8 Dicembre 2024 - Anno C - Immacolata Concezione
- don luigi
- 7 dic 2024
- Tempo di lettura: 11 min
Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38
Maria: immagine della nuova umanità

“In Cristo Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità … E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto” (Ef 1,4-6).
Forse nessun altro brano del Nuovo Testamento, come questo della lettera di San Paolo agli Efesini, esprime meglio il senso della solennità dell’Immacolata Concezione[1] e il fine della nostra vocazione: in Cristo anche noi, come Maria, siamo chiamati ad essere santi e immacolati nella carità. Questo testo perciò costituisce un’importante chiave di lettura, per addentrarci nel mistero del dogma mariano: Maria anticipa, nell’oggi della storia il futuro della nostra redenzione. Collocata nel tempo dell’Avvento la solennità dell’Immacolata Concezione di Maria ci permette, così, di comprendere più in profondità il mistero dell’Incarnazione che ci stiamo accingendo a celebrare, e soprattutto di cogliere il segreto per attuarlo nella nostra vita[2]. Non meno significativo è il titolo mariano attribuitogli da don Tonino Bello, quando la definisce: Maria, donna dell’attesa. Sotto questo aspetto, infatti, anche Maria, al pari di ogni discepolo di Cristo, ha dovuto imparare ad attendere che il mistero di Dio si dispiegasse in lei e non sempre, come attestano i diversi passi evangelici, ha sempre capito tutto di Dio. Al contrario, quando non riusciva a comprendere le parole che gli altri dicevano del Figlio, lei le serbava meditandole nel suo cuore (cf. Lc 2,16-18) [3].
Ma in che modo possiamo diventare “santi e immacolati nella carità”, se le condizioni morali che caratterizzano la nostra esistenza sono del tutto diverse rispetto a quelle di Maria?[4]. Nel tentativo di rispondere a questa domanda troviamo assai pertinenti i brani biblici che la Liturgia della Parola ci propone per la circostanza. Essi ci consentono non solo di delineare lo stato della nostra situazione morale, ma anche di capire il ruolo di Maria nel piano redentivo di Cristo. La prima lettura, per esempio, ci fa memoria di un evento alquanto drammatico della nostra esistenza: la misteriosa realtà del peccato. Il libro della Genesi ne parla in termini di “serpente”, ma è chiaro che si tratta solo di una metafora per alludere a una realtà ben più profonda e strisciante, dall’aspetto misterioso, di cui non è facile capire l’origine e la dinamica, spesso suggestiva, con cui si manifesta nella vita del mondo e nella nostra vita personale. Rimane vero che tutte le volte che aderiamo alla sua logica, talora col nostro consenso più convinto, ci ritroviamo a pagare le disastrose conseguenze che ne derivano, come quelle morali ed esistenziali descritte nel seguente versetto: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3,10). “Paura”, “nudità” e “nascondimento”, costituiscono i sostantivi con cui l’autore del libro della Genesi esprime le conseguenze del peccato. Sembra paradossale parlare di “paura” nei confronti di Dio, di colui cioè che ci ama così tanto da crearci e condividere con noi il suo amore, la sua esistenza, la sua intelligenza, il suo potere creativo, in altre parole la “sua immagine” (cf. Gen1,27-28); eppure questo è lo stato esistenziale nel quale ci fa vivere il peccato. La paura è nient’altro che la conseguenza della propria “nudità esistenziale”, tipica di chi si scopre improvvisamente privo di qualsiasi protezione divina. L’Uomo prende coscienza di questa situazione e ciò lo getta nel panico, nel terrore, nell’angoscia, perché sa di essere diventato preda di tutte le forze negative e caotiche, con cui il peccato esercita il suo potere nel mondo. Infine il “nascondimento” che ne deriva è l’atteggiamento classico di chi si sottrae alla propria responsabilità. Incapace di rendere conto della sua scelta, Adamo si sottrae alla vista di Dio, perché sa di non poter sostenere la verità del suo sguardo e delle sue domande[5]. Si tratta di una reazione che ci induce ad avvizzirci e a ripiegarci su noi stessi, così da contrarre tutte le nostre energie fisiche, morali, affettive, psichiche e intellettive e impedirci di praticare la nostra principale forma di potere: l’amore, che consiste essenzialmente nell’uscire da noi ed aprirci all’altro.
Ne scaturisce un quadro che contribuisce a stagliare la figura di Maria e la specificità della sua spiritualità. Lei, pur condividendo in pieno la nostra umanità, a differenza di noi, ha vissuto sottraendosi quotidianamente a qualsiasi logica di peccato, al punto da essere riconosciuta come l’“Immacolata”, ovvero esente da qualsiasi macchia di peccato[6]. Questo “singolare privilegio” che le viene conferito non costituisce, tuttavia, il motivo della sua beatitudine, che sta invece, come le ribadisce la cugina Elisabetta, nell’aver creduto alla parola del Signore: “Beata te che hai creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc 1,45). Agli occhi di Elisabetta, Maria è beata non perché è Madre di Cristo, ma perché ha creduto nella promessa dell’Angelo, e più precisamente perché si è resa “serva del Signore”, come lei stessa afferma. Allo stesso modo anche noi possiamo dire che Maria è beata non perché è stata preservata dal peccato, ma perché ha aderito e compiuto fino in fondo la volontà di Dio: “Avvenga di me come hai detto” (Lc 1,18). Ecco la ragione della sua beatitudine.
Ma come attuare nel nostro vissuto quotidiano questa beatitudine tipicamente mariana? Come renderci attenti alla voce di Dio che ci rivela la sua promessa, attraverso i messaggeri ordinari come quelli che ci accompagnano nel quotidiano della nostra fede, mentre siamo immersi nel frastuono dei social? Come discernere e distinguere la voce di Dio da quella dominante degli influencers che condizionano continuamente le nostre scelte? È chiaro che in un simile contesto l’atteggiamento di Maria, descritto da Luca in questo episodio evangelico, potrebbe apparirci molto lontano dalle nostre possibilità, eppure essa delinea le condizioni fondamentali per mettersi in ascolto di Dio. La sua chiamata, al di là dell’unicità e irripetibilità che la caratterizza, è un evento dello Spirito e come tale ciascuno di noi è chiamato ad accogliere lo stesso Spirito, nel momento in cui egli posa in noi il seme della promessa divina. Qui non è questione di intelligenza, di qualità creativa, cognitiva o speculativa, e neppure di profondità ascetica, ma di disponibilità totale all’opera che Dio intende realizzare in noi, per mezzo del suo Spirito. “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38), non è la formula suggestiva di una ragazza che nutre un forte anelito spirituale, ma la resa totale dinanzi all’opera di Dio, riconosciuto come il Tutto della propria vita. Ella capisce che una simile opera potrà compiersi solo a condizione di lasciare Dio libero di essere se stesso in lei. Il che significa che il Mistero accade in lei non perché è capace di comprenderlo con la sua ragione, bensì perché ha il coraggio di tuffarsi totalmente nell’abisso della sua assurda misteriosità. La fede non s’origina da un atto di comprensione, che comunque non va escluso, ma da un atto di radicale fiducia, affidamento e abbandono totale alla promessa di Dio.
Maria, nella sua semplicità, ha colto l’essenza della fede e come tale il suo comportamento è da considerarsi alla base di ogni forma di spiritualità ecclesiale. In questo senso il racconto che l’evangelista Luca ci offre della sua chiamata, costituisce un paradigma di ogni vocazione nella Chiesa. Il suo atteggiamento ha il merito di predisporre il cuore e la mente di tutti coloro che decidono di guardare al compimento del disegno salvifico di Dio in loro con attesa e premura. Se da una parte, come sottolinea il testo, Maria sperimenta, al pari di ogni uomo e donna, l’abisso del Mistero che l’Angelo le apre col suo annuncio, e il comprensibile turbamento che può generare nel suo animo una simile percezione (cf. Lc 1,29), dall’altra ci traccia la via privilegiata da percorrere per giungere al suo accadimento storico. Guardare a Maria, dunque, non significa recuperare quell’intimismo devozionistico, tipico di una certa tradizione popolare, talvolta avulsa da qualsiasi contesto ecclesiale e perfino dallo stesso Vangelo, bensì a quel realismo spirituale, dove Maria ci appare pienamente radicata nel vissuto della tradizione biblica, fedele alla promessa di Dio (cf. MagnificatLc 1,46-55)[7].
La testimonianza evangelica che Maria ci eredita, dunque, è quella descritta da Paolo nella sua lettera. In questa luce Maria si rivela, determinante per capire la nostra economia di salvezza. In lei è già evidente ciò che saremo, cioè “santi e immacolati”. Questa “santità” e “immacolatezza” Paolo la esprime e descrive in termini di filialità divina. In Cristo tutti siamo chiamati a diventare “figli adottivi”. La filialità di Cristo diventa, così, il nostro dover essere. Essa è l’eredità che Dio ha riservata per noi. Maria ci insegna che la condizione fondamentale per il conseguimento di questa filialità divina è il sì totale pieno e incondizionato alla volontà di Dio. Senza una reale e concreta condivisione del suo sì, risulta praticamente difficile realizzare un simile piano salvifico. Maria col suo sì ci rivela il segreto e il principio di questo stile di vita evangelico. A noi rinnovarlo nell’oggi della nostra fede.
[1] Il dogma dell’Immacolata Concezione fu proclamato da Pio IX nel 1854, con la bolla Ineffabilis Deus. La ragione per cui viene scelta la data dell’8 dicembre dipende dal fatto che, secondo la tradizione cristiana, Maria è nata l’8 settembre, esattamente nove mesi dopo la nostra data. La principale fonte da cui viene attinta questa notizia è il Protovangelo di Giacomo. Il particolare ruolo di Maria nel piano redentivo di Dio ha portato la Chiesa a proclamarne il dogma dell’Immacolata concezione. In realtà si tratta di una fede antica, sebbene abbia assunto la valenza dogmatica in un tempo relativamente recente. Questa solenne proclamazione dogmatica, tuttavia, è stata diversamente interpretata a livello teologico, specie in campo ecumenico, sia da parte Ortodossa che Protestante. Le difficoltà nascono dal fatto che tale verità a loro giudizio sembra intaccare la dottrina cristiana della redenzione, secondo la quale Cristo viene considerato salvatore di tutte gli uomini e come tale anche di Maria. Egli è l’unico di cui si può affermare che pur condividendo tutta la condizione umana, è senza peccato. In tutto egli si è fatto uomo tranne che nel peccato. Ciò che gli Ortodossi contestano alla Chiesa Cattolica è l’uso di alcune formule, come “speciale privilegio” perché lasciano intendere una sorta di azione arbitraria di Dio, mentre i Protestanti contestano il mancato fondamento biblico di una simile verità di fede e il silenzio della tradizione più antica. Nel tentativo di rimanere fedeli alla dottrina cristiana, e conciliare sia la visione Ortodossa che Protestante, potremmo usare al posto di “singolare privilegio” la formula “originale redenzione” di Maria. San Paolo nella lettera agli Efesini dice infatti che ogni creatura in Cristo è stato scelto prima della creazione del mondo per essere santo e immacolato nella carità (cf. Ef 1,4). In altre parole lei sarebbe stata redenta da Dio sin dall’atto del suo concepimento. Lei pertanto, in vista della missione che avrebbe svolto, sarebbe stata redenta da Dio nel momento del suo concepimento. Ma potremmo prendere in considerare anche un altro passo paolino che potrebbe aiutarci ad esplicitare l’intuizione della verità espressa nel dogma mariano. Ci riferiamo al passo della lettera ai Romani, dove Paolo afferma che “Quelli che Dio da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. Quelli poi che ha predestinati la ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati” (Rm 8,29.30).
[2] In un simile contesto liturgico Maria ci insegna a compiere il passaggio dalla maternità fisica alla quella spirituale. Un passaggio che evidentemente non avviene in un preciso momento storico, come l’evento del concepimento del Verbo, ma attraverso un progressivo accadimento spirituale, durante il quale ha modo di rinnovare continuamente il proprio “sì” al piano salvifico di Dio. In questo senso la consegna sotto la croce (cf. Gv 19,26-27), ovvero quando il Figlio le chiede di prendere in custodia il discepolo e quindi di divenire “Madre della Chiesa”, è solo l’atto ufficiale di un evento maturato nel corso del suo discepolato evangelico. È questa maternità che Maria ci consegna e che noi siamo chiamati a ereditare e a trasmettere ad ogni generazione ecclesiale che si affaccia alla vita evangelica. È in questa eredità che si delinea lo specifico della spiritualità mariana e l’itinerario di fede che come cristiani, siamo chiamati a tracciare nella Chiesa e nel mondo: generare il Cristo tra gli uomini attraverso il comandamento dell’amore reciproco, secondo il detto del “Dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono io presente in mezzo a loro” (Mt 18,20).
[3] Nessuno più di lei ha vissuto l’attesa del Figlio di Dio sia sotto l’aspetto fisico che spirituale, non solo per averne atteso la crescita in età, ma anche per averne atteso quella in sapienza e grazia. Anche noi, come Maria, diveniamo discepoli dell’attesa quando attendiamo, meditandolo, il compimento della promessa di Dio nella nostra vita e nella vita della Chiesa. Anche noi, infatti, come Maria possiamo concepire Dio nel nostro spirito, attraverso il comandamento dell’amore, col quale stando al detto di Gesù: “dove due o più vivono l’amore reciproco”, noi possiamo divenire grembo della Chiesa che genera e rende visibile il corpo di Cristo. È qui che si rivela il prodigio della nostra maternità e paternità spirituale. Pur essendo madre di Gesù Maria, al pari di ogni discepolo, ha imparato ad attendere la sua manifestazione messianica. Anche lei ha faticato a riconoscerlo come Cristo, Figlio di Dio. In questo senso, come afferma sant’Agostino, Maria ha gioito più per essere stata discepola del Figlio che non per la sua maternità. In questo sta la sua vera beatitudine. Il che significa che tutte le volte che nella Chiesa siamo attraversati da tentazioni e ostentazione di potere spirituale, intellettuale, culturale, clericale dovremmo fare memoria dell’umiltà con cui le ha accolto l’azione dello Spirito e il dispiegarsi della sua opera nella sua vita. Più di ogni altro lei ha saputo viver la beatitudine dei poveri in spirito, e per averlo ha consentito a Dio di operare in lei grandi cose. La memoria della sua spiritualità può favorire nell’immaginazione che la rende presente, reale e viva nel nostro quotidiano.
[4] Saremmo tentati di considerarla avvantaggiata rispetto a noi, eppure il nostro destino, come ci ricorda san Paolo, è del tutto simile al suo. Si tratta perciò di individuare le condizioni per attuarlo nel nostro vissuto quotidiano e quindi di tracciare un percorso spirituale, che ci consente di guardare a lei e fare nostro il suo modo di fare la volontà di Dio. Anche Maria, infatti, benché “Madre di Cristo” ha aderito e vissuto tutte le condizioni evangeliche del Figlio, per conformarsi alla volontà del Padre suo. Si rivela perciò straordinariamente profonda l’intuizione di Dante quando, nel XXXIII canto del Paradiso, la definisce: “Vergine madre, figlia del tuo figlio”. La fiduciosa adesione di Maria al progetto di redenzione del Figlio è stata particolarmente suffragata da Sant’Agostino, il quale sosteneva che “è cosa più grande per Maria essere stata discepola di Cristo che essere stata madre di Cristo. Così Maria è beata, perché ancora prima di partorire portava nel suo utero il Maestro” (Agostino, Discorso72/a,7, in Id., Opere di Sant’Agostino, Discorsi II/1, Città Nuova, Roma 1982).
[5] Immerso in questa drammatica condizione esistenziale Adamo si sottrae allo sguardo di Dio, dal quale si sente rivolgere la domanda: “Dove sei?”. Siamo soliti porre a Dio questa domanda, specie nelle situazione più tragiche, come quelle del dolore innocente in cui le persone si ritrovano ad essere vittime della prepotenza altrui. Si tratta di situazioni dinanzi alle quali sperimentiamo l’assurdità del silenzio e della sordità di Dio. Eppure proprio in queste circostanze viene da chiedersi se l’assenza o la sordità divina, non siano più la proiezione della nostra mancata responsabilità che non un’effettiva distanza di Dio da noi.
[6] Il dogma dichiara che Maria è stata preservata dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento. In questo senso lei, pur essendo stata concepita dai suoi genitori (Gioacchino e Anna), allo stesso modo di tutte le creature umane, non è mai stata toccata dal peccato. Un simile privilegio è dovuto al fatto che lei non solo avrebbe dovuto concepire il Verbo e portarlo nel suo grembo, ma anche perché avrebbe dovuto dare al Verbo una natura umana incontaminata. Il fondamento biblico che comprova questo privilegio sta nell’appellativo “Piena di Grazia”, col quale l’Angelo la saluta al momento dell’annuncio. Esso non è un semplice saluto, ma il riconoscimento manifestato a chi era piena della Vita di Dio, perché costitutivamente immacolata.
[7] Purtroppo ancora oggi, tra i cristiani, non mancano i casi che evidenziano lo stridore tra quella forma di devozione mariana che da una parte, ne esalta la venerazione, e dall’altra, ne evidenzia la scarsa conoscenza biblica. Da qui alcune domande alle quali siamo tutti coinvolti nel cercare una soluzione: quale conoscenza biblica di Maria siamo chiamati ad acquisire, per dare una svolta a quello scialbo e sterile devozionismo mariano che caratterizza, tutt’ora, gran parte della spiritualità dei fedeli cristiani? Come interrompere quella spirale di indifferentismo religioso che preclude, invece, alle giovani generazioni, ogni forma di venerazione mariana? Sembra perciò più che evidente che il futuro del culto mariano, senza escludere l’imprescindibile apporto della vitale creatività popolare, dipenda in molta parte dalla conoscenza che i credenti avranno di lei attraverso la Scrittura. In questo senso risulta determinante un approfondimento di quei dati evangelici e neotestamentari che sia pure scarsi, hanno dato il via allo sviluppo di quella venerazione che a partire dai Padri della Chiesa, si è diffuso in modo massiccio nel mondo e nel tempo. Si tratta evidentemente di un apporto che mentre da una parte giustifica e fonda la spiritualità mariana nella Chiesa, dall’altra ci insegna a farci interpreti della sua rinnovata sensibilità spirituale, nell’attuale contesto ecclesiale.
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