre, allo stesso modo con cui lo Spirito si vela per lasciare emergere quella del Figlio. Ognuno a suo modo si nasconde per far emergere l’altro. Nel caso di Gesù tutto ciò che egli dice e fa lo compie in vista del Padre. Questa è essenzialmente la sua opera: rivelare il Padre (cf. Gv 17). Il modo segreto con cui egli compie la sua opera rimanda alla piccolezza del granello di senape e alla kenosi del chicco di grano. Una dinamica questa che contrasta palesemente con quella di tanti membri della Chiesa, i quali operano in vista di se stessi, del proprio nome e della propria immagine. Di contro Gesù opera di nascosto, e paradossalmente, a differenza di noi che spesso finiamo nel dimenticatoio, egli è esaltato e glorificato. Questa è la logica illogica del Vangelo. Proviamo a convertirci ad essa e sono certo che Dio esalterà quanti confidano solo nella sua grazia, esattamente come canta Maria nel suo Magnificat: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; / ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili” (Lc 1,51-52). L’umiltà costituisce perciò la virtù che ci educa ad avere lo sguardo stesso di Dio. Praticarla significa imparare a vivere secondo lo stile della povertà evangelica, ovvero secondo le relazioni trinitarie, per le quali non esistono distinzione sociali, come purtroppo accade perfino di constatare nella comunità ecclesiale guidata da Giacomo (cf. Gc 2,1-5). Dio invece sceglie gli umili o meglio i poveri in spirito per esaltare la sua potenza. Sceglie i sordi per ascoltare la sua parola, sceglie i muti per proclamarla ai duri di cuore.

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