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8 Dicembre 2022 - Anno A - Immacolata Concezione di Maria


Gen 3,9-15.20; Sal 97; Ef 1,3-6.11-12; Lc 1,26-38


Santi e immacolati nella carità


Inserita nel tempo dell’Avvento la solennità dell’Immacolata Concezione prefigura, già nell’oggi della nostra fede, ciò che siamo chiamati ad essere in Cristo Gesù, ovvero: “santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1,4). Il brano della lettera di San Paolo agli Efesini costituisce perciò la chiave di lettura della solennità e della Parola di Dio di quest’oggi, in quanto ci consente di cogliere la differenza tra la nostra umanità, corrotta dal peccato, e quella pura e casta di Maria, rimasta santa e immacolata sin dalla sua concezione verginale. In questo senso Maria costituisce il nostro dover essere. In lei è già compiuta la salvezza che noi sperimenteremo in modo definitivo alla fine dei tempi, quando Cristo consegnerà tutto il creato al Padre … finché Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,24.28).

La liturgia della Parola, tuttavia, non si limita a esplicitare solo il contenuto di questo dogma mariano, ma propone anche un cammino di conversione a quanti desiderano conformarsi alla santità di Cristo, perseguendo la spiritualità di Maria. I brani biblici ci offrono così la possibilità di ripercorrere, sia pure in modo molto sintetico, le tappe principali della salvezza, di cui Maria costituisce una testimonianza autentica e credibile. In lei anche noi siamo chiamati a generare Gesù nel mondo.

Il peccato (prima lettura) descrive lo sfondo sul quale si dispiega il mistero della salvezza che Dio, a partire dai Patriarchi e attraverso i Profeti, ha compiuto in Cristo. È prendendo coscienza di questa storia salvifica che anche noi possiamo predisporci a quell’atteggiamento di “attesa” della salvezza in Cristo, a cui siamo chiamati in questo tempo di Avvento. Disattendere o mostrarsi addirittura indifferenti a tutto ciò significa precludersi la possibilità della redenzione. In altre parole chi non crede non ha motivo di “attendere” la salvezza divina.

L’episodio del peccato di Adamo ed Eva, per lo stile narrativo apparentemente ingenuo con cui viene espresso, potrebbe urtare la sensibilità scientifica di qualcuno, in realtà esso ha lo scopo di introdurci nel mistero del male, il cui evento originario ci appare così ancestrale e abissale che non avremmo possibilità di capire e forse neppure di intuire, senza la parola rivelativa di Dio. Il che significa che per quanto sia stato commesso dall’uomo, nessuno ha potuto registralo o documentarlo secondo i criteri della moderna storiografia. Per questo esso è e rimane un mistero, di cui la Parola di Dio costituisce un criterio con cui scrutarne la profondità. In questo senso l’indagine teologica rimane imprescindibile. Senza il riferimento divino, infatti, neppure potremmo parlare di “peccato”, ma al massimo del “male di vivere”, come direbbe il poeta Montale. Tanto meno di Cristo come salvatore degli uomini. Da qui l’esigenza di cogliere il senso di questi brani biblici, al di là delle immagini semplici che ne descrivono l’accadimento.

È chiaro che il peccato, così come viene espresso nel libro della Genesi, non si riduce appena appena al “gesto di mangiare una mela”, e neppure all’atto trasgressivo di una norma morale, compiuto imprudentemente dai nostri progenitori, le cui drammatiche conseguenze si sono poi riversate sulle successive generazioni, come se queste fossero prive di ogni colpa[1], ma di una scelta di vita diffusa nel tempo e condivisa dall’intera umanità, di cui Adamo ed Eva costituiscono i rappresentanti simbolici, per sottolineare la responsabilità personale che comporta il peccato. Una scelta che ha comportato un progressivo allontanamento del centro e dalla sorgente, quale è appunto Dio, considerato come il principio originario della creazione e della vita che la anima e la sostiene nel tempo. Così descritto il peccato viene concepito come una realtà che ha indotto l’umanità a vivere un’esistenza assai diversa rispetto a quella pensata da Dio, facendole smarrire il senso originario della vita. Una vita fuori di Dio, come una freccia lontana dal bersaglio, ecco l’immagine dell’esistenza lontana da Dio, che l’autore biblico intende trasmettere quando parla del ruolo svolto dal serpente nella vita relazionale tra Adamo, Eva e Dio.

Tutto il racconto del peccato è caratterizzato, perciò, da un linguaggio figurato, un modo questo per dire quelle verità di fede che sarebbe molto difficile da esprimere con un linguaggio teologico astratto e concettuale. Da qui l’uso di immagini come quella di Adamo ed Eva in cui si scoprirono nudi (cf. Gen 3,10). Non si tratta della nudità fisica, ma di quella esistenziale, per dire che si scoprirono privi della relazione con Dio, quale fondamento della loro vita. Al pari della grazia, anche il peccato ha il potere di aprire gli occhi, ma non sulla profondità dell’amore di Dio, bensì sull’abisso del nulla, nel quale viene introdotto chi segue la logica del peccato. Anche in questo caso l’espressione “aprire gli occhi” è un’immagine figurata per alludere alla presa di coscienza della propria condizione di vita, alla quale l’uomo perviene in virtù dell’intelligenza che Dio ha condiviso con lui. Un’intelligenza illuminata dalla Sapienza che scaturisce dalla Parola è ciò che consente ad Adamo e ad Eva, e quindi a ciascuno di noi, di uscire fuori dalla logica del peccato. A questo sembra alludere la conclusione del nostro brano, dove Dio stesso prefigura l’atto redentivo che si sarebbe compiuto grazie a Maria: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gen 3,15).

Si capisce allora il contenuto del brano paolino (seconda lettura), che esplicita il senso della nostra chiamata: “in Cristo (Dio) ci ha scelti prima della creazione, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-6). La filialità di Cristo diventa, così, il nostro ideale di vita; lo scopo a cui tendere durante tutta la nostra esistenza; l’eredità che Cristo ha deciso di condividere con noi, per conformarci alla sua gloria di Figlio diletto (cf. Ef 1,6).

Il brano evangelico di Luca ci fa capire, infine, la modalità in cui la salvezza può concretamente realizzarsi nella nostra vita, proponendoci Maria come modello del discepolo di Cristo, teso a compiere la volontà di Dio nel quotidiano della vita. Sia pure coinvolta all’interno di un disegno misterioso e incomprensibile per lei, Maria ci viene presentata, infatti, come la “donna del sì”: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38). Questo atteggiamento di estrema docilità all’azione dello Spirito redentivo di Dio, costituisce per noi un invito all’umiltà, che è la condizione morale fondamentale per uscire dal peccato. Come per Maria anche per noi l’umiltà spirituale costituisce la condizione dell’estrema fiducia nella Parola di Dio, alla quale lui ci chiama per trarci fuori dal peccato. Non a caso la beatitudine che le riconosce la cugina Elisabetta, non è quella d’essere stata scelta come madre di Dio, bensì per avere creduto alla Parola del Signore: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45). Per questa fede occorre una radicale conversione del cuore e della mente al piano redentivo di Dio, una conversione che va tradotta in una totale adesione alla logica rivelativa di Dio. Esattamente come fa Maria che traccia per noi anche la via della fecondità spirituale, come di chi vede nell’azione dello Spirito il segreto per generare Cristo tra gli uomini: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35). In Maria ognuno di noi, nella misura in cui si lascerà fecondare dallo Spirito, potrà divenire padre e madre di Gesù nel mondo e perpetuare la sua maternità spirituale nel tempo. Scelta da Dio per essere “madre”, Maria si fa “serva di Dio”, per scelta personale, decidendo di vivere tutta la sua la vita all’insegna della logica evangelica del servizio, esattamente come Gesù, quando dice che “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di tutti” (Mc 10.45). Maria traccia così lo stile della vita ecclesiale, diventando l’immagine di quella Chiesa che attende di manifestare al mondo la gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-23).


[1] Consiglio a questo riguardo la lettura del capitolo 18 del profeta Geremia, il quale introduce un diverso criterio di interpretazione del peccato, le cui conseguenze si manifestano in primo luogo in chi ne condivide la logica.

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