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8 Ottobre 2023 - Anno A - XXVII Domenica del Tempo Ordinario


Is 5,1-7; Sal 79/80; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43


I vignaioli omicidi



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“Ascoltate un’altra parabola: C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei vignaioli e se ne andò lontano. Quando fu il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono … Da ultimo mandò anche il proprio figlio … Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede. Su, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E presolo lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero” (cf. Mt 21,33-39).

Ancora una volta la liturgia ci propone una parabola in cui ritorna il tema della vigna. Dinanzi a questo ulteriore paragone viene da chiederci: come mai Gesù avverte l’esigenza di ribadire con un altro racconto lo stesso argomento? Cosa aggiunge quest’ultima parabola alle altre già commentate? Cos’ha di tanto speciale la metafora della vigna? Sono le domande che guideranno la nostra riflessione in questo commento omiletico.

La parabola in questione racconta di un ricco proprietario terriero che decide di piantare una vigna sul suo terreno, per la quale spende e spande senza misura. A sua difesa pone una siepe e una torre d’avvistamento. Poi, fece realizzare anche un torchio e affidò la sua cura a dei vignaioli, nella speranza di godere dei suoi frutti. Al tempo del raccolto, però, sperimenta una cocente delusione: quei vignaioli nei quali aveva posto la sua fiducia si rivelano tutt’altro che affidabili. Essi, non solo si rifiutano di cedere il raccolto ai vari emissari del proprietario, che vengono sistematicamente picchiati, maltrattati e uccisi, ma decidono di impossessarsi anche della vigna. E come se ciò non bastasse giungono perfino ad eliminare l’unico erede del proprietario, pur di non avere ostacoli nel loro obiettivo. La parabola si conclude con una domanda, con la quale Gesù interpella i suoi interlocutori: “Quando verrà il padrone della vigna, che cosa farà a quei vignaioli?” (Mt 21,40).

Il racconto di Gesù, com’è evidente, non si limita alla semplice descrizione di una drammatica vicenda lavorativa tra un proprietario terriero e i suoi operai, ma traccia in sintesi la storia del popolo d’Israele, durante la quale Dio, nonostante la sua particolare premura, si ritrova costantemente a sperimentare una spiacevole ingratitudine. La parabola di Gesù non è nuova a questo tipo di racconto. Prima di lui altri profeti si erano cimentati con questa narrazione storica[1] e alcuni di essi erano ricorsi anche alla metafora della “vigna”[2], per esprimere la difficile e impegnativa relazione che Dio intesseva col suo popolo, per il quale nutriva sì una straordinaria passione, ma era anche continuamente osteggiato e quindi indotto a compiere scelte pedagogiche dure. Il Salmo 79/80 è un esempio di questo genere: per amore del suo popolo Dio “aveva divelto una vite dall’Egitto ed espulso i popoli per trapiantarla” nella terra di Canaan. Per essa si era impegnato “a estendere i suoi tralci fino al mare e fino al fiume i suoi germogli”. Nonostante però questo notevole sforzo egli, dinanzi al comportamento ostile di Israele, non aveva esitato ad “abbattere la sua cinta” e a lasciarla “devastare dai cinghiali e da ogni animale selvatico” così che “ogni viandante poteva farne vendemmia”.

Anche il profeta Isaia ricorre a questa metafora, quando nel descrivere la relazione di Dio col suo popolo, traccia un racconto molto simile a quello della parabola di Gesù, soffermandosi ad evidenziare le cure e le attenzioni profuse per essa. “Egli l’aveva vangata, sgombrata di sassi, piantato viti scelte e costruito un tino” (cf. Is 5,2). Nonostante tutto essa si rivela un “vitigno selvatico e acerbo”. Da qui la denuncia di Dio: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica?” (Is 5,4). Ne consegue una sconcertante e drammatica decisione divina: “toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni” (Is 5,5-6).

Alla fine di questo racconto viene da chiedersi: qual è la ragione di questo epilogo? Le viti guaste? In verità, come annota Isaia, esse sono viti “scelte e pregiate” (cf. Is 5,2). Pertanto la causa non sta nella loro qualità, ma nel modo con cui vengono coltivate dai vignaioli, i quali anziché vangarle e potarle le lasciano incolte; e invece di farle fruttare se ne impossessano. Non è difficile capire il tipo di interlocutore col quale interagisce Isaia in questo brano profetico, al quale si ispira certamente Gesù con la sua parabola. Isaia, infatti, non indugia a biasimare la “casa d’Israele” come principale responsabile di questo drammatico risultato. Da essa “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,7)[3]. Ad un simile epilogo giunge anche Gesù al termine della sua parabola, quando rivolgendosi ai “capi dei sacerdoti e i farisei”, li invita a prendere coscienza delle loro gravi mancanze e soprattutto della loro palese ostilità nei suoi confronti. Il loro atteggiamento è all’origine della tragica morte alla quale vengono sottoposti i profeti che si sono succeduti nel corso della storia d’Israele, e anche quella di Gesù[4]. Anche lui, infatti, come il “figlio erede” della parabola sarà “cacciato fuori della vigna e ucciso” (Mt 21,39). Non a caso la sua morte avverrà fuori dalle mura di Gerusalemme. Si capisce perciò la citazione del Salmo 118, con la quale egli dichiara implicitamente la sua identità messianica: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo” (cf. Mt 21,42). Come a voler far intendere che quel Gesù che essi ritengono arrogante e presuntuoso è in realtà il vero fondamento della loro fede mosaica; e quella salvezza che essi pretendono di raggiungere per mezzo della legge è in realtà un dono gratuito che Dio ora elargisce attraverso di lui a chiunque si dispone a riconoscerlo come il “Figlio di Dio” e vivere secondo la logica del suo amore evangelico. A causa di questo loro atteggiamento quella vigna che Dio aveva loro affidato, sperando nel loro contributo, sarà tolta a consegnata ad altri, a quelli che sono disposti a lavorare per il suo regno.

Il significato cristologico ed escatologico di questa parabola appare piuttosto chiaro. Pertanto con essa Gesù intende interpellare la coscienza non solo dei suoi interlocutori, ma anche quella degli interlocutori di tutti i tempi, specie quella di coloro che hanno ricevuto da lui in eredità il suo regno e sono stati chiamati a realizzarlo nel mondo. In questo senso la parabola diventa un monito per noi cristiani, che in diversi modi e forme ci ritroviamo a svolgere ruoli di responsabilità all’interno della Chiesa. Anche noi, infatti, al pari degli “scribi e farisei”, non siamo esenti dal pericolo di fare da soli, di salvarci facendo appello alle nostre virtù o ritenere che il futuro della Chiesa dipenda dai nostri ruoli e dalle nostre capacità; anche noi come il “popolo eletto”, non siamo esenti neppure dalla tentazione di considerarci salvi solo per essere membri della sua Chiesa. Tutti, indipendentemente dal ruolo ecclesiale che Cristo ci ha chiamato a svolgere, siamo invitati a guardare a lui come nostro unico salvatore. Il regno come la vigna dipende dalla cura che ciascuno di noi profonde nella sua coltivazione. Pertanto solo chi come il salmista “decide nel suo cuore di compiere il santo viaggio” (cf. Sal 83,6) e ripete continuamente: “Ecco, io vengo. / Sul rotolo del libro, di me è scritto di compiere il tuo volere. / Mio Dio, questo io desidero / la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sal 40,8-9), si rivela degno di sentirsi dire da Gesù: “Bravo servo buono e fedele; hai dimostrato di saper essere fedele nelle piccole cose, ti affiderò la responsabilità di cose più grandi; vieni e partecipa alla felicità del tuo padrone” (cf. Mt 25,21.23).


[1]Basti ricordare Ezechiele che nel capitolo 16 del suo libro traccia l’intera storia d’Israele, ripresa poi sotto altra forma nei capitoli 20, 22 e 23. [2] La letteratura biblica è ricca di questa immagine metaforica per i diversi significati simbolici ai quali rimanda: ai tempi di Gesù e anche nei secoli precedenti e successivi, la sua coltivazione richiedeva un duro lavoro e una paziente attesa, come quello spirituale nei confronti della “parola di Dio”, la cui crescita necessita di un’attenta preparazione del cuore, inteso come il terreno più impegnativo e duro da dissodare; la potatura poi evoca le difficili prove della vita, specie quelle che richiedono un taglio netto e radicale, come quello che viene praticato sui tralci della vite; la sua raccolta è una festa comunitaria perché chiama, per l’appunto “a raccolta” tutti i membri della famiglia e del vicinato: ognuno contribuisce col proprio lavoro esattamente come le feste religiose con i relativi riti liturgici; il suo frutto è motivo di gioia ed allegria, come quello della partecipazione alla vita divina; la sua spremitura, la sua torchiatura, la sua fermentazione sono poi autentiche metafore della passione, alla quale viene sottoposto chiunque decide di compiere fino in fondo la volontà di Dio. Tutte queste immagini convergono nella memoria di Gesù il quale sceglie il vino come l’elemento simbolico del suo sangue e la bevanda del suo calice come simbolo della sua totale adesione al piano d’amore di Dio. [3] Isaia ricorre alla metafora della vigna anche nel capitolo 27,2-5, per descrivere l’intervento futuro di Dio che perdonerà il suo popolo dandole pace e prosperità. [4] È interessante notare come la vicenda di Gesù, e il relativo l’atteggiamento possessivo dei capi dei sacerdoti, degli scribi e farisei verso la vigna di Dio, traspaiano in modo piuttosto evidente dall’episodio biblico di Nabot di Izreel, descritta nel capitolo 21 del primo libro dei Re. Il re Acab, desideroso di acquistare la vigna di Nabot rimane amareggiato e sdegnato dinanzi al suo rifiuto. Non sapendo come impossessarsene cede alla trama diabolica architettata della moglie Gezabele, che fa condannare Nabot alla lapidazione, col l’accusa di aver maledetto Dio e il re. Ma il profeta Elia sgama il complotto e pronuncia la sentenza divina. Dinanzi all’inevitabile condanna Acab si pente e viene perdonato da Dio.

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